IV DOMENICA DI QUARESIMA – Anno C
(Gs 5,9-12; Sal. 33; 2Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32)
Tutta la Scrittura è il racconto di un amore che attende l’avveramento di un desiderio: quello della terra di cui si possa avere il possesso e mangiarne i frutti nella pace e nella fraternità, come abbiamo ascoltato nella prima lettura; quello della casa in cui si possa abitare per sempre, non solo nella sicurezza del pane, ma nel calore della paternità, la casa del Padre misericordioso, rivelatoci dal vangelo di Luca.
Quello di Dio – ci dice la Scrittura – è un amore che attende, sempre e tutti. Un amore che si esprime nella caratteristica del padre che cerca, che ha fiducia paziente, che accoglie il ritorno. Perché ogni nascita alla vita è partire nella libertà ed ogni relazione affettiva che matura pienamente sta nel ritorno riconoscente all’amore da cui si è partiti, ritorno scelto nella libertà consapevole, maturata nelle vicende gioiose e dolorose che l’essere partiti conduce a vivere.
Luca, in questo parlare di Dio, conduce alla contemplazione stupita di una paternità umile, che non si nega alla rivendicazione della “parte di eredità”, ma non si rassegna alla separazione. Una paternità che spera al di là dei comportamenti, perché, fedele a se stessa, sente che il figlio lontano – nell’errore e nel rifiuto – resta il proprio figlio: perciò il tempo è vissuto nell’attesa paziente e fiduciosa, ed al ritorno non c’è che la gioia e il ripristino pieno della condizione precedente.
In questo tempo di incertezze e disorientamento sul compito del padre, c’è urgenza che – come credenti – riflettiamo attentamente sulla paternità di Dio e sul ritorno che invita a compiere. San Paolo scriverà che dall’amore paterno di Dio “ogni paternità, in cielo e sulla terra, prende il proprio nome” (Ef.3,15). Dalla lontananza alla vicinanza, dalla solitudine all’intimità della casa, dalla povertà senza decoro al vestito dignitoso, dalla fame alla condivisione della tavola, soprattutto dal mutismo alla confessione umile di sé: sono le figure di un cammino che, fuori dalla parabola, significano possibilità di ritrovare i rapporti, da qualsiasi situazione parta il ritorno. Proviamo a specchiare in questo figlio i nostri figli, in quella rivendicazione le tensioni delle nostre famiglie, in quella lontananza i nostri silenzi. Tutto può essere risanato, con Dio e tra di noi, anche se il figlio maggiore non comprende, e forse anche noi stessi ci scopriamo incapaci ad osare la verità profonda del perdono. Ma occorre avere un cuore libero dalla rabbia e dal risentimento, capace di perdonare e di lasciarsi perdonare. Occorre chiederlo allo Spirito.
Gesù non si arrende alle critiche di chi lo ascolta e, nel tempo della Chiesa, continua ad annunciare la parola consegnata a Paolo: “vi supplichiamo, in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare con Dio!”.
Dio in noi, Dio tra noi. Nel silenzio a cui la quaresima invita, nella preparazione alla confessione pasquale, guardiamo noi stessi con la lucidità di Agostino: “O Dio, allontanarsi da te è cadere, ritornare a te è risorgere, rimanere in te è costruirsi solidamente; o Dio, uscire da te è morire, avviarsi a te è rivivere, abitare in te è vivere… Sento che devo ritornare, a me che busso si apra la tua porta, insegnami come si può giungere fino a te” (Soliloqui,1,3-5)
E guardiamo, condotti dalla parola, alla disposizione verso i fratelli.
Grati del dono dell’esistenza e della fede, potremmo sentirci soddisfatti della nostra giustizia, ma essere incapaci di apertura sincera verso chi compie il cammino di ritorno ed è accolto con gioia nella comunità che “sa” il perdono. La Chiesa sente tutta la responsabilità del “ministero della riconciliazione” e non si stanca di proporlo come possibile, non solo nel momento sacramentale, affidato ai presbiteri, ma nel tessuto dei rapporti interni della comunità e nella società, affidato a ciascun credente, di ogni condizione. La riconciliazione possibile non è una speranza vaga, ma la certezza che nasce dalla croce. Le parole di Paolo ai Corinzi, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura, lo confermano: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui potessimo diventare giustizia di Dio”.
Oggi il ministero della Chiesa nel mondo è questo servizio della misericordia. Non si tratta di un atteggiamento lassista, privo di attenzione al rigore della verità e all’esigenza morale in nome delle mode correnti e della tensione etica appannata: questo sarebbe contrario al cuore di Dio. La misericordia è contestazione del male, certezza di Dio che ribalta le situazioni: “se uno è in Cristo, è una creatura nuova”.
Il Padre si consegna come Padre misericordioso.
“Tutto ciò che è mio, è tuo. Se sarai promotore di pace, se ti riconcilierai, se godrai del ritorno di tuo fratello, se il nostro banchetto non ti rattristerà, se non rimarrai fuori dalla casa, sebbene tu sia già tornato dai campi, tutto ciò che è mio è tuo. Ma dobbiamo far festa e rallegrarci, poiché Cristo è morto per gli empi ed è risorto. Ecco cosa vuol dire l’affermazione: poiché tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato” (Agostino, discorso 112/A, 14)
La Pasqua cui ci prepariamo sia, nella nostra piccola vita personale, esperienza di riconciliazione.
Parabola del “padre e dei suoi due figli”, del padre dell’amore ferito dalla difficoltà di relazione dei figli, con lui e tra di loro. Luca sembra voler riassumere tutti questi elementi per condurre chi lo legge a quello che gli sta a cuore trasmettere come il punto più alto della sua teologia, l’amore misericordioso del Padre verso il peccatore, e la sua volontà di salvare tutti.
Questo annuncio provoca interrogativi nel lettore.
Sul figlio giovane:
E, dal versante del figlio fedele:
Luca trasmette l’immagine che si è fatta del fariseismo che tanta indisponibilità mostra nei confronti di Gesù, di cui si mormora: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro” (Lc.15,2). E consegna questa immagine alla Chiesa per metterla in guardia dai cristiani che si ritengono “giusti”; il credente – dice l’evangelista – è chiamato ad avere, nei confronti di certe categorie di uomini, che spontaneamente giudicherebbe male, lo stesso amore senza misura che il Padre ha per tutti gli uomini.
Un tale amore premunisce e purifica dal sentimento di superiorità e mantiene viva la coscienza che la salvezza personale è sempre puro dono dell’amore di Dio che si lascia raggiungere perché ci raggiunge.
In piena armonia con il pensiero ed il comportamento di Gesù, Luca annuncia che il credente che si sforza di seguire il Maestro imitandolo, manifesta Dio Padre, è perciò l’evangelizzazione. Mangiando e bevendo con i cosiddetti “peccatori”, il discepolo di Gesù rivela ai “lontani” l’esperienza fatta in se stesso della vicinanza misericordiosa del Padre, come i profeti avevano annunciato (Ger.31,19-20; Os.11,1-9) e mostra come Egli non sopporti l’esistenza di emarginati nel suo popolo. Gesù, dice Luca, viene criticato, ma non rinuncia a rivolgersi ai “giusti”, non necessariamente ingabbiati nel fondamentalismo rigorista di Israele suo contemporaneo, come appariva dalla tradizione farisaica, e si rivolge a quanti di noi che, pure appartenendogli per il battesimo e la vita nella Chiesa, possiamo sentirci “offesi” dalla giustizia divina che offre il regno a chi ci appare come uno che non lo merita. Così il vangelo apre il cuore e dona una risposta di gioia e di pace alla sofferenza dei credenti fedeli, provocati dalla misericordia che sovrabbonda sul peccato (Rm.5,20) laddove il perdono, apparentemente ingiusto ai nostri occhi, è gratuitamente offerto da Dio agli ingiusti.
Il “figlio fedele” è invitato a convertirsi alla logica di Dio. Luca non ci dice se lo abbia fatto, ma ci consegna la richiesta di farlo. E ci pone davanti il Crocefisso che perdona i crocifissori e dona la sua rassicurazione a chi gli muore accanto su quello che seguirà, perché la morte d’amore dona la vita, è il Paradiso di Dio.
Oggi la liturgia ci invita alla contemplazione del cuore del Padre, della sua affettuosità personale per il figlio fedele con il pronome ripetuto: “Figlio, tu, tu sei sempre con me e tutto quello che è mio è tuo”. Ama la persona, ama di persona.
Viene in luce l’immagine dell’unità familiare, immagine della comunione permanente, che – perché generata dall’amore – è essa stessa generatrice di sempre nuovo amore e nuova vita. È un’immagine dal rilievo religioso. L’uomo credente, per la fede ricevuta in dono, non può escludere il prossimo, ma è chiamato a condividere la gioia e la festa per il fratello riemerso dall’errore. Se lo farà, potrà sperimentare la pienezza di essere figlio di Dio e fratello dell’uomo.
In conclusione. Tutti e due i figli devono imparare a stare a casa, il fedele e lo scapestrato, il casalingo e il vagabondo. Significa che la sola vicinanza fisica non è sufficiente per abitare la casa del Padre, per fare famiglia con Lui, per “dimorare” in Lui. Credere è coscienza chiara e partecipata che solo Dio Padre è capace di amare e dare senso alla vita di chi abita nella sua casa e di chi ritorna riemergendo dalla crisi: Lui è capace di non rinfacciare gli errori, capace di accogliere chi porta i segni dell’essersi perduto.
Forse questo non accade sempre nelle nostre famiglie, nonostante che il sacramento del matrimonio indichi che l’amore deve puntare al “come” del Signore. E non accade nelle comunità cristiane, nelle piccole come nella grande Chiesa, nei conventi come nelle varie aggregazioni, dove restano dubbi, pregiudizi, diffidenze verso i fratelli che vivono situazioni ed esperienze apparentemente non conformi al cuore di Dio.
Per Gesù, ci dice Luca, è importante che comprendiamo bene chi è il padre della parabola per ricollocarci, il più stabilmente possibile, nel cuore del Padre del cielo, l’unico capace di dare, di accogliere, di fare festa, di occuparsi del minore come del maggiore senza venir mai meno all’identità di Padre che ha cura di tutti i suoi figli.