BATTESIMO DEL SIGNORE – Anno C
(Is 40,1-5.9-11; Sal 103; Tt 2,11-14;3,4-7; Lc 3,15-16.21-22)
Non ci soffermeremo oggi sul racconto di Matteo, che ha certamente radici storiche: nella Bibbia gli astrologi non sono mai stati considerati con simpatia e quindi il fatto è vero, proprio perché contro corrente. In seguito la devozione e il culto popolare hanno fatto sorgere un genere letterario intorno alla figura di Magi.
La festa di oggi ci dice che nell’Incarnazione si compie la promessa presente nell’Antico Testamento, promessa di salvezza per tutti i popoli. Abbiamo ascoltato le parole del profeta Isaia: “Cammineranno i popoli alla tua luce… I tuoi figli vengono da lontano… verranno a te i beni dei popoli… tutti verranno…”. Tutti gli uomini possono trovare Dio, come i Magi. Essi hanno visto la stella, allora si sono mossi, sono partiti dalla loro terra, aiutati, hanno trovato il Signore. Ciascuno di noi, nella sua storia personale, deve avere questi stessi atteggiamenti.
Da sempre l’uomo ha cercato Dio. Oggi sembra prevalere la ricerca scientifica, ma la ricerca di Dio è un dovere per quanti sono chiamati alla fede e vogliono scoprire il senso della realtà e della storia da un punto di verità e di luce, per vincere il dubbio e la disperazione, ma anche per superare l’atteggiamento mediocre del qualunquismo. Dobbiamo cercare Dio, perché oggi, nel mondo, c’è una grande attesa del divino.
Ma come cercare Dio?
Per noi che abbiamo il dono della fede è un dovere non fermarci mai, approfondire la nostra ricerca di lui, fino al giorno in cui lo contempleremo faccia a faccia. Non bisogna fermarsi nell’appagamento di quanto ci è stato insegnato, di quanto fin ora abbiamo capito. E neanche accontentarci della celebrazione dei riti, che può anche allontanare dalla verità di Dio. Non ritenere di avere trovato, ma sapere che c’è una luce, una stella quel “Lumen Cristi”, che celebriamo nella veglia pasquale. Nell’oscurità della fede questa luce è certezza che Dio si può trovare. Come dice Pascal, non lo cercheremmo se non lo possedessimo già in qualche modo. Dio è già presente nella nostra ricerca, la ricerca antica del Salmo 42: “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente…”. Per trovare Dio dobbiamo cercarlo.
Ma la certezza della presenza di Dio è diversa da quella della nostra esperienza sensibile: sono certo del marmo, perché lo tocco. Paolo VI diceva è impossibile trovare Dio allo stesso modo con cui troviamo una cosa. Egli non è reperibile nella certezza delle cose, proprio perché non è una cosa! Nulla di quanto diciamo di Dio può corrispondere alla sua realtà tutta intera. Ogni volta che crediamo di possederlo, ci sfugge. Diciamo che egli è giusto e buono e poi ci sembra ingiusto e vendicativo, diciamo che è misericordioso e ci appare crudele… Mai la ricerca di Dio è scontata. Egli è sempre oltre le nostre affermazioni, le nostre categorie mentali, le nostre conquiste, le nostre certezze. Nel capitolo 33 del libro dell’Esodo, Mosè, che pur aveva parlato con lui sul monte Sinai, chiede al Signore: “Mostrami il tuo volto”, però non riesce a vederlo che di spalle.
Ma allora, se non saremo mai appagati nella ricerca di Dio, come potremo trovarlo? Certamente non nell’eccezionale e nel meraviglioso, come oggi si crede troppo spesso. Il Vangelo di Matteo ci dice che ordinariamente Dio non agisce nel meraviglioso, ma nell’interiorità della nostra anima, nella fede, nell’amore, nella fedeltà alla Parola. Chi si sforza di custodire e cercare Dio con umiltà e fedeltà ne sperimenta la presenza. “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” dice Gesù al capitolo 14 del Vangelo di Giovanni, prima di congedarsi dai suoi. Noi non conosciamo Dio attraverso la lettura di libri e ancora meno attraverso le discussioni, ma solo attraverso l’amore. È un amore personale e intimo, che fa spazio alla luce dello Spirito Santo nella interiorità della coscienza, dove Dio non è conoscenza intellettuale, ma esperienza di fede. È la Sapienza di cui la Scrittura dice che “sa” Dio. È la via dell’amore. È quell’amore personale ed intimo che si esprime nell’amore fraterno: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, ci ha detto Gesù nel Vangelo di Matteo. La relazione umana, vissuta nella fede, permette al fratello di svelare Dio al fratello, perché egli lo ritrovi nel paradiso del suo cuore. È la via della fraternità, che tanti sperimentano con gioia.
Simone Weil, nel suo libro, “L’amore di Dio”, scrive: “La necessità, quaggiù, è la vibrazione del silenzio. La nostra anima fa continuamente del rumore, ma c’è un punto in lei che è silenzio e che noi non sentiamo mai. Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora abbiamo in Dio il nostro tesoro e il nostro cuore. E lo spazio si apre davanti a noi come un frutto che si separa in due, perché vediamo ormai l’universo da un punto situato fuori dello spazio”.
Preghiamo per quelli che cercano e per quanti nella fraternità hanno trovato Dio. La festa dell’Epifania ci dice che trovare Dio è possibile, è possibile metterci in comunione con l’adorazione dei Magi e di quanti nei secoli lo hanno cercato e lo hanno trovato.
Lasciamoci illuminare dalla stella, testimonianza del Dio che si è lasciato trovare.
Per comprendere il mistero della festività odierna siamo molto aiutati dalle parole di Karl Rahner, il teologo recentemente scomparso: solo ora che, con il Battesimo, il Signore si è fatto realmente uomo, possiamo capire come il nostro destino gli stia a cuore, perché adesso lui, in persona, è dentro l’umanità. In lui è la nostra sorte, la nostra gioia terrena.
Questa domenica segna il passaggio fra il tempo liturgico del Natale e quello ordinario, in cui siamo chiamato a seguire Gesù nel suo insegnamento, lungo le strade della Palestina.
La liturgia del Battesimo del Signore è come un segnale che ci conduce nella direzione giusta per comprendere nella sua totalità il mistero della vita di Cristo. Nell’iconografia sacra della Chiesa di Oriente, specialmente nel Medio Evo, quando l’arte era specificamente ispirata dalla religione, le rappresentazioni della natività avevano sempre anche un riferimento alla Pasqua: accanto alla raffigurazione della grotta e della mangiatoia c’erano i segni del Golgota, del sepolcro. Veniva indicata così l’unità del mistero della nascita, della morte e della resurrezione del Signore.
Su Gesù, uscito dalle acque del Giordano, scende lo Spirito: è quello stesso Spirito che aleggiava sulle acque al momento della creazione, lo Spirito, che, dopo il diluvio, realizzò la nuova creazione. La voce del Padre che dice: “Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto”, non è una manifestazione esteriore. Luca, nel suo Vangelo, è sempre molto attento all’interiorità personale. Ricordiamo Maria, che di fronte al mistero del Figlio suo, conservava tutti gli avvenimenti nel suo cuore, meditandoli. Ora Gesù avverte la rivelazione del Padre nel silenzio, come sua esperienza personale di fede. Il Vangelo parla del fatto che Giovanni era già stato arrestato: l’esperienza di Gesù avviene solo nell’intimità della preghiera. È lì che egli comprende la sua vocazione, la sua consacrazione che avviene dall’alto, nella rivelazione della Trinità: si ode la voce del Padre, rivolta al Figlio, mentre lo Spirito discende su di lui. Riceviamo anche noi questa consacrazione dall’alto, l’indicazione della nostra vocazione personale. Solo il Padre ce la può dare.
La consacrazione è il dono che il Padre fa a Gesù, dicendogli tutto il suo amore e confidandogli che la sua vita è dono per l’umanità intera, perché essa conosca l’infinità dell’amore divino. La coscienza che, nella profondità della preghiera, Gesù fa della sua totale appartenenza al Padre, gli permette di prendere coscienza della sua missione. Comprende ora, all’inizio, quello che, secondo il Vangelo di Giovanni, dirà ai discepoli alla fine della sua vita nel discorso dopo la cena: “Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini… ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro…”. Ora incomincia per Gesù la sua missione: incontrare l’umanità tutta, credente e incredula, innocente e peccatrice, santa e indifferente, per annunziare e trasmettere l’amore del Padre. Luca, subito dopo il Battesimo indica la genealogia di Gesù, facendola risalire fino ad Adamo: ci dice così che il Figlio è venuto al mondo per rivelarci che tutti siamo stati amati dal Padre, fin dalle origini.
Dopo il Battesimo Gesù si incammina lungo le strade della Palestina. Nel Vangelo di Luca egli è sempre per strada per incontrare tutta l’umanità.
Da questo testo si possono trarre due conseguenze. Innanzitutto impariamo che la fede ed il desiderio di condividerla hanno origine nel rapporto con Dio, nella preghiera. Santa Teresa d’Avila diceva che fondamento del nostro vivere è l’intima relazione di amicizia del nostro cuore con la persona di Gesù. È importante, però, non scambiare la fede con l’appartenenza alla Chiesa come organizzazione. Fede è condividere i sentieri di Gesù, la sua passione per l’umanità. I nostri limiti non ci impediscono di annunziarlo. Agostino, commentando il Salmo 97, che dice: “Il Signore regna, esulti la terra… I cieli annunziano la sua giustizia..” si domanda chi siano e cieli e ritiene che sono tutti quelli che sono diventati messaggeri di Cristo. “Cieli” sono i fedeli che, mossi dal suo amore, annunziano l’amore del Figlio incarnato. Agostino ci invita perciò a portare tutta l’umanità a Dio: egli non potrà mai deluderci perché vedere lui è come aver visto il sole. Malgrado i nostri limiti, allora, a chi non ha visto altro che una lampada e la magnifica, potremo comunicare la bellezza infinita del sole, che ci è stato concesso di vedere. Il Battesimo di Gesù, la voce del Padre che egli ha ascoltato dai cieli finalmente aperti, ci dicono tutto questo.
Ma impariamo anche che la Chiesa non esiste per se stessa, ma solo per annunciare Cristo: è unicamente lui a salvare l’umanità. È stata questa la passione di tutta la sua vita, la missione che ha colto nel momento del suo Battesimo. La Chiesa non può volere altro che questa salvezza operata da lui e non può volerlo imponendosi con la violenza, con gli strappi, con la forza. Cristo con tutta la sua vita ci insegna che per realizzare questa salvezza è necessario percorrere la via della sofferenza, cui non ci si può sottrarre: egli ha atteso e desiderato intensamente la croce, come compimento del suo vivere e la ha considerata il suo secondo Battesimo, quello del suo sangue.
In questi ultimi giorni siamo stati tutti colpiti, qui a Napoli, del suicidio in carcere di un ragazzo che aveva ucciso, sembra, per un cellulare. In molti ci siamo chiesti dove, in questa società violenta, è oggi la Chiesa. Avvertiamo l’amore appassionato di Gesù per i nostri giovani? Siamo capaci di testimoniare la sua bellezza, la bellezza della nostra fede, al mondo intorno a noi? È importante rispondere a queste domande inserendoci con la fede nel secondo Battesimo di Gesù: ognuno di noi deve avvertire la necessità di pagare di persona, senza mai scoraggiarsi. Leggiamo negli Atti degli Apostoli che all’inizio della vita della Chiesa gli Apostoli avevano conosciuto molti insuccessi, molti rifiuti. In un primo momento Paolo aveva reagito prendendo sempre nuove iniziative, ma poi capì che proprio nell’insuccesso gli veniva rivelato che sua vocazione era partecipare al Battesimo del sangue del Signore, pagando di persona con il carcere, la persecuzione, la morte. Se ci tormentiamo per i rifiuti e l’indifferenza di tanti dobbiamo guardare a Gesù e comprenderemo che questa fatica e questa sofferenza ci appartengono. Percorrendo la strada della croce impariamo a restare con lui, testimoniando l’amore, senza mai tiraci indietro. Questa è la vocazione che ci viene indicata dal suo Battesimo.
Un popolo che “era in attesa e tutti si domandavano” una parola che risponde “a tutti” e che non può nascere da iniziative umane.
Luca, nel terzo capitolo del suo Vangelo, dopo i racconti dell’infanzia e dell’adolescenza di Gesù, ce lo mostra adulto, poco più che trentenne, che va da Giovanni a farsi battezzare, insieme al popolo che riconosceva il proprio limite, il proprio peccato. Così sembra voler spingere ciascuno a riconoscere in sé l’impossibilità di dare pienezza alla propria esistenza, di trovare nel proprio intimo la sorgente della pace, e per conseguenza la nostalgia del cuore, il desiderio, la preghiera, l’attesa che venga “uno che è più forte” e che ci dia quello che non possiamo conquistare con le nostre sole forze. Ribadendo l’espressione “tutti”, il Vangelo coinvolge l’umanità intera in senso di spazio e di tempo, vuol dire ogni donna ed ogni uomo in ogni cultura, di ogni tempo.
Perciò anche in ciascuno di noi emerge il bisogno di purificazione e l’attesa. Al termine della celebrazione del Natale, dopo aver contemplato con tenerezza l’immagine del Bambino, questa liturgia ci invita a contemplare Gesù adulto, che in profonda solidarietà con il popolo in attesa, assume il suo compito di “figlio prediletto”. Riscopriamo con pace la consapevolezza di essere membra di questo popolo: non abbiamo in noi la totalità della luce, della verità, della libertà, dell’amore, ma Dio non si scandalizza del limite, se lo riconosciamo, e ci accoglie.
La scoperta, che sempre si rinnova davanti alla persona di Gesù Cristo, di essere destinatari della Parola che viene dall’eternità, di un’azione di purificazione e di qualificazione della vita che è grazia di Dio, tira fuori dal pessimismo che paralizza, dalla malinconia che angoscia. Questa scoperta fa sentire amati da sempre e per sempre e rende liberi dalla stessa preoccupazione religiosa. Perché la purificazione e la qualificazione della vita che Gesù dona non sono il frutto della nostra religiosità, ma dell’iniziativa di Dio. Il Vangelo mette in evidenza la diversità abissale tra il battesimo di acqua, che è fatto umano, e il battesimo nello Spirito. Le due particelle distinguono nettamente il rito di purificazione con il simbolo dell’acqua dall’abbraccio del Padre che prende in sé e ripete a ciascuno: “tu sei mio figlio”. Perciò Giovanni Battista, quando viene Gesù, ha fretta di sparire perché si accorge di essere secondario di fronte all’importanza di Dio che ci accoglie come figli.
Gesù sta davanti al popolo come colui che viene a qualificare la vita. Lo fa presentando la sua unità particolarissima con Dio in modo che il popolo “in attesa” possa conoscerla visibilmente. Si presenta come colui che prega. È sempre nella preghiera che rivela la verità della propria vita a quanti lo circondano e lo seguono. Luca presenta questa relazione intensa in molte pagine del suo Vangelo, da quella di oggi in cui riceve dal Padre la sua verità, a quella che lo mostra nell’oscurità dell’affidamento sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc.23,46).
Il battesimo di Gesù è perciò rivelazione della sua identità, che gli si fa chiara nella preghiera, si alimenta di essa, ne trae ispirazione per attuarla storicamente. Non si tratta di una devozione: il Vangelo dice di Gesù che mentre “stava” in preghiera il Padre si rivela a lui – e questo termine “stava” indica la continuità del suo pregare, del suo essere in comunione con il Padre.
Questa, per conseguenza, sarà la chiamata di ogni discepolo che voglia specchiarsi e immergersi nel suo battesimo con la propria vita. Non è piccola cosa, riconducibile ad un po’ di religiosità. Essere battezzati è un itinerario che parte dalla purificazione del male e della mancanza di verità ed introduce in una relazione con Dio che è opera quotidiana dello Spirito.
Dalla tradizione cristiana più antica viene l’insegnamento che: “Gli uomini vengono concepiti due volte: una volta corporalmente e una volta dallo Spirito divino” (Didimo di Alessandria)
Ed è nella preghiera che il credente può fare gradualmente l’esperienza dell’immedesimazione, fino a sentirsi dire:
“Non vi chiamo più servi, ma amici… perché tutto quello che ho udito dal Padre mio lo ho fatto conoscere a voi” (Gv.15,15)
Non è una ritualità che si appaghi di se stessa, non è neppure un’abbondanza quantitativa di pratiche e di parole, ma la ricerca seria di avere con Dio una “complicità“ di mente, di volontà, di cuore, cioè di pensieri, di desideri, di affetti. È importante avvertirlo ora, all’inizio del così detto “Tempo Ordinario”, quando il cristiano deve far crescere la propria “vita interiore” per realizzare nella vita scelte che siano conseguenza del suo essere unito al Padre.
È l’altissima vocazione ad “imparare Cristo”, che permette di essere al servizio dei fratelli come riflesso della luce di Dio. Ed è il destino altissimo di un rapporto che ha il suo culmine solo nell’eternità e non può mai porre il suo traguardo nel tempo. Esperienza che si apre nel tempo e si compie in Paradiso.
Credo che, sinceramente, tutti dobbiamo porci la domanda seria sulla preghiera, sullo spazio che le facciamo, perché, come dice S. Teresa d’Avila la vita sia “un’intima relazione di amicizia” con il Signore Gesù. Qualsiasi siano le modalità ed i momenti che ci sono praticabili, la preghiera resta il fondamento della vita interiore e della solidarietà cristiana, che sarebbe effimera e velleitaria se non fosse radicata nell’essere stesso di Dio Padre di tutti. Altra è l’orazione delle Suore di clausura e altra quella della giovane mamma cui sembra che i bambini le “rubino” il tempo della preghiera, ma poi è resa cosciente che i bambini sono il suo incontro con Dio. Non si tratta di abbondare nelle formule, di moltiplicare le devozioni, ma di rimanere in un rapporto in cui Dio stesso suggerisce di volta in volta il contenuto e la modalità, perché la preghiera sia adeguata alla vita con le sue responsabilità, e perché non continuiamo a pregare chiedendo al Signore di darci quello che è nei nostri desideri, più che nel suo pensiero.
All’inizio di questo tempo, che la liturgia chiama “ordinario”, non segnato dalla chiassosità dei giorni di maggior intensità festiva, domandiamo il dono della preghiera per entrare nel battesimo del Signore.
La liturgia, in questa domenica che chiude il tempo di Natale e introduce a quello “ordinario”, propone Gesù come colui in cui Dio si manifesta.
Il battesimo di Giovanni appartiene ancora alla fase di preparazione del Vangelo, ma apre al dispiegamento di questo per il dono dello Spirito. Così Giovanni termina nella gioia il suo compito: “l’amico dello sposo… esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv.3,29), egli dice, perché ha riconosciuto in Gesù il Messia.
E Gesù inizia il suo ministero in mezzo al popolo che lo circonda.
Luca sottolinea che lo Spirito viene donato a Gesù mentre prega, perciò ha uno stretto legame con la preghiera. La scena è descritta come una presentazione pubblica, come qualcosa che non riguarda Gesù, il suo essere profondo; non è detto che discese “in lui”, ma “sopra di lui”. Perciò il Nuovo Testamento parlerà di questo dono come di una “unzione”, di una “consacrazione”, simile a quella data a sacerdoti e re. Qualcosa di sensibile, che è evidenziato dalla corporeità della colomba, come per dire che Gesù è la visibilità di Dio invisibile nella concretezza della vicenda umana, che la grazia dello Spirito è anche per la corporeità: “… ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato…” (1Gv.1,1) scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera. La presenza dello Spirito in Gesù si può toccare.
Gli studiosi hanno colto nell’episodio del battesimo di Gesù la risposta alla domanda che si ripresenta ai cristiani; perché Gesù che è senza peccato accetta i battesimo per la remissione dei peccati? Insieme a loro ci è dato di capire che il Signore ha voluto evidenziare la sua vicinanza al movimento di purificazione di Giovanni, la sua condivisione del bisogno di rinnovamento spirituale, di aria pura e fresca di tanti uomini del suo tempo, ebrei e non, forse facendo propria la reazione ad una religione troppo istituzionalizzata e formalista, in cui il rapporto con Dio veniva cercato prevalentemente attraverso il culto esteriore e le osservanze complesse. Una reazione presente nella Scrittura in particolare attraverso la voce dei profeti: basti pensare alla “Alleanza nuova”, promessa dal Signore a Geremia (Ger.31,31-34). Al momento della apparizione in pubblico di Gesù, questo bisogno era condiviso da tanti. Al punto di attendere un intervento di Dio per trasformare Israele e il mondo, come avevano annunciato i profeti. Gesù va là dove questo bisogno era più avvertito: perciò va da Giovanni e sottolinea l’esigenza di novità.
“Il cielo si aprì”: lo Spirito e la voce sono la relazione ristabilita tra cielo e terra dopo il lungo silenzio doloroso: “Siamo diventati da tempo gente su cui non comandi più, su cui il tuo nome non è stato invocato. Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” aveva gridato Isaia (Is,63,19). “Tu sei il Figlio mio, l’amato!”: nel momento stesso in cui inizia l’annuncio del vangelo, Dio stesso proclama che Gesù è suo Figlio. È la conferma di quello che era stato previsto prima della nascita con l’annuncio a Maria e a Zaccaria e poi con la predicazione di Giovanni. Ed è il passaggio all’epoca nuova della vita nello Spirito. I cristiani devono fare esperienza che la fede non è solo ripetitività di gesti ed imparare a vivere la preghiera che apre allo Spirito: questa la prima domanda nel cuore del credente.
Proprio nell’episodio che ci viene proposto, nella comunione semplice con tutti gli uomini bisognosi di conversione, in questa introduzione al battesimo nello Spirito, emerge l’identità di Gesù, il Figlio “amato”. Il cielo che si apre non è tanto il prodigio che induce a stupore, ma il segno affettuoso del cuore paterno di Dio, che si riconosce Padre, che in questo Figlio vede compiersi il suo progetto per l’umanità. Quella di Gesù è un’umanità nuova agli occhi e al cuore di Dio, non estranea a Lui, perciò non peccatrice. Questo è il significato dello “stava” in preghiera, come un’identità e un consenso senza riserve. Perciò la presenza e la pienezza dello Spirito, rese possibili dalla preghiera. Un’umanità consacrata, capace di portare nel mondo la verità, la grazia, la misericordia, la fraternità. La pace di Dio. Giovanni aveva detto: “Viene uno più forte”. Non è più la sua intuizione, la sua speranza, ma la proclamazione ufficiale dal cielo!
Sono aspetti da comprendere bene e custodire per la spiritualità del battesimo, che Gesù lascerà alla Chiesa come suo dono. La possibilità di ricevere la visita e la presenza dello Spirito, anche per i cristiani sarà legata non alla ripetizione di “preghiere”, ma alla preghiera: e questa consiste nella comunione profonda con il cuore di Dio. Gesù, mescolato con gli uomini bisognosi di misericordia, è modello di ogni battezzato, che non dovrà puntare alla perfezione del proprio comportamento, ma alla solidarietà e al primato della fraternità. Questa è l’umanità che il Padre riconosce come sua famiglia che gli dona gioia, da cui si sente conosciuto e compreso.
Quel bisogno di rinnovamento, di aria pura che Gesù ha condiviso con il cuore dell’uomo, è il dono che scaturisce dal battesimo cristiano. Se fosse ben compreso, darebbe senso e gioia alla ricerca di tanti, e valore altissimo alla loro fatica, alla loro donazione dalle mille forme: infatti su di loro, pur nell’apparente nuda laicità del servizio, si rinnova la voce: “Tu sei il figlio mio, l’amato!”.
Le folle che attorniavano e ascoltavano Giovanni al Giordano vengono definite “popolo in attesa”. Ad esso, a tutti, dice apertamente: “Viene uno più forte di me”, intendendo forse che Dio stesso sarebbe intervenuto con la sua santità e con la potenza del suo amore, come aveva fatto al tempo della liberazione dalla schiavitù. Davanti a Lui Giovanni si valuta meno di uno schiavo, come davanti a Qualcuno che non è solo un essere umano. Il “più forte” battezzerà non nella povertà dell’acqua, ma “nello Spirito Santo e fuoco”. Queste parole sono lette da Luca nella fede del vangelo. Il “più forte” è Gesù, come egli stesso dirà di sé dopo la resurrezione in Atti 1,5, quando assicurerà il dono dello Spirito. Luca perciò considera il battesimo di Giovanni come un rito di purificazione che aiuta ad essere “ben disposti” per il battesimo cristiano, come preparazione all’accoglienza dello Spirito, dono del Risorto.
Il racconto del battesimo del Signore è strettamente legato all’intervento di Dio che si manifesta per dare conferma alla predicazione di lui. Senza soffermarsi sui particolari, Luca sottolinea che Gesù viene battezzato insieme a tutto il popolo e che il segno del cielo aperto e della voce dall’alto avviene mentre egli era in preghiera. Gesù perciò è dalla nostra parte!
Gesù in Luca è presentato sempre in preghiera in occasione delle tappe importanti della sua vita (scelta dei dodici, trasfigurazione, ora della passione). Cielo aperto e voce significano il ristabilimento della comunicazione tra cielo e terra, divino ed umano, dopo un lunghissimo tempo di silenzio: “la parola di Dio era rara in quei giorni” (1Sam.3,1). Una nuova comunicazione che lascia libero lo Spirito di agire come all’inizio della creazione. Lo Spirito si posa in modo visibile a tutti sulla persona di Gesù per indicare la stabilità della presenza del divino in lui, una presenza che lo avrebbe accompagnato lungo tutto il corso della sua vita, nel superamento delle prove, nella potenza della resurrezione da morte. Perciò lo Spirito è all’origine dell’opera di salvezza che sta vivendo, ne è l’ispiratore attraverso la preghiera, il fuoco che lo animerà nel servizio dei sofferenti nel corpo e nello sfinimento della povertà, attraverso la instancabile compassione, la forza di versare il suo sangue, attraverso l’obbedienza filiale nella fede.
Nel momento stesso in cui Gesù appare così determinato nella consacrazione e nel servizio, la voce dall’alto lo presenta pubblicamente come Figlio di Dio. La sua identità è dunque quella di Figlio, amato, compiacimento perché ama. Il “più forte” annunciato da Giovanni ha i lineamenti di Gesù, il Figlio, come era stato annunciato a Maria e profetizzato da Zaccaria e Simeone, indicato nel segno della minorità di Giovanni che dice: “Lui deve crescere; io invece diminuire” (Gv.3,30).
È la rivelazione dell’identità più profonda di lui.
Questa meditazione su Gesù fa riflettere sul battesimo nella Chiesa.
Gesù è l’unico che abbia ricevuto il dono permanente dello Spirito; ma, dal momento della resurrezione, è in grado di comunicare ai credenti il suo battesimo nello Spirito, come apparirà nel giorno di Pentecoste (At. 2,33). Il comportamento di lui, che prega mentre riceve lo Spirito, deve essere esempio e modello per i discepoli. Luca ci dice che lo Spirito è il dono essenziale che la preghiera cristiana deve domandare (Lc.11,13).
Il battesimo, manifestazione di Dio nella vita dei discepoli di Gesù. Tre sono le parole legate al dono del Risorto: “figlio”, “amato”, “mio compiacimento”.
È quello che dice con chiarezza la lettera a Tito nella seconda pagina della liturgia. Il battesimo è visto e proposto come una svolta forte che, nella vita dei seguaci di Gesù, comporta rinnegamento di una esistenza lontana da Dio, “l’empietà”, e l’impegno di incamminarsi sulla strada della fede. Quando questo accade, allora Dio stesso appare, si lascia intuire in quella esistenza concreta. Ed è possibile che accada non tanto per la bravura del credente, ma perché Gesù ha fatto di se stesso un riscatto, il prezzo pagato per la liberazione dalla schiavitù del popolo in cambio di se stesso, quel popolo che ora gli appartiene. Il frutto di questo riscatto è la nascita di una comunità di persone liberate dall’oppressione del male, capaci di scegliere un modello di vita che sia manifestazione dell’esistenza e della verità di Dio.
Da qui la decisione, proposta ad ogni battezzato, di vivere “con sobrietà, con giustizia, con pietà”, cioè in un sano equilibrio e controllo di sé, nella giustizia attenta verso gli altri, nella pietà verso Dio, che non consiste in atteggiamenti esteriori di devozioni moltiplicate, ma nell’essere radicati nella speranza della manifestazione piena di Dio nell’incontro con Lui.
Custodiamo dunque le tre parole: “figlio”, “amato”, mio compiacimento”.
Chi crede in Gesù, entra, mediante la fede, nell’origine personale di Gesù, riceve la sua origine come origine propria: “A quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”(Gv.1,12).