V DOMENICA DI PASQUA – Anno C
(At. 14,21-27; Sal. 144; Ap. 21,1-5; Gv. 13,31-35)
È la quinta domenica di Pasqua: ogni domenica durante l’anno ricordiamo la Pasqua, ma in questo periodo la celebrazione è più intensa, la liturgia ci permette di penetrare sempre meglio nel mistero della vita che Dio ci dona attraverso il Figlio. Oggi la seconda lettura si chiude con le parole che caratterizzano la realtà del Risorto: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. E’ il libro dell’Apocalisse: purifichiamo la nostra mente dal significato che comunemente si dà a questa parola, considerando l’apocalisse qualcosa di distruttivo. Nella Scrittura essa conserva il suo valore etimologico di rivelazione. Il libro con cui si chiude la Bibbia ci svela il disegno di Dio, che non può essere racchiuso negli schemi della nostra logica umana, ma è Parola, che ha l’autorevolezza di Colui che siede sul trono e ha una voce potente: questa voce ci rivela che la vita umana è presenza di Dio con gli uomini. Non si tratta di un mondo futuro: oggi, da sempre, Dio è con noi, qui, con noi sta facendo nuove tutte le cose! Il Vangelo di Giovanni ci guida a comprendere il modo in cui questa novità di vita si realizza. Domenica scorsa ci ha parlato di Dio come il Pastore che conosce le sue pecore, così come esse conoscono lui: si tratta di una conoscenza che è intimità di relazione interpersonale. Il progetto di Gesù, il suo sogno, è di comunicare a quanti lo seguono la sua stessa vita di relazione intima con il Padre, quella totalità dell’amore senza riserve, che caratterizza la vita divina, nella Trinità delle persone. Oggi ci indica come, nel chiudersi della sua esistenza terrena, egli sta attuando l’amore totale e gratuito. Nel Vangelo questa concretezza dell’amore viene indicata con il nome di “comandamento”. Anche qui bisogna intendersi sui termini. Nella notte della veglia pasquale abbiamo letto i Dieci Comandamenti. Non si tratta di una legge imposta dall’esterno! Dio, dandoli a Mosè, propone un’Alleanza, una comunione, un dono di vita, non un comando dato a distanza. L’Alleanza, disegno voluto dal Padre dall’eternità, sarà realizzata in pieno da Gesù nella concretezza della sua vita terrena. Il comandamento nuovo che egli ci dona è l’invito a vivere la stessa vita di amore a tutto campo che egli vive con il Padre ed ora realizza nel mondo dandoci tutto se stesso, fino alla croce! “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Si tratta di un amore che supera ogni barriera, e si apre a tutta l’umanità. Questo passo, nel Vangelo di Giovanni è preceduto da due gesti importantissimi di Gesù, che testimoniano il senso di questo suo amore totale e gratuito. Il primo è la lavanda dei piedi, che ci spiega quale deve essere il nostro servizio reciproco all’interno della comunità. Il secondo apre l’amore al mondo intero. Abbiamo letto ora nel Vangelo che prima di iniziare la cena, la sua ultima cena, Gesù aveva pronunciato queste parole: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà”. E ai discepoli smarriti che si domandavano chi potesse essere, indica Giuda, il traditore, offrendo proprio a lui il boccone più prelibato, il pane intinto nell’intingolo che accompagnava l’agnello pasquale. A colui che sta per tradire è rivolto il gesto più affettuoso. Gesù rompe così tutti i confini che delimitavano l’amore nella mente dei discepoli: il suo amore che viene dall’iniziativa del Padre della luce, è novità totale, è la sfida più grande, perché è l’amore divino, che va incontro a tutta l’umanità, senza escludere nessuno. Si tratta di un insegnamento molto importante per la nostra responsabilità di fede, se decidiamo – anche attraverso il buio che spesso accompagna la fede – di seguire la via dell’amore con cui Gesù ci ha amati. Ascoltiamolo: egli ci dice che solo se saremo fedeli a questo suo modo di amare, l’umanità si accorgerà che egli sta rinnovando la storia, la sta rinnovando con un amore che non resta chiuso nel cuore, ma inonda l’intera umanità, rivelando la presenza di Dio: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli …”. Nei primi secoli dell’era cristiana, Tertulliano, nel suo libro l'”Apologeticum”, al capitolo 39, scriveva che la pratica dell’amore imprime nei cristiani un marchio nei confronti dei pagani, che vedono come essi si amano fra loro e donano la propria vita. Nel nostro tempo il Vaticano II ha ricordato che l’amore è la legge fondamentale della comunità cristiana. A nulla servono i riti, le tradizioni, le grandi scenografie sacre, senza questo comandamento che è la legge delle leggi: amarsi lì dove ciascuno è chiamato a vivere, nella singolarità della propria situazione.. Ma è così per i cristiani? La cronaca ripugnante di questi giorni, che ci parla di torture inflitte da uomini ad altri uomini, ci richiama le parole del profeta Daniele, disfatto dal peccato di Israele: “A te conviene la giustizia, Signore, a noi la vergogna sul volto … a noi, ai nostri re, ai nostri principi, ai nostri padri, perché abbiamo peccato contro di te …”. Per noi la vergogna è doppia. Lo è perché siamo occidentali, portatori di una civiltà maturata nei secoli. Ma lo è anche perché siamo cristiani disobbedienti. Con Daniele non posiamo che continuare a chiedere misericordia e perdono. Con la vergogna sul volto. La liturgia oggi ci comunica l’iniziativa del Risorto, ci apre le porte della Gerusalemme celeste, la città che egli prepara per noi. Se vogliamo rendere presente la dimora di Dio tra gli uomini, che fa nuove tutte le cose, dobbiamo vivere nello spirito dell’Ultima cena, farne l’anima del mondo. La città cristiana, la città di Dio, è vita di reciprocità, di convivialità umana, fatta ad immagine di Dio, abitata dallo Spirito, nel rispetto dell’uomo e nella comunione dei beni. Così come gli Atti ci descrivono le prime comunità cristiane, che portavano il Vangelo dovunque vivevano. Lì dove siamo chiamati ad abitare, nella concretezza delle situazioni individuali e sociali. Per esprimere questo, un mio ricordo personale. Dovevo andare a S. Gregorio Armeno. Ho percorso prima, in un pellegrinaggio silenzioso, le vie di Forcella, nell’assordante rumore dei motori, delle macchine della polizia. E mi sono domandato: “È questa la città di Dio?”. Dopo pochi passi il silenzio del chiostro di S. Gregorio Armeno, dove si avverte la presenza di Gesù. Allora ho capito che egli è in ogni luogo, che la presenza di Dio nella storia rende ogni luogo suo sacramento, strumento del suo rivelarsi all’interno dell’umanità. Impariamolo facendo nostra la fondamentalità della legge dell’amore, che sola è capace di rivelare questa presenza. Così come abbiamo pregato nella Colletta di oggi: “O Dio, che nel Cristo tuo Figlio rinnovi gli uomini e le cose, fa che accogliamo come statuto della nostra vita il comandamento della carità, per amare te e i fratelli come tu ci ami, e così manifestare al mondo la forza rinnovatrice del tuo Spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio e vive e regna con te nei secoli …” Amen!
In questa quinta domenica di Pasqua la liturgia propone i primi passi della comunità cristiana che vive il mistero della Chiesa in consapevolezza crescente, nella pluralità delle storie personali e delle attitudini. Sono “anziani” e fedeli, discepoli e apostoli: la loro presenza si fa sempre più visibile nella società civile. E’ per noi un invito a riflettere sulla nostra appartenenza alla Chiesa, sul suo mistero e sulla sua natura, a superare il disagio che a volte proviamo. La scena descritta dagli Atti mostra un grande coinvolgimento di tutti per il bene del gruppo che si organizza, perché i fedeli sino sostenuti “per restare saldi nella fede.” Paolo e Barnaba, percorrono instancabilmente le terre del bacino orientale del Mediterraneo, dell’Asia minore: ovunque si recano, ascoltano, partecipano e in ogni comunità indicano degli anziani, perni di comunione e di unità, che accompagnino i suoi passi “attraverso molte tribolazioni”, prevedibili ed inevitabili. La risposta dei primi discepoli è il consenso fiducioso che si esprime nella preghiera che affida gli incaricati al Signore “nel quale avevano creduto”. L’opera della piccola comunità appare non come azione solo degli anziani scelti, incaricati di confermare e sostenere i fratelli, ma di tutto il gruppo. Così si comprende che, dall’accoglienza del vangelo, ha origine una spiritualità collettiva di unità di intenti, di condivisione. Il fatto che le guide siano indicate dagli apostoli, non nella spontaneità, non contrasta la natura comunitaria del gruppo, ma la sollecita, evitando la scontatezza e le deleghe che coprono la stanchezza e fanno dimenticare la responsabilità. Tutti sono “affidati al Signore”, perché tutti sono del Signore, nella varietà dei compiti. Gli apostoli non sono possessori della grazia, ma servitori di Dio assieme a tutti i fratelli, anziani, sposi, ragazzi. Così si vede che è preziosa l’azione generosa dei pastori, ma si vede anche, chiaramente, che solo Cristo segue e orienta le singole persone che lo ascoltano e in lui pongono la loro fiducia, non in altri. E, in Paolo e Barnaba, scopriamo lo stile intimo della comunità di cui aiutano la crescita nella fede: non trattengono per sé quanto Dio ha operato attraverso di loro, ma subito aggiornano tutti, perché tutti condividano la gioia e la responsabilità. Non si deve pensare, dunque, ad un’organizzazione che veda da un lato la comunità e dall’altro un vertice, che si chiamerà gerarchia, come una cuspide lontana dal corpo, cosa che farebbe della Chiesa una specie di mostro, corpo senza capo e capo senza corpo. La storia poi farà comprendere che la santità – che è la vita vera e piena dei cristiani – non appartiene alla gerarchia per le sue funzioni, ma è dono dello Spirito che abita in tutto il corpo della Chiesa, suscitando nei singoli la dignità e la santità. E’ quello che viene mostrato dall’Apocalisse che rivela la dimensione definitiva, dove Dio è tutto in tutti, Dio in mezzo al suo popolo, “di ogni nazione, tribù, popolo e lingua” (Ap.7,9). Sarebbe sbagliato pensare la Chiesa nel suo cammino nella storia come la realizzazione perfetta del Regno di Dio, ma anche pensarla come copia brutta e infedele di quella perfetta dell’eternità. La realtà è quella descritta da s, Agostino che dice: la Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio” (De civ. Dei 18) e fa concludere al concilio Vaticano II; “dal Signore resuscitato trova la forza per vincere con pazienza e amore le sue interne ed esterne difficoltà e afflizioni” (L.G.8). La tensione dei credenti sta nell’impegno a ridurre la distanza tra il “già” e il “non ancora”, soprattutto vivendo la carità, come statuto fondamentale. Anche a livello personale, oltre che collettivo e universale, i credenti sono chiamati a mantenere la tensione alla carità, che risana i rapporti al presente, e la tensione verso il futuro definitivo, ancora non raggiunto. La facilità con cui parliamo di amore non toglie le difficoltà di viverlo come Gesù lo ha vissuto. Non siamo capaci di vera gratuità, e là dove non troviamo titoli di amabilità facciamo fatica a riconoscere la presenza di Lui in chi ci ripugna. Eppure il vangelo è assoluto: “come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri”. Il Signore non propone un’imitazione, ma un’identità: “Se amo, sono!”. Al di là delle competenze e delle responsabilità della società civile, dei suoi impegni doverosi, la carità apparentemente folle dei discepoli del Signore scopre sempre nuovi poveri, gli “ultimi” che non possono ricambiare, che non hanno alcun diritto né alcuna possibilità di reciprocità di scambio, almeno sul piano materiale, perché invece capacissimi di bene e di delicatezza. Ad essi hanno guardato Vincenzo dei Paoli sulle navi dei galeotti, Cottolengo facendosi padre e madre per i disabili rifiutati dalla società, don Milani con quanti restavano fuori da ogni accesso perché analfabeti, madre Teresa con quanti attualizzano la sete di Cristo sulla croce. E tante e tanti, anche fra di noi, come testimoniano i nostri fratelli “amici di strada”, che provvedono alle necessità più urgenti dei tanti senza fissa dimora (ne parla l’inserto del foglio “Qui Piedigrotta” del mese di maggio). La pienezza, senza parzialità e debolezza, appartiene al futuro. Eppure possiamo, nella reciprocità del consenso, che permette di pensare ed agire insieme, porre il segno umile ma forte del superamento della decadenza individualistica, e della paura che si tira indietro dal coinvolgimento, possiamo testimoniare il Signore come la comunità dei primi discepoli. Quella che, come ha ricordato il Concilio, “ha come capo Cristo, come condizione la libertà e la dignità dei figli di Dio, come legge il nuovo precetto di amore, come lo stesso Cristo ci ha amati, come fine il regno di Dio” (LG.9) Chiediamo riconoscenza e gioia per la nostra appartenenza alla Chiesa.