L’istituzione della carità
e del Sacramento della carità
TEMPO DI PASSIONE…
Così don Primo Mazzolari amava definire i giorni che precedevano la Pasqua.
DOMENICA DELLE PALME
“La settimana santa comincia con l’ulivo e finisce col legno. Due insegne diverse portate da mani diverse, ma così vicine tra di loro che, nonostante il sangue che già cola dalle mani del Figlio dell’uomo, si confondono. L’innocenza ha mani diverse, ma eguali trasparenze nel cuore e nel volto. I fanciulli di Gerusalemme aprono la processione del Calvario, che si raggiunge per tutte le strade, e, portando rami di palma e d’ulivo, cantano: “Osanna al Figlio di Davide: benedetto Colui che viene nel nome del Signore!”.
“Due innocenze consolano il mondo, gli danno “speranza” e lo portano: l’innocenza dei fanciulli e l’innocenza del Crocifisso. Solo delle mani pure e forate possono innalzare tra i popoli e le nazioni l’insegna divina della pace: solo i fanciulli che non hanno ancora visto il soffrire, e colui che lo porta e lo espia in pace, per far cadere le barriere e gli odi che ci dividono e mettono i figlioli del Padre gli uni contro gli altri.
GIOVEDÌ SANTO
Il Cenacolo, “ove il Maestro mangerà la Pasqua con i suoi discepoli”, viene scelto e preparato in maniera prodigiosa.
Del patrono della prima basilica e del primo altare non sappiamo neanche il nome. In seguito, né la leggenda né l’arte hanno mostrato di occuparsi di lui. Il padrone del Cenacolo viene scoperto per caso, seguendo un uomo che porta una brocca d’acqua. “Dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza da mangiarvi la pasqua con i miei discepoli?”. Ed egli vi mostrerà di sopra una gran sala ammobiliata e pronta: qui apparecchiate per noi.
Si rimane edificati e sorpresi davanti ad una docilità senza eguali. Quanta fede sin quel padrone di casa e quanta generosità! Non solleva neanche un’obiezione davanti al desiderio del Signore; né mette fuori il conto della pensione. E i pretesti, senza parere scortese, potevano essere tanti…
Gesù era un senza casa, uno sfollato, e aveva bisogno che uno gli cedesse un po’ della sua, almeno per la pasqua.
Questa sera l’amore di Cristo ha bisogno di questa larga stanza, ma non vuota e dissipata come certe nostre cattedrali. Ne ha bisogno per lavare i piedi dei suoi poveri apostoli, per fare il Pane della Vita, per suggellare l’Istituzione col suo testamento. Ed ecco che un uomo senza nome, un padrone di casa, gli impresta la sua camera più bella.
I senza casa di ogni tempo, gli sfollati di oggi che sono milioni, hanno il loro santo protettore, un santo senza aureola, senza chiesa e senza altare, in colui che ha imprestato a Cristo la prima Chiesa e il primo altare.
Egli ha dato ciò che aveva di più grande, perché intorno al grande sacramento ci vuole tutto di grande, camera e cuori, parole e gesti.
Così fu il primo ostensorio eucaristico preparato da quell’ignoto padrone di casa. Me lo raffiguro, alla fine del banchetto, con la moglie e i figli, nel vano della porta semiaperta, farsi avanti per ultimo, mendicante più che commensale di un pane che aveva preparato con le sue mani e che il Cristo, benedicendolo, aveva cambiato in pane di Vita eterna.
CAPITE QUEL CHE VI HO FATTO?
“Gesù sapendo che era venuta per lui l’ora di passare da questo mondo al Padre…” Per un cristiano non ci sono ore inconsapevoli: ogni ora segna il transito dal mondo al Padre, dal terrestre al spirituale, dal parziale all’universale, dal temporale all’eterno.
Il distacco che prepara il transito non può avvenire che per un accrescimento d’amore, vale a dire nella luce della carità del Padre, che non conosce limiti.
“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.” Si sale verso il Padre, con un cuore purificato ma non separato. Il nostro vero patrimonio umano ce lo portiamo con noi per accrescere il valore nella santità.
Niente ci deve impedire di portare “sino alla fine”, nella pienezza della carità, i nostri vincoli umani: neanche la presenza del traditore, neanche la possibilità di piegare per altre vie le resistenze delle creature.
Proprio quando Gesù sa che il “diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariota di tradirlo”, quando ha la certezza “che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che stava per ritornare al Padre…”, “si levò da tavola, depose le sue vesti e, preso un asciugatoio, se ne cinse…”. Facendosi uomo “aveva preso la forma del servo”. Ma nessuno se ne era accorto fino a quel momento, tanto era in alto il Maestro nella sua così comune umanità. Operava grandi miracoli, si trasfigurava nel monte, predicava con autorità mai vista, parlava come un profeta non aveva mai parlato.
Gli uomini avevano bisogno di vedere il servo, in una forma evidente, inequivocabile. L’amore ve l’avrebbe fissato per sempre in attitudine, che sfida le false grandezze e le false dignità create dal nostro orgoglio.
“Si levò da tavola, depose le sue vesti, e preso un asciugatoio se ne cinse. Poi mise dell’acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio.” Non ha incominciato né da Pietro né da Giovanni; forse da Giuda, per gustare subito l’estrema ripugnanza di servire l’inservibile, di amare l’inamabile.
Quando arriva da Pietro si sente dire: “Tu, Signore, lavi i piedi a me?” Pietro capiva il fatto dell’umiliazione, non capiva la lezione che il Maestro intendeva fargli attraverso il mistero dell’umiliazione.
Neanche il primo degli apostoli sapeva che l’unica condizione per aver parte con lui è legata, più che a una lavanda materiale, alla continuazione di quella carità che il Cristo veniva istituendo con un atto quasi sacramentale.
“Come dunque ebbe lavato i piedi ed ebbe riprese le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: “Capite quel che vi ho fatto?”. E poiché gli apostoli non capivano l’istituzione della carità, che doveva precedere di poco l’istituzione del Sacramento della carità, il Maestro è costretto a continuare la lezione. “Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io che sono il Signore e Maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Poiché io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto io.”
L’istituzione dell’Eucaristia si chiude con parole quasi uguali: “Fate questo in memoria di me”.
I cristiani di tutti i tempi hanno trovato più facile ripetere la presenza Eucaristica della Presenza della carità, dimenticando che non si può capire una Mensa dalla quale, almeno uno, dietro l’esempio del Maestro, non si alzi per continuare nel mondo quella carità che è il fermento celeste del pane del Mistero.
È forte e provocatoria la conclusione, che don Primo Mazzolari, trae: non possiamo celebrare l’Eucaristia se prima non abbiamo servito il Signore nei nostri fratelli. Molto spesso si pensa che l’amore verso i fratelli sia un di più del cristiano o lasciato alla sua buona volontà: non è così. Se non si vive prima l’incontro del Signore nei nostri fratelli sarà difficile incontrare Gesù nell’Eucaristia. Il comanda che Gesù ci lascia è lo steso: “Fate anche voi come ho fatto io” e “Fate questo in memoria di me”.
Chiediamo al Signore che la nostra comunità parrocchiale sappia sempre fare questo unico incontro: di Gesù nei fratelli e di Gesù nel Pane vivo. Viviamo anche noi questi giorni della passione morte e Risurrezione di Gesù con lo stesso suo desiderio: “Ho desiderato ardentemente di celebrare con voi questa Pasqua”.
Che la luce del Cristo risorto illumini la nostra vita e ci dia la forza di testimoniarlo.
BUONA PASQUA!