PASQUA DI RESURREZIONE – Anno C
(At. 10,34.37-43; Sal. 117; Col. 3,1-4; Gv. 20,1-9)
“Vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro e andò da Simon Pietro..”. Così Maria di Magdala. “Entrò nel sepolcro, vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo.. piegato in un luogo a parte”. Così Pietro.
L’esperienza individuale di Maria e di Pietro davanti al sepolcro è il vuoto: il corpo amato del Signore non si trova. È una constatazione che li provoca ad un interrogativo profondo: come mai la morte non riesce a pareggiare i conti con questo morto? Gesù, che certamente è morto, non è tra i morti. L’interrogativo entra quasi con angoscia in Maria e in Pietro tanto da turbarli profondamente. L’esperienza individuale di Maria e di Pietro è anche quella delle donne, che, come abbiamo letto nel Vangelo di Luca, si erano recate alla tomba, “portando gli aromi, che avevano preparato”: volevano avere premura per quel corpo, ormai freddo. “Trovarono la pietra rotolata via da sepolcro, ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù”. Per tutti loro quello che non si trova non è Gesù, ma è Gesù morto.
C’è un grande contrasto fra l’esperienza del Natale e questa del giorno di Pasqua. I pastori ascoltarono l’annuncio dell’angelo, andarono a Betlemme e videro il Bambino, con gioia grande, ci dice Luca. E Matteo ci mostra i Magi, che, entrati nella casa, “videro il Bambino con Maria, sua madre, e prostratisi lo adorarono”. Di fronte alla nascita del Signore c’è gioia e lode per la visibilità appagata, che conferma l’annuncio ricevuto. Ora, invece, i discepoli devono entrare in una nuova dimensione, più intima, diversa da quella della visibilità sensibile. “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?”, dice l’angelo alle donne nel Vangelo di Luca. E poi, nel passo successivo, è proprio Gesù, che i discepoli non riconoscono, a ricordare loro la parola dei profeti: Bisognava “che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria”. Allora essi ricordarono le parole del Signore e credettero. Di fronte al Risorto non è l’esperienza visibile, ma la sola fede che permette di interpretare il vuoto della tomba e capire che si tratta della vita che supera la morte Avere fede nella Resurrezione non è credere ad una magia, è tutt’altra cosa: è credere alla parola di Gesù e seguirlo lungo la strada che egli ci indica. La Resurrezione non è un fatto scientifico, basato sull’esperienza dei sensi, come accade per la fisica o per la chimica. La fede nella Resurrezione nasce da un atteggiamento interiore. Guardiamo, nel Vangelo che ora abbiamo ascoltato la differenza tra la persone di Pietro e quella di Giovanni. Pietro entrò nella tomba, vide le bende e il sudario, ma restò nella sofferenza. Giovanni, invece, entrò, vide e credette. Il mistero della fede non si esaurisce con la conoscenza razionale. C’è un vedere che si ferma alle bende ed al sudario. C’è il vedere che porta alla fede. Ma colui che vide e credette è il discepolo che aveva vissuto una relazione profonda con il Signore: è proprio l’esperienza di questa intimità a permettergli di avere una conoscenza che va oltre la materialità dei segni, di conoscere senza vedere, di essere certo senza scrutare i lineamenti del volto, come chiederà invece Tommaso. Giovanni riconosce Gesù oltre la visibilità. Può a volte essere cosa dolorosa, perché la visibilità dà gioia. A Giovanni è possibile questo rapporto col Signore nella invisibilità: gli è possibile per la sua lunga consuetudine con Gesù. Solo l’essere cresciuto in questa consuetudine gli permette ora di avere la gioia che viene dal credere senza vedere. È la gioia di quanti crederanno come lui ha creduto, di quanti vivranno questa certezza. Non è vero perché lo ho visto, ma è vero perché lo ha detto Gesù. Così dopo l’alba di quella domenica nasceranno altre albe, tante quante saranno le vite umane che incontreranno il Risorto, non nel vuoto della tomba, ma nella casa del Regno. A quanti, ascoltando Gesù, sceglieranno di vivere la vita del Regno, la vita dell’amore che egli ci indica, e la percorreranno con fedeltà, sarà possibile vedere il Risorto.
La Pasqua, il passaggio del Signore dalla morte alla vita, è novità per ciascuno di noi. Non è il rimpianto del Camposanto – perché noi non seguiamo un morto – ma è la crescita progressiva nella vita, la vita dell’amore senza riserve. Gesù ci precede e ci dà appuntamento in una casa, dove l’alba è senza tramonto perché viviamo con il Risorto, invisibile ma sempre presente. Seguire la sua via, significa vivere il presente preparando il futuro: ma il futuro della vita divina nell’amore non tradisce il presente, perché si fonda sulla certezza che, nel suo amore, il presente ha valore in funzione del futuro, rende possibile un futuro di vita. L’amore vissuto nell’oggi è l’alba di Dio, è il manifestarsi della sua presenza nella nostra storia, è vivere come Gesù ha vissuto, è rifiutare quanto lo ha ucciso, entrare in una qualità nuova della vita. Egli ci chiede di seguirlo nella certezza come nell’incertezza, di seguirlo non perché ci conviene, ma perché è lui ad indicarci la strada. La strada della vita vera.
“Pasqua divina, che discende dal cielo in terra e di nuovo ascende dalla terra al cielo, festa comune di tutte le cose, solennità universale, gioia del tutto e amore e alimento e delizia, grazie alla quale la morte tenebrosa è stata distrutta, la vita si è diffusa su tutte le cose, si sono aperte le porte del cielo, Dio è apparso come uomo, l’uomo è apparso come Dio”.
Facciamo nostra questa invocazione di un anonimo, vissuto in Asia Minore alla fine del II secolo.
La Chiesa, nella liturgia di questi giorni, ci ha proposto la contemplazione del Crocifisso, perché lì l’amore di Dio Padre si è fatto visibile e raggiunge ogni condizione umana; e perché lì è la “scuola dell’amore” a cui i cristiani devono sempre attingere forza e perseveranza. La croce è sorgente ed è traguardo. Abbiamo ripercorso gli avvenimenti del cenacolo, del Calvario, della tomba, abbiamo vegliato nella notte fino alla luce e alla gioia dell’annuncio che Cristo è risorto.
E abbiamo scoperto, nell’esperienza dei primi discepoli, la certezza della fede più forte delle titubanze e delle delusioni che li hanno tormentati nei giorni e nelle ore della passione, quella fede che ha permesso, come un solido fondamento, il costituirsi della Chiesa e la nostra fede personale e comunitaria.
Il cristiano è uno che crede che Gesù di Nazaret è veramente risorto.
Pasqua ci invita a mettere il cuore, la mente, il respiro in sintonia con lo Spirito di vita che, in Gesù, unisce – come nel racconto degli inizi fatto dal libro della Genesi – il visibile e l’invisibile, la terra e il cielo, il Verbo e la carne, il presente e l’oltre, quel futuro che è la nostra vocazione più profonda.
- “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”
La tomba vuota è il primo segno di Pasqua, come per dire che è cominciata nella storia un fatto nuovo: al conto, sempre pari, della morte manca un corpo, perché non appartiene alla morte. È un’inversione di tendenza, la vita vince sulla morte. Si comincia a comprendere che nella croce sta l’inizio di una umanità nuova, sta “il giorno fatto dal Signore”, quel giorno in cui la nascita dell’umanità nel Figlio di Dio dona la vita, è compimento, riposo del Creatore, ottavo giorno.
- “Perché cercate tra i morti colui che è vivo?” (Lc.24,5), racconta Luca.
Gesù è colui che vive: ed è tra gli uomini, realmente vivo, se non è solo pensato, studiato, discusso, ma se tra di essi chiama, parla, ama, perdona: la responsabilità grande della comunità cristiana è custodire la presenza del Risorto. Egli ci dice che il vero nemico della morte è l’amore. Perciò, coloro che lo hanno amato credendo nel suo amore sono i primi a capire. Tutti noi, se crediamo a Lui morto e risorto, dobbiamo fare cose che non finiscono nella morte, certi che quanto è vissuto nell’amore non si perderà, resterà per sempre.
La Chiesa lo annuncia con fedeltà perché questa è la sola notizia che interessa l’uomo, ogni uomo: perché Gesù è inizio, primizia, esemplare per ogni uomo.
Inizio che domanda di essere contagioso nella novità di vita dei credenti. Per noi, per ciascuno di noi, la morte di Gesù non è finita finché l’umanità ricevuta nella nascita naturale non passi attraverso la rinascita del Calvario.
L’uomo credente nel Risorto deve già al presente imparare a convivere con il Signore che è vivo e “affrettare il suo giorno”, custodendo la gioia che esplode a Pasqua.
La gioia pasquale è un germe segreto che prepara la primavera dello Spirito.
La gioia pasquale si espande in nuove armonie di fronte al pessimismo che usura.
La gioia pasquale fa sentire talmente legati all’umanità, che non sarebbe neppure pensabile desiderare di entrare nel Regno se questo dovesse comportare l’essere separati dai fratelli.
Verso la Pasqua del 54, Paolo scrive alla comunità cristiana di Corinto per rafforzare la fede di quei discepoli che avevano ricevuto il battesimo da circa quattro anni: “A voi ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto – e ripete la formula iniziale della professione di fede – che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, che fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1Cor.3,5). Il vangelo della resurrezione di Gesù è trasmesso, ricevuto e custodito ed è annunciato come parola di salvezza. È il contenuto, l’essenza della fede cristiana, il germe che farà rifiorire l’umanità.
Questa fede che ci raggiunge, trasmessa con fedeltà dalle generazioni che la hanno ricevuta e custodita, ci dice che la resurrezione del Signore è la promessa antica che in Gesù diventa realtà, concretamente. Quell’annuncio: “È risorto!” non è soltanto insegnamento di una dottrina, ma racconto che parla di incontri, di parole ed azioni del Risorto che sono autentici per la testimonianza dei primi discepoli e perciò confermano la fede in quanti la accolgono.
In Gesù Risorto avviene un salto di qualità, una nuova dimensione della vita. L’uomo Gesù, con lo stesso suo corpo materiale, appartiene al divino, all’eterno, “Spirito e sangue hanno un posto in Dio” (Tertulliano, “La resurrezione dei morti”). Così l’anima dell’uomo creata per l’immortalità, trova lo spazio idoneo perché anche la propria corporeità possa vivere in comunione con Dio e con l’umanità riconciliata. Tutti siamo interessati e coinvolti da questa nuova dimensione che permette alla persona umana, spirito e corpo, di essere con Dio per sempre.
In tutto il vangelo di Giovanni il buio della notte è associato alla mancanza di fede. L’indicazione della pietra rimossa dal sepolcro, che in sé è già un indizio, un segnale dell’azione di Dio, non viene accolta da Maria di Magdala che lascia di corsa la tomba e va dai discepoli in preda all’incredulità, tormentata dall’angoscia per il sospetto del trafugamento del corpo. Il pronome “noi” sembra coinvolgere anche altre persone, la donna e quanti erano stati più vicini alla croce nel momento della sepoltura. Per tutti loro che diverranno testimoni della resurrezione, il cammino verso la pienezza della verità deve cominciare daccapo. Bisogna di nuovo uscire da sé, morire ai propri pregiudizi e paure per cercare il Signore, senza stancarsi, sapendo che la speranza ha il suo fondamento incrollabile nella parola di Dio. Il discepolo, “quello che Gesù amava”, mostra un’esigenza più impellente di conoscere la verità riguardo a colui che lo ha amato e perciò corre e arriva prima di Pietro, di cui ogni lettore del vangelo sa che ha ricevuto dal Signore il compito di confermare nella fede i fratelli. Perciò arriva prima ma non entra.
Ancora un’indicazione per il cammino di una fede piena: “Pietro lo seguiva”. È un’importante inversione di situazione rispetto a quanto detto prima di Pietro, partito dalla casa dove Maria li aveva raggiunti (v.3). L’altro discepolo deve essere “seguito” e questo fa capire che l’amore che lega discepolo e Maestro, l’appartenenza, la fiducia, sono importanti per la fede, come passi iniziali del suo crescere e irrobustirsi.
Il vangelo racconta che, nonostante i segni del sepolcro vuoto, i discepoli ancora non hanno capito la Scrittura che dice di Gesù: “doveva risorgere”. Si trovano nel “non ancora” perché essi stessi, con la loro fatica nella fede, sono protagonisti di quello che stanno vivendo; e lo dovranno testimoniare a noi che non andiamo al sepolcro, ma leggiamo la Scrittura di cui essi sono protagonisti, e crediamo. E così siamo sullo stesso piano, i discepoli del primo momento e quelli di ogni momento della storia.
È lo Spirito che guida i passi di chi cerca la verità, costantemente e pazientemente conduce a cogliere le prove e dona la certezza del Risorto. Così la fede nasce, cresce, si irrobustisce, si trasmette nell’amore per Gesù.
Benedetto XVI, nel suo “Gesù di Nazaret” conclude il capitolo sul Risorto così: “Se ascoltiamo i testimoni col cuore attento e ci apriamo ai segni con cui il Signore accredita sempre loro e se stesso, allora sappiamo: Egli è veramente risorto, Egli è il Vivente. A Lui ci affidiamo e sappiamo di essere sulla strada giusta. Con Tommaso mettiamo le nostre mani nel costato trafitto di Gesù e professiamo: “Mio Signore e mio Dio!” (p.307)
Così si può capire la testimonianza silenziosa e sublime di Maria di Nazaret.
Ha scritto un poeta contemporaneo che si rivolge al Cristo Risorto:
“Tua madre fu la tua prima resurrezione
quando ti prese tra le braccia
sotto la croce
e ti baciò dolcemente.
Nessuno vide
che tu apristi gli occhi
per guardarla”
(Arnoldo Marco Mondadori: “La lunga agonia della beatitudine” Corriere della Sera, 24 marzo 2013)
Lasciarsi guardare dal Cristo Risorto come Maria.