II DOMENICA DI QUARESIMA – Anno C
(Gen 15,5-12.17-18; Sal. 26; Fil 3,17- 4,1; Lc 9,28-36)
Domenica scorsa la liturgia ci ha mostrato la scelta di fede di Gesù, maturata nella durezza di una preghiera lunga quaranta giorni: fare del pensiero e della parola del Padre la direttiva di tutta la sua vita, il suo costante adeguamento ad essa. Leggiamo nel capitolo 17 del Vangelo di Giovanni che, dopo l’Ultima Cena, Gesù pregò il Padre dicendo: “Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare”. Le letture di oggi ci invitano a guardare ad Abramo, esempio cardine della vita del credente, chiamato a vivere la fede nella ordinarietà della condizione umana, abitata dal limite, dalla sofferenza, dalle tensioni. A lui dobbiamo guardare non come ad un mito, ma come ad una persona storica, che dà inizio al cammino di fede dell’umanità, ubbidendo al compito affidatogli dal Signore. Nel capitolo 12 del libro della Genesi abbiamo ascoltato quanto Dio gli aveva detto: “Esci dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo”. Abramo aveva ubbidito, aveva lasciato tutte le sue sicurezze, fidandosi solo sulla parola del suo Signore. Ora, nel capitolo 15 vediamo che il Signore gli chiede ancora di più, gli chiede di credere nella sua promessa, anche se sembra che il suo desiderio di paternità non si realizzerà mai. Nell’Oriente antico l’essere padre aveva una rilevanza estrema: Abramo lo aveva chiesto a Dio e Dio gli aveva promesso un figlio. Ma il tempo passava ed Abramo aveva cercato di avere un figlio da una schiava, dato che la moglie, Sara, non glie lo dava. Ma il Signore vuole molto di più da lui: vuole che vinca fatica, delusione e speranza e, nella preghiera intensa, riesca a vedere la vita in maniera diversa. Lo conduce, allora, fuori dalla tenda e gli fa vedere la moltitudine delle stelle dicendogli: “Tale sarà la tua discendenza”. Abramo comincia allora a capire che Dio è amore gratuito, che egli ama di un amore personale sia lui che Sara: perciò gli è chiesto di affidarsi totalmente a lui, di rimettere la propria problematica nelle sue mani, senza accanirsi sui suoi progetti individuali. Comincia a capire che deve fidarsi totalmente della Parola del Signore: il suo desiderio di discendenza sarà esaudito, anche se ora gli sembra umanamente impossibile: “Egli credette al Signore – dice il testo – che glie lo accreditò come giustizia”. La sua fede gli permette ora di cominciare a capire che la fecondità non è solo quella che gli uomini possono programmare e realizzare: è un dilatarsi ed un moltiplicarsi dell’amore, fondato sulla fiducia nella presenza del Signore tra noi. Una vita senza certezze umane, una vita in cui può sembrare che i propri scopi non sono raggiunti, se radicata nella fede può essere immensamente feconda, può raggiungere obiettivi imprevedibili, percorrendo strade impensate. In virtù di questa sua fiducia, Dio sancisce con Abramo un patto di alleanza, mentre un torpore cade su di lui. Nella Scrittura, quando Dio compie gesti innovativi, l’uomo sprofonda nel torpore: così Adamo nel momento della creazione di Eva. È la fiducia umana, che si affida al Signore, rinunziando a capire fino in fondo: è la fede di Maria, che credette nella parola dell’Angelo, pur non avendo conosciuto uomo… Per questa fiducia nell’amore misericordioso del Signore, Abramo è il nostro modello di fede di quella fede che ci permette di chiamare Dio: “Padre nostro”. In un momento in cui torna a suonare la parola nefasta dell’antisemitismo, riconosciamo che Abramo è nostro padre, diciamoci con gratitudine che siamo tutti figli della sua fede: affidiamoci come lui alla Parola di Dio, fondiamoci sulla sua promessa di vita, di fecondità. Non si tratta del rigore di un ragionamento logico e neanche dell’analisi filologica del testo antico: la fede è questa fiducia totale e incondizionata nella Parola di amore di Dio, rivolta personalmente a ciascuno di noi. La fede è un combattimento interiore determinato dalla difficoltà di anteporre le ragioni di Dio a quelle limitate della nostra creaturalità. L’evento della Trasfigurazione ci aiuta in questo combattimento. In tutti i Vangeli essa è stata preceduta da un momento molto luminoso, quello in cui, alla domanda di Gesù: “Voi chi dite che io sia?”, Pietro aveva risposto riconoscendo in Lui il Cristo di Dio. Ma di fronte a questa certezza, Gesù aveva poi sgomentato i discepoli con l’annuncio della sua passione e con l’invito: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”. Essi non avevano compreso il senso di quelle parole e ne erano stati tanto turbati, da non osare di fargli domande. Ma Gesù venne loro incontro, prendendoli con sé e mostrando loro, sul monte, il suo volto trasfigurato dalla luce di Dio, mostrando loro la sua gloria. Luca ci dice che essi furono avvolti da una nube, segno della presenza di Dio, ed udirono quella voce che nel Battesimo aveva proclamato “Questi è il Figlio mio, l’eletto” ripeterlo ora, rivolta a loro, aggiungendo: “Ascoltatelo!”. Fu un evento straordinario, ma “appena la voce cessò – dice l’Evangelista – Gesù restò solo”. Così, assai spesso, nelle nostre vite scompare ogni conforto e resta solo la paura della sofferenza. Ma resta Gesù, solo. Nella vita di fede, per evitare la dispersione, la ricerca di una fede che ci faccia vedere, godere e fruire, il Signore lascia che ci venga meno ogni appoggio, perché possiamo renderci conto che il centro della fede è solo lì, in Cristo morto e risorto. Egli ci chiede di salire con lui sul monte della sua solitudine, della sua preghiera. È lì, però, che l’aspetto del suo volto cambiò e divenne sfolgorante. La preghiera ci mette in contatto con il divino, in una solitudine che va cercata e che ci permette di guardare la realtà della vita in una luce ed una fecondità che non avremmo mai pensato, perché ci permette di entrare in un’ottica nuova. Giorni fa, durante la nostra visita alle famiglie, sono entrato in una casa, dove vive una ragazza cerebrolesa. Il fratello me la ha mostrata dicendo: “È lei il nostro dono più grande. Abbiamo impiegato anni per capirlo, ma è la verità!” Pregando si incontra la luce, altrimenti inaccessibile. A conclusione della Trasfigurazione la voce divina dice: “Ascoltatelo!”. La fede è ascolto sul monte, che ci permette poi di scendere ed andare verso i volti sfigurati degli uomini, per scoprire in loro il volto luminoso di Dio. Ognuno di noi è invitato oggi a cercare nella propria esistenza lo spirito della preghiera.
La liturgia è memoria, innanzitutto del Signore Gesù. I suoi gesti, le sue parole nel cammino verso il compimento sono scuola di vita per i discepoli di ogni tempo e devono essere mantenuti vivi per non essere oppressi dagli interrogativi angosciosi sulla necessità della sofferenza e della morte. Perciò gli evangelisti hanno descritto la trasfigurazione e la liturgia la ripropone nel cammino verso la Pasqua. Il momento della trasfigurazione fu risposta allo sgomento dei primi discepoli, oggi può esserlo ancora per noi per la nostra paura della croce. Quel Gesù che va alla morte è il Trasfigurato, il Figlio di Dio, il suo Amato, la sua Parola eterna che si fa storia umana. È il significato della presenza di due credenti, come Mosè ed Elia, che della Parola erano stati portatori e servi fedeli: essi testimoniano che il crocefisso glorioso è il compimento del loro annuncio. “Vedere la gloria”, il senso di pienezza, “è bello per noi stare qui”, espressione di Pietro, indicano la gloria che abita in Gesù mentre sta dicendo il proprio “sì” alla chiamata alla sofferenza. Perciò il tentativo di trattenere il tempo per fermare l’anticipazione della gloria è errore di Pietro e di ogni smania di trionfalismo, da cui guardarsi. Ma la presenza di Dio nel segno della nube e la sua voce autorevole sono la conferma solenne del cammino di Gesù. Quello che è visibile nella trasfigurazione, la presenza del divino nella persona di Gesù, è detto con la parola e questa illumina di significato quello che accade. La singolarità della vicenda di Gesù è un richiamo forte al mistero di Dio, che conosce la ragione di quello che progetta e propone al Figlio eterno e a tutti noi che gli siamo figli. È invito a credere all’Amore, a fidarsi di Lui pienamente, senza riserve, al di là delle modalità con cui si presentano le sue proposte. I cristiani – ricorda Paolo ai fedeli di Filippi e a noi – non possono guardare al senso della vita con il solo criterio delle “cose della terra”, pena il rischio di trovarsi ad essere “nemici della croce di Cristo”, come abbiamo ascoltato nella seconda lettura. Per questo motivo la liturgia propone ancora alla meditazione la fede di Abramo, in cui la fiducia che conduce all’affidamento senza condizioni indica che nella relazione con Dio c’è inevitabilmente una asimmetria, una sproporzione. Nella prova Dio si rende vicino con l’amore e la creatura non può domandarsi le ragioni di Dio, chiedergli: “Perché hai permesso questo?”. È la fatica del superamento di sé per il consenso, rinuncia consapevole della creatura a giudicare la proposta di Lui. La fede, infatti, è sempre un atto di accondiscendenza di Dio, il suo piegarsi sull’uomo per raggiungerlo. Abramo è giusto ed è giustificato perché accetta tutto questo. La sproporzione fra la nostra capacità di conoscere e Dio è grande, ma l’accettazione della sproporzione appartiene alla sostanza della fede: noi crediamo a Dio perché Egli ci ama. Luca pone la trasfigurazione di Gesù soprattutto nel suo volto: “Mentre pregava – egli dice – il suo volto cambiò di aspetto”. È lì che è detta visibilmente l’identità di Lui nell’incontro tra divino e umano, tra gloria e fragilità, tra preghiera profonda e travaglio della storia. La luce che viene da dentro si riflette sul volto e si diffonde da esso. (Non a caso Luca viene ricordato come pittore di icone il cui messaggio silenzioso è proprio dal dentro al fuori. Per questa sua capacità, avrebbe fatto il ritratto di Maria). Egli chiude il racconto di questo momento straordinario con un’affermazione che riguarda ogni credente: “restò Gesù solo”. Solo Gesù è il mistero da comprendere e da vivere, il suo volto da riconoscere e servire. È un invito, quindi, a contemplare la luce del volto di Lui, sapendo che questa è la verità del credere: “Il Signore ti benedica con la luce del suo volto”, come recita il Salmo 67. Invito a conquistare pazientemente lo sguardo di Gesù sulle persone e sulle cose, ad allenarsi a cogliere la luce che è in ogni realtà creata, non solo le ombre e la negatività, per non rispondere con il giudizio al loro manifestarsi, ma per aiutarle a far brillare la luce che è in loro, perché abbiano e diano vita. Il volto di Gesù, su cui il vangelo pone l’incontro tra divino e umano, tra santità e peccato, tra paradiso e inferno, sovente appare come una contraddizione blasfema ed è uno degli interrogativi più tragici del nostro tempo. Ad esso non si può sfuggire e sembra dare attualità drammatica alle parole antiche della lamentazione biblica, là dove Gerusalemme – umanità invita a “fermarsi”: “Voi tutti che passate per la via, considerate se c’è un dolore simile al mio dolore…” (Lam.1,12). La contemplazione del volto dell’uomo può indurre anche chi si ritiene credente alla delusione nei confronti di Dio, a distogliersi da Gesù, avvertito come portatore di utopia. Non basta il rito della domenica, non bastano la famiglia, gli amici: c’è un oltre in cui alla solitudine personale resta solo Gesù. È proprio la trasfigurazione che invita a superare delusione e ripugnanza: “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, … come uno davanti al quale ci si copre la faccia… era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima” (Is. 53,2-3). La prova della fede, nel nostro tempo, è proprio il non avere stima di Gesù, il non avere stima della sua strada, della sua croce. In questa seconda tappa del cammino quaresimale, oggi ci viene consegnata questa espressione: “restò solo Gesù”. Questo Gesù, non un altro, non quello che sogniamo nelle devozioni sentimentali e nelle evasioni della fantasia, ma il Gesù della trasfigurazione con il segno della gloria che gli viene donata per la devastazione operata dalla condivisione, la devastazione del peccato sul volto umano, la devastazione dell’amore sul volto divino.
“Restò solo Gesù”.
La trasfigurazione è un momento centrale nel racconto dei vangeli. Luca lo pone al capitolo 9, otto giorni dopo il primo annuncio della passione. Quello che era stato proclamato al Giordano: “Tu sei il mio Figlio amato”, ora si fa visibile nel corpo di Gesù che va verso la morte. La prima voce dava autorevolezza all’insegnamento di Lui, la seconda conforta i discepoli impauriti e dubbiosi. L’episodio svela il legame stretto tra la passione e la gloria che viene indicata con la parola “esodo” o “mistero pasquale”, che si attua in Gesù. Il contesto in cui avviene la rivelazione è la preghiera del Signore. “Salì sul monte”, il luogo biblico dell’intimità con Dio, dell’ascolto adorante, del trovarsi con Lui in modo consueto e solitario, che Luca dice “notturno”. La preghiera è tanto intensa da farsi trasformante, coinvolgente la corporeità fino allo splendore del divino in tutta la persona. Gesù che prega appare ai presenti come trasferito spiritualmente nella reazione con il Padre, al punto da trasparire la gloria di Lui, e questo come una condizione permanente derivante dalla appartenenza reciproca. L’essere di Gesù è “abitare” nel Padre e la comunità cristiana lo proclama nella professione di fede: “Dio da Dio, luce da luce”. Quello che leggiamo e meditiamo è un momento di preghiera contemplativa che Luca racconta come esperienza di Gesù e la consegna ai lettori invitando ad entrarvi profondamente per farla propria: “Questo è il Figlio mio, l’eletto. Ascoltatelo!”. Nel contesto della preghiera, ardente di amore e di dolore per l’imminenza della passione, Luca associa il titolo di “Figlio di Dio” alla figura del “Servo di Dio” annunciata dal profeta Isaia sei secoli prima. Il pronome è messo all’inizio della frase, “questo è”, per sottolineare l’identità di Gesù. I discepoli sono così avvertiti che ormai si tratta di seguire solo Lui. Al termine del racconto Mosè ed Elia non sono più presenti, come per affermare che la legge antica e la stessa profezia non sono più attuali: “Restò Gesù solo”, conclude il testo. È questa la realtà che i tre apostoli contemplano, e noi con loro, insieme ai due personaggi biblici che avevano desiderato e pregato ardentemente per ottenere di poter vedere la “gloria di Dio”, il suo volto, che fosse loro di sostegno nel portare la pesantezza del compito loro affidato (Es.33; 1Re,19). Con questi testimoni, avvolti con Lui dalla “nube luminosa”, Gesù parla della sua morte e resurrezione. Il volto di luce della trasfigurazione e il volto del sudore di sangue nel giardino dell’agonia, il volto della bellezza di Dio, quello inguardabile degli oltraggi e dello spasimo della morte, il volto benedicente della condivisione e quello soffocato dal grido dell’abbandono si identificano. Tutto il divino è in Lui, tutto l’umano pesa su di Lui. Insieme sono la rivelazione dell’amore di Dio, che si propone come “alleato” dell’uomo, di Abramo (prima lettura), e di ogni uomo di ogni tempo. Non si può aver timore di un Dio così. Perciò Pietro, parlando in nome di tutti, disse “bello” il momento vissuto, benedetta la ventura di essere stati presi dentro la preghiera di Gesù. È il dono che passa alla Chiesa che deve custodirlo e donarlo a sua volta, come farà Pietro stesso quando racconterà l’episodio come una singolarissima esperienza di incontro con l’amore di Dio, che è sempre bontà e bellezza: “Vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati indietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli, infatti, ricevette onore e gloria da Dio Padre quando giunse a lui questa voce della maestosa gloria: “Questo è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt.1,16-18). La preghiera cristiana, unanime nella comunione della fede, permette l’esperienza di entrare e dimorare nel rapporto reciproco delle Persone nella Trinità, non come una fuga dal dolore e dalla lotta, ma come un sì al volto luminoso e disfatto di Gesù. Anche per il discepolo la strada della gloria passa attraverso l’esodo della croce. Il suo cammino è seguire il Figlio eterno. Di conseguenza, essere discepoli impegna a superare la tentazione di evitarlo quando le situazioni appaiono troppo difficili e contrastanti. Dolori, interrogativi, bisogni dell’umanità, tutto deve essere assunto e portato insieme a Gesù. Questo è quello che deve fare la Chiesa nel mondo. Lui, infatti, è la porta che permette di essere vicini gli uni agli altri, di ristabilire i collegamenti lì dove c’è disunità, dove non ci comprendiamo, dove i “perché” restano senza risposta. Se non sono pronto a riconoscere Dio nei volti disfatti degli uomini sconfitti e umiliati, degradati dal male fisico e morale, se voglio risparmiarmi la via del dolore, del confronto, dell’amore che paga di persona, se non assumo la fatica di aiutare i fratelli nella scoperta della bontà di Dio nella crudezza del presente, non dono a Dio un sì autentico. Accogliamo oggi il dono della Parola che ci invita a non separare il volto della gloria da quello del dolore del Figlio di Dio fratello dell’uomo.