IV DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At. 13,14.43-52; Sal. 99; Ap. 7,9.14-17; Gv. 10,27-30)
In questa domenica la Parola di Dio ci dà una nuova, più profonda consapevolezza della nostra vocazione di discepoli. Nel Vangelo di Giovanni, al capitolo 8, Gesù ha detto ai capi Giudei: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; per questo voi non le ascoltate, perché non siete da Dio”. Al capitolo 18, davanti a Pilato, ha ripetuto lo stesso concetto: “Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce”. Per comprendere la Parola è necessario “essere da Dio”, aprire cioè il cuore alla presenza dello Spirito, accoglierlo, perché ci faccia “rinascere da Dio”, ci renda possibile entrare nella luce del suo amore. Il passo del Vangelo che oggi la liturgia ci propone approfondisce questo annuncio: essere “da Dio” significa volere Gesù come nostro “buon Pastore”, scegliere di far parte del suo gregge, ascoltare la sua voce e seguirlo. Fidarci di lui è la unica, vera nostra possibilità di “essere da Dio”.
Indubbiamente l’immagine delle pecore è sconcertante per il nostro tempo. Noi non vogliamo far parte del “pecorume”, di quanti accettano l’aggregazione forzata, la passività di fronte alla propaganda, alla pubblicità, alla persuasione più o meno occulta dei “mass media”. Ma in Giovanni il significato è assai diverso. Per lui essere pecora di Gesù pastore significa essere suoi discepoli, fare di lui il nostro Maestro e seguirlo. Significa non ridurre la propria fede alla sola comprensione razionale, ma accogliere la Parola di Cristo come annuncio rivolto al nostro cuore, perché si traduca in vita concreta. Giovanni chiama questo ascolto “conoscenza”. Dice infatti Gesù: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. In tutta la Bibbia conoscere non è atto solo razionale, ma intimità che ci fa identificare con l’altro, è lo svuotarsi di sé, indispensabile perché l’altro possa essere davvero conosciuto. Conoscere è volontà di entrare in relazione con l’altro, con l’altro uomo, ma anche con l’Altro che è Dio.
Dice ancora Gesù in questo stesso passo: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute”. La relazione personale di Dio con ciascuno di noi è vita eterna. È importante intendersi su questo termine. La vita di amore totale e incondizionato che Gesù ci dona è vita eterna perché con la carica costruttiva della sua vitalità non è fine a se stessa, non si estingue nella precarietà di ogni fatto umano, ma resta presente non solo nella vita personale di ciascuno di noi, ma lungo tutta la storia del mondo. L’amore divino semina qualcosa che è capace di vincere anche la precarietà più grande, la morte che ci ruba l’amato, colui da cui vorremmo essere amati e capiti. La relazione con Dio va oltre il limite della nostra esistenza calata nel tempo, rimane come fecondità di rapporti fra le persone: è vita eterna perché permette anche alle relazioni costruite dai discepoli di germinare una catena feconda di relazioni positive nel futuro della storia. Relazioni che permettono alla famiglia umana di sussistere e di crescere nella fecondità della reciprocità.
L’Antico Testamento aveva già intuito questa verità. Nel libro della Sapienza, al capitolo 3 leggiamo che “Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio… Agli occhi degli stolti parve che morissero, … ma esse sono nella pace”. E il profeta Isaia ci fa ascoltare la voce di Dio che dice: “Nulla può sottrarvi al mio potere”. Gesù è molto più esplicito. Non si tratta solo della sopravvivenza del giusto o della certezza fiduciosa nella presenza del Signore nella storia. La sua persona, intimamente unita al Padre, rende possibile l’azione di Dio nel mondo: essa permette la fecondità della relazione degli uomini, permette che essi vivano in un rapporto di amore con lui e tra loro. Queste parole ci svelano progressivamente il mistero della realtà divina. Il Dio di Gesù non è un’entità chiusa ed astratta, ma è fecondità di relazione, è unità di amore tra il Padre e il Figlio, che dona a noi la sua vita, è lo Spirito che tutto sostiene nell’unico atto dell’amore. Per la stretta unione del Figlio Gesù con il Padre la vita che egli dona agli uomini è la vita di amore della Trinità divina, che vince la frattura, la separazione, la distruzione, la violenza, la morte. Per l’eternità. Nel libro dell’Apocalisse Giovanni chiarisce il senso dell’eternità dell’amore quando descrive la moltitudine immensa “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” in piedi davanti al trono di Dio e all’Agnello – Cristo immolato e risorto. In questa moltitudine è raffigurata l’umanità che vive nell’eternità dell’amore di Dio. Conoscere Dio, conoscere il buon Pastore, che conosce ogni sua pecora, è quindi vivere nella storia il rapporto dell’esistenza trinitaria. È lasciarci immergere nella gratuità della relazione di amore, vivere la nostra vita con Dio e crescere nel suo amore, come il bambino che nell’utero materno vive e cresce nel liquido amniotico.
Crescere nella vita di fede richiede un impegno della nostra interiorità. Solo nell’intimità e nel silenzio della coscienza ci è possibile penetrare progressivamente il mistero dell’amore eterno, che fa di ogni creatura oggetto della conoscenza e dell’amore di Dio. È una crescita interiore che necessariamente deve proiettarsi nella relazione dell’io con l’altro uomo, con l’Altro che è Dio. Nella vita trinitaria al Figlio viene affidato il compito di trasmettere questo amore a tutto il genere umano, ed egli lo assolverà con la sua morte e resurrezione. Ci dice Giovanni al capitolo 11 che quando il sommo sacerdote Caifa decise di far morire Gesù “per il popolo”, suo malgrado “profetizzò” perché, nel disegno dell’amore eterno di Dio, Gesù, il Figlio, doveva morire “non per la nazione soltanto, ma per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi”, per realizzare nella storia degli uomini il rapporto di reciprocità, presente nell’eterno amore delle Tre Persone divine. Entrare sempre più nella conoscenza di Gesù, che è “una cosa sola con il Padre” significa renderci conto che ognuno di noi è chiamato ad essere, in lui, una persona che dona tutto se stesso nel rapporto con l’altro. Vivere questo rapporto è possibile solo se cercheremo di farci poveri, nell’intimo del nostro cuore, vuoti di noi stessi, dei nostri schemi, delle nostre pretese e delle nostre aspettative. Questo vuoto interiore rivelerà me a me stesso, nell’accoglienza di Dio, di Dio che si fa presente nel fratello. Questa rottura delle nostre chiusure, questa povertà, che è vuoto interiore, mi permetterà di accogliere e vivere nel fratello l’amore di Cristo per l’umanità e realizzare così pienamente la mia realtà di uomo.
Si tratta di un discorso gravido di conseguenze per noi oggi. Prendere coscienza, progressivamente, del senso e del valore di questo amore che Dio Amore ci dona ci invita a non avere paura in questo tempo di paure e di violenza sconsiderata. Ci invita a vincere la tentazione di chiuderci all’interno delle nostre certezze, delle nostre sicurezze egoistiche, a vincere la tentazione di separarci dall’altro, di chiuderci nei confronti della sua diversità, nella contrapposizione di esigenze economiche, di storia, di idee. È la tentazione di esorcizzare l’altro, chiudendoci a lui, considerandolo il nemico.
Il 29 aprile abbiamo celebrato la festa di S. Caterina, la patrona d’Italia, vissuta nella Siena del Trecento. Era un tempo tormentato dall’incombere dell’Islam: allora come oggi si chiedevano crociate per preservare l’Occidente dall’invasione. Caterina, giovanissima – morì a soli 33 anni – descriveva così al proprio padre spirituale, fra Raimondo da Capua, la sua visione di fede: “Io vedevo entrare nel costato di Cristo il popolo cristiano e lo infedele ed io passavo per lo mezzo di loro e Cristo mi dava la croce in collo e l’ulivo in mano e mi diceva che lo portassi all’un popolo e all’altro”.
Che Gesù, buon Pastore, ci indichi la via della sua pace, che egli ci ha donato con la croce, metta l’ulivo nelle nostre mani. Preghiamo perché questa sua pace diventi realtà nella nostra vita e, attraverso quanti sono suoi discepoli nella concretezza dell’amore, diventi realtà nella storia del nostro tempo.
Nel capitolo 10 del vangelo di Giovanni Gesù parla di se stesso come del “buon pastore” che conosce e guida le pecore del suo gregge. Questo gregge ha una dimensione universale che stupisce chi ascolta: “Vi sono altre pecore che non provengono da questo recinto; anche queste io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.” (Gv.10,16). Sono parole che stupiscono chi ascolta. È il mistero della Chiesa: non un gregge limitato nello spazio e nel tempo, ma universale nel tempo e nello spazio.
Gesù dice queste cose parlando alle persone che lo circondano nel cortile del grande tempio di Gerusalemme, in occasione della festa che ne ricordava l’inaugurazione dopo la ricostruzione. Dicendo di aver ricevuto dal Padre eterno la missione di “pastore”, e affermando di essere una cosa sola con il Padre, Gesù propone una nuova visione del rapporto con Dio, dell’appartenenza a Lui. Dice che non c’è più bisogno di guardare all’edificio materiale per essere certi della presenza di Dio nel suo popolo. Indica se stesso e proclama che Lui stesso è la tenda, la presenza visibile del Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola”.
È l’affermazione di una unità di intenti che scaturisce dall’unione di amore e di obbedienza. Così la presenza di Dio che gli ebrei erano abituati a ravvisare, nella fede e nel culto, nel segno del tempio, è perfezionata in Gesù grazie alla sua unione con il Padre. Gesù invita ad avere con lui lo stesso rapporto che egli ha con il Padre: unità di intenti come espressione dell’unità di amore e di obbedienza. Se sarà così, dice, “nessuno le strapperà dalla mia mano”. La mano è l’immagine della comunione, del pensare ed agire in sintonia con Gesù. Perciò tante volte le persone di fede matura dicono “mi metto nelle mani di Dio”, “mi lascio guidare dalla mano di Gesù”. Questo essere “nelle mani” è vivere la vita stessa di Dio, è certezza della sua premura, rassicurazione, fiducia di non cadere nel vuoto nel momento della propria morte. Il gregge riceve la vita da quelle mani, ed è Dio stesso. Perciò Gesù dice: “Io do loro la vita eterna”.
Nella società e nel tempo che, in modo esasperato e soffocante, propone l’efficienza prima di tutto e ad ogni costo, forse più di quanto non sia accaduto precedentemente o accada oggi in altre culture, siamo chiamati, come credenti, a non restarne prigionieri. L’efficacia del “lievito” del vangelo, infatti, ha la sua radice sicura nelle mai di Dio, di Gesù che è la sua Parola fatta carne per noi.
Oggi noi preghiamo perché il Signore faccia dono alla Chiesa di vocazioni al sacerdozio e lo ringraziamo per la consacrazione di sette nuovi presbiteri per la nostra diocesi.
Vogliamo domandare la qualità alta di questo ministero, una qualità da far nascere dalle mani del buon Pastore, perché l’azione pastorale non sia frutto di iniziativa umana, ma del cuore di Dio, a cui la nostra gente è chiamata come al traguardo della vita. Un ministero, perciò, non di protagonismo e di attivismo, ma di umile servizio per l’incontro delle persone con quelle mani. Non è facile il servizio al Vangelo in un tempo di incredulità diffusa. E può essere istintivo cercare scorciatoie.
Penso alle figure della Scrittura. A Mosè nel capitolo 32 dell’Esodo, alla sua accorata implorazione sacerdotale: “Questo popolo ha commesso un grave peccato, si sono fatti un dio d’oro. Ma ora, se tu perdonerai il loro peccato… e se no, cancellami dal tuo libro che hai scritto!” (Es.32,31-32). A Paolo nella lettera ai Romani: “Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei io stesso essere anatema, separato da Cristo, a vantaggio dei miei fratelli.” (Rm.9,3). La loro è una identificazione vera con il popolo che, rifiutando Dio, aveva rifiutato il loro ministero. Non si tirano indietro, ma capiscono che Dio stesso li chiamava a questa identificazione che, nella preghiera, arriva a sfiorare la bestemmia. Chiamati perciò per intercedere nella preghiera come persone che hanno fatto proprio il destino delle persone loro affidate. E, tuttavia, non si identificano con il loro compito di guide, perché prevale in essi la coscienza di essere “servi” del Signore, come è detto di Mosè che muore senza poter entrare nella terra promessa, “secondo l’ordine del Dio che lo ha chiamato” (Dt.34,5).
Penso, infine, a Pietro, che abbiamo visto amato e perdonato dal Risorto per poter “pascere” in suo nome e condurre a lui.
Pietro fa dono alla Chiesa della sua crisi di fede sanata da Gesù. Come in una sintesi egli identifica il proprio compito di pastore con l’amore per il Signore, che è la sostanza della sua vita – vede le due realtà come una cosa sola, in un assoggettamento di amore che libera dalla precarietà dello spontaneismo e radica nella roccia della istituzione che nasce dall’amore fedele del buon Pastore, condividendone le scelte, con distacco e gioia, frutti della povertà in spirito, quasi fossero le scelte sentite e programmate da sé. E scrive:
“Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza, ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge.
E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1Pt. 5,1-4)
La liturgia invita a guardare nella fede Gesù che si va svelando come la luce che riflette il Padre con cui è in un intimo e continuo rapporto. Lo “conosce”, lo spiega, lo manifesta con i gesti concreti e il vangelo lo trasmette con l’immagine del buon pastore, che tanto incise nella memoria dei primi cristiani.
Presentandosi come il maestro che porta al mondo le parole eterne di Dio e come il pastore che conduce al traguardo della sua casa, Gesù annuncia che nessuno è escluso da questo dono. Quella di Dio è una paternità universale, e Gesù lo evidenzia annunciando che gli ultimi, i poveri, i peccatori sono i primi nel cuore del Padre. Una paternità “sovrabbondante” e “gratuita”, al di là dei meriti, presunti o reali, degli uomini.
Sant’Agostino ha un bellissimo pensiero, più tardi fatto proprio da Lutero:
“L’amore dell’uomo parte da ciò che è amabile, l’amore di Dio non trova ma crea ciò che è amabile;
così, infatti, i peccatori sono belli perché sono amati, non già sono amati perché sono belli.
E questo è l’amore della croce, nato dalla croce, che si pone non là dove si trova un bene da amare, ma dove può dare un bene a chi è cattivo o povero”
(Agostino, “Comm. a 1Gv.9,9; Lutero in “Dispute di Heidelberg”)
Gesù mostra Dio Padre con evidenza e concretezza. Perciò il suo insegnamento costante afferma che l’uomo non vive da orfano nel mondo, ma è sempre sostenuto e protetto dalla mano del Padre: come il testo assicura, e Gesù lo ribadisce riferendosi a se stesso, alla sua propria mano.
Paternità universale, dunque, e assolutamente personalizzata. L’io di ciascuna persona umana è conosciuto e amato, “disegnato sul palmo della mano” di Dio (Is.49,16), ed è chiamato al rapporto filiale con l’Io di Dio. A questo traguardo conduce il buon pastore. Si tratta di un rapporto che la fede e l’esperienza spirituale della tradizione biblica del Primo Testamento non poteva raggiungere e che solo Gesù poteva proporre, mostrandolo in se stesso come proprio. La paternità di Dio, dice Gesù, tocca ogni singolo uomo nella sua dimensione reale, corporea e spirituale insieme, come canta il salmo 15, “Anche il mio corpo riposa al sicuro”, e nel vincolo dei suoi legami affettivi, del suo lavoro, della società in cui vive. Tutto è luogo in cui Dio tesse la sua trama: “Anche i capelli del vostro capo sono contati” (Lc.17,7).
Gesù invita ad entrare nel suo rapporto con il Padre con fiducia, senza pensare ad un Dio paternalistico, possessivo, invadente, geloso della libertà che Egli stesso ha voluto per l’uomo, ma, piuttosto, con la certezza di un Padre desideroso solo di vedere i figli crescere nella responsabilità; sapendo che il rapporto è riproponibile quando si è coscienti del peccato, del bisogno di perdono, che permette di ricominciare il cammino, perché Dio è padre di misericordia, il rapporto con Lui è grazia che colma ogni vuoto; la fatica dell’umiltà è la via della liberazione da se stessi, perché la pace del cuore “non è mai a buon mercato” (D. Bonhoeffer).
Tutta l’esistenza di Gesù rivela il volto paterno di Dio e racconta con le parole e con i gesti la sua premura, la sua compassione, la vicinanza, il suo spingersi dentro le tante forme di lontananza dell’uomo da Dio. L’esperienza umana di Gesù conosce la solitudine, la fatica, il fallimento, lo sforzo quotidiano compiuto per adeguare il proprio volere a quello di Dio. Quella di Dio in Gesù non è una presenza che incombe dispoticamente come un giudice da temere, non intende incutere paura, come un fantasma o un incubo, ma si propone come amore che accompagna e fa crescere agendo nel cuore con mitezza e pazienza. Una paternità che, per favorire la fiducia e l’affidamento, ama coniugare in se stesso le caratteristiche più propriamente maschili della paternità con quelle più propriamente femminili della maternità. Le une e le altre abitano stabilmente nel cuore di Dio fondendosi in un unico cuore. Perciò non solo il Dio della potenza, dell’incessante opera creatrice, delle sempre nuove iniziative, ma il Dio della tenerezza, dell’intimità, della misericordia. Quello che l’uomo e la donna possono esprimere in quanto coppia e diventare nell’unità “immagine di Dio”, nel cuore del Padre è già ed è per sempre unità, radice e traguardo per ogni donna e ogni uomo.
Come diventano logiche le parole di Gesù:
“Le mie pecore ascoltano a mia voce”, la voce di chi ci è più intimo;
“ed esse mi seguono” non “mi obbediscono”, ma “fanno la mia strada”;
“do loro la vita eterna”, custodendo il valore prezioso dei doni ricevuti;
“nessuno le strapperà dalla mia mano”, perché le sue sono mani che accolgono.