ASCENSIONE DEL SIGNORE – Anno C
(At. 1,1-11; Sal. 46; Eb. 9,24-28;10,19-23; Lc. 24,46-53)
Gli Atti degli Apostoli, che aprono la liturgia di oggi iniziano con un’espressione molto importante. Dice Luca: “Nel mio primo libro ho già trattato … di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio…”. Principio è parola importante che ricorre più volte nella Scrittura. Il prologo del Vangelo di Giovanni si apre con queste parole: “In principio era il Verbo…”, la vita di Dio prima della storia. Il primo capitolo del libro della Genesi evoca così il momento della creazione: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. Anche il momento dell’Incarnazione parla di un progetto di Dio, presente da principio: “Ecco concepirai un figlio – dice l’Angelo a Maria – lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo… e il suo regno non avrà fine”. Oggi si parla di principio negli Atti, all’inizio della storia della Chiesa: il dono dello Spirito e la missione aprono una fase della storia che durerà fino alla venuta del Signore.
La nostra meditazione deve soffermarsi su questa parola: “principio”. Essa indica l’azione di Dio che rompe l’inaccessibilità della trascendenza, si fa dono infinito di amore: Dio si ritrae dal suo essere, si apre, non si chiude all’interno della sua perfezione, ma si dona, perché altri – noi – possiamo condividere la sua realtà di amore. Con questa parola “principio”, Luca ci rivela la continuità dell’amore di Dio, dall’inizio della storia all’Ascensione di Gesù. Non si tratta solo del trionfo del Figlio incarnato, l’Ascensione indica proprio questa continuità dell’agire divino: ogni uomo è amato fin dal principio ed è chiamato alla vita della trascendenza eterna. La vita, la morte e la resurrezione di Gesù compiono quel desiderio, espresso dalla preghiera pronunciata prima della passione: “Come tu, Padre, sei in me ed io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola”. Il desiderio dell’unità fra tutti gli uomini nell’amore, realizzata dalla presenza di Dio nella storia.
Anche se il nostro “grazie” umano è sempre limitato e insufficiente, celebriamo con infinita riconoscenza la gratitudine per il dono di questa vita divina, che dà senso dinamico alla vicenda dell’umanità, chiamandola ad un cammino di crescita. È un cammino certo, perché al suo inizio c’è Gesù, il Figlio di Dio risorto, lungo la storia c’è lo Spirito che ci sostiene con la sua vita, al termine c’è la certezza del ritorno di Dio. Il senso della vita, per il credente, diviene così una tensione verso la pienezza di una vita di amore. Il dono del Risorto ci rende possibile fin da ora pregare Dio chiamandolo Padre Nostro e quanto abbiamo ricevuto ci chiama ad un impegno per la crescita nostra e del mondo. Vivere deve essere per noi donare il Vangelo all’umanità, sempre più: “Mi sarete testimoni – ha detto Gesù agli Apostoli prima dell’Ascensione – a Gerusalemme, in tutta la Samaria e fino agli estremi confini della terra”. L’ultimo gesto di Gesù è un gesto di benedizione: anche il Padre, quando creò l’uomo a sua immagine, maschio e femmina, li benedisse. Dio è un Dio di benedizione e non di condanna. Perciò Gesù, nel lasciare gli Apostoli, dà loro una parola di fiducia: andare avanti per testimoniare la sua presenza nella gioia e nella pace. I discepoli, dopo l’Ascensione tornarono a Gerusalemme con grande gioia, così come i pastori dopo aver visto il Bambino nella mangiatoia. La gioia viene agli uni e agli altri dalla certezza che il Signore è presente tra noi.
Ma la lettura degli Atti ci ha anche mostrato la chiusura dei discepoli. Essi hanno conosciuto Gesù e credono in lui, eppure, prima dell’Ascensione gli domandano ancora una volta: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?” Gesù non si presta a questa richiesta e li invita, invece ad essere suoi testimoni. Anche noi, pur credendo, potremmo pensare di chiedere al Signore la ricostruzione di qualche cosa di cui abbiamo nostalgia. Gesù invece ci chiede di andare avanti e guardare al presente della nostra storia. Invece di guardare indietro, pensiamo con riconoscenza a quanto oggi può arricchire l’uomo: lo studio, la ricerca, la libertà, la politica, l’educazione dei figli, la tenerezza degli sposi. Il cammino che l’Ascensione del Signore ci propone non è il guardare indietro, ma guardare avanti, verso l’oltre di Dio. Egli non è salito, nello spazio, al di là delle nubi, ma il suo ascendere è l’andare oltre quanto blocca il presente, lo chiude. Egli ci consegna la legge dell’amore, che passa attraverso la croce, perché possiamo cogliere tutto il positivo della vita e vivere responsabilmente il presente. L’Ascensione toglie la suggestione che può darci il pensiero della reincarnazione: non possiamo pensare ad un’altra vita terrena, in cui correggere i nostri sbagli. Il tempo non è una realtà chiusa, ma aperta al futuro. L’oggi con Gesù si apre ad una pienezza di vita senza fine, ci chiama a rendere presenti, ora, i valori che hanno accompagnato Gesù: la comprensione, il perdono, l’amore. Il nostro oggi è finito, è piccolo, ma può diventare infinitamente ricco se lo viviamo nella comprensione e nell’amore.
Dice la mistica Magdeleine Delbrel: “Se Cristo ci ha donato la vita eterna è per viverla, annunziarla, manifestarla, celebrarla, come il culmine di tutte le felicità, come la nostra beatitudine”.
Celebriamo con grande gioia l’Ascensione del Signore e la nostra!
L’Ascensione è la glorificazione di Gesù, il mistero della sua vita che si compie nella sua umanità, unita per sempre nella patria da sempre desiderata, il seno del Padre. Mai lontano da Lui nella sua vicenda tra gli uomini, come il vangelo attesta con abbondanza, ora è l’umanità in Lui ad essere glorificata. Gesù glorificato è l’immagine perfetta dell’umanità pienamente realizzata, ed è la rivelazione del destino dell’uomo, chiamato a vivere per sempre in quel seno. È una pienezza che investe anche i fratelli non credenti, che on noi desiderano il massimo di realizzazione della vita.
Perciò non celebriamo soltanto l’evento personale di Gesù, ma in Lui, “primogenito tra molti fratelli”, scopriamo la chiamata di ogni uomo. “Pensa al Cristo che siede ala destra del Padre: quanto ha fatto oggi con la sua ascensione è per te una promessa. Dobbiamo sperare che risorgeremo e saliremo al regno di Dio e vi rimarremo per sempre con Dio”, scrive s. Agostino. Perciò Gesù è la speranza dell’uomo e la gioia, già da ora. Perché la presenza nel cielo di Dio non significa assenza da noi ma, al contrario, significa vicinanza maggiore a ciascuno, condivisa nell’amore del Padre e affidata al dinamismo dello Spirito. Dobbiamo superare la fantasia che ci fa immaginare l’Ascensione come un sottrarsi, un’assenza, mentre è un farsi più vicino all’uomo anche se tolto allo sguardo e ai rapporti, nel senso fisico della parola. Come ci ha insegnato il catechismo di Pio X, Dio è in ogni luogo. Quando si supera la fantasia e ci si allena alla presenza invisibile, si sperimenta la grande gioia della comunità di Gerusalemme, di cui parla Luca nel racconto. Così ha inizio il cammino della Chiesa, che il Risorto stesso indica nella missione di annuncio del vangelo. I discepoli non dovranno solo ricordare e celebrare Gesù, ma dovranno collaborare con lo Spirito per la venuta del Regno, lasciando a Lui l’iniziativa: “Non spetta a voi conoscere tempi e momenti che il Padre ha riservato al suo potere”; un avvertimento sempre importante, che mette in guardia dalla tentazione del dominio e da quella di misurare e porre nei registri dove e quando il Regno è presente. Questa potenza d’amore, che realizza tempi e momenti, è riservata solo a Dio. Fede è fidarsi della sua libertà da ogni scadenza e metodologia. Il compito della Chiesa è continuare il tempo di Cristo fino alla fine del tempo, la sua tensione è ad essere il Cristo dispiegato nei secoli fino a raggiungere i confini della terra. Perciò Luca mette in continuità la fine del suo vangelo e l’inizio degli Atti e presenta l’Ascensione come raccordo fra il prima e il dopo.
Ora Gesù è nella sua realtà definitiva e i discepoli non dovranno attendersi più manifestazioni pubbliche della sua umanità. Perciò subito Luca parlerà della venuta dello Spirito, che sarà il protagonista della continuità. Ne deriva la rinuncia ad ogni visione apocalittica, che tende a mettere fretta, ad anticipare il progetto del Padre di cui il credente conosce la verità, ma non i ritmi di attuazione. Questo vale per il nostro tempo, assetato di visioni, di apparizioni, di eventi rassicuranti. Ci dobbiamo fidare solo di Cristo.
“E, alzate le mani, li benediceva”.
È l’ultima immagine di Cristo: le mani alzate a benedire.
“Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”.
La benedizione è la parola definitiva di Gesù, benedizione senza fine, che si stende come un manto profumato di compassione divina e di affettuosità, di vicinanza fraterna, calda, su tutta la storia e su ogni singola persona, su tutta la terra, in ogni tempo, su tutte le tensioni per i bene e per la giustizia, su tutte le incapacità e miserie dell’uomo.
È la benedizione che ricorda ed attua quella del Creatore sulla prima coppia umana (Gen.1,28) e quella di Giacobbe sui dodici figli che daranno vita alle dodici tribù del popolo, che dovrà essere segno per tutta l’umanità, in ogni tempo (Gen. 49,1-27). Benedizione che genera la vita, le infonde forza e permette di affrontare ogni situazione.
Il Cristo glorificato che benedice è la rivelazione dell’amore e della fiducia di Dio per il mondo, per l’umanità, come il gesto tenero di un papà e di una mamma sul proprio bambino che dorme, quando, benedicendolo con il cuore e con le labbra, gli si vorrebbe dire: “Ti benedico: tu vali e Dio ti ama”.
Annunciarlo e testimoniarlo a tutti, farsi portatori della benedizione, è il compito dei cristiani nel mondo, come Paolo scrive: “Benedite e non maledite” (Rom12,14) e come il discorso a Diogneto attesta delle prime generazioni cristiane: “oltraggiati, e benedicono” (n.5). Perciò è importante non dare valore spaziale a quel “salì in alto”. Cristo, alla destra del Padre, non è al di là delle nubi, ma nel profondo di ciascuno, siede alla destra di ciascuno per dirgli: “sono qui con te”. Egli è dentro ad ogni sentimento umano di condivisione, dentro ad ogni espressione del cammino positivo dell’umanità e della creazione.
Luca propone per due volte, nel Vangelo e nel libro degli Atti, la verità dell’Ascensione di Gesù, che crediamo nella fede, anche se non possiamo descriverla con parole umane. Informato dalla testimonianza degli Apostoli ne parla come uno che sia stato presente e sottolinea alcuni particolari perché restino impressi nella memoria di fede. Il suo servizio alla verità del Signore Gesù ci assicura che la pienezza del divino che è nella persona di Lui, lo rende il Vivente per sempre e, per conseguenza, lo introduce nel Regno dei Cieli con l’interezza della sua natura umana e divina. È il Signore!
Che cosa significa questa verità di fede nella vita dei credenti?
Luca mette l’accento sul commiato. L’Ascensione è una separazione. “È una conseguenza importante per la vita della Chiesa: non c’è più la presenza visibile di Gesù tra gli uomini”, scrive il cardinale Martini. La nube che lo nasconde allo sguardo è il segno di un nuovo modo di presenza: come nell’Antico Testamento la nube nascondeva la tenda della dimora di Dio ma ne custodiva e segnalava la presenza. Era una presenza nascosta che, mentre nascondeva, parlava e indicava la santità di Dio.
I verbi “guardare”, “vedere”, “fissare” indicano uno sguardo lungo e attento, tipico di chi deve e vuole custodire quello che vede con i propri occhi. Sono verbi che danno la certezza di quello che gli Apostoli testimoniano. Essi fanno, in qualche modo, l’esperienza del profeta Eliseo nel momento in cui sta per essere “rapito in Dio” il suo maestro Elia; il discepolo domanda che gli venga lasciato lo spirito che lo aveva animato nel suo servizio, per poterlo proseguire fedelmente. Così gli Apostoli che “vedono” Gesù ascendere al cielo riceveranno il suo Spirito per continuare l’annuncio del Vangelo. Perciò dovranno smettere di “guardare” da spettatori e con rimpianto e dovranno cominciare a “vedere” tutti i popoli della terra come destinatari della missione.
Forse Luca vuol raccomandare ai cristiani impazienti di non aspettarsi il ritorno del Signore in tempi brevi. Forse vuol dire loro di non perdere tempo, di non attendere dal cielo interventi miracolosi, ma di prendere su di sé la missione di Gesù per proseguirla fino agli ultimi confini della terra. Luca dice che, con l’Ascensione, cambia il tipo di rapporto con Gesù che era stato caratterizzato dalla visibilità di Lui; ora quel tempo è concluso e bisogna maturare nella fede, accogliendo lo Spirito santo e impegnandosi per la testimonianza del Vangelo.
“Mentre li benediceva”.
Nel racconto emergono due particolari, la benedizione da parte di Gesù e l’adorazione da parte dei discepoli. È come una liturgia di gioia, di lode, di amore donato e ricambiato con il cuore. Al primo gesto di benedizione di Gesù corrisponde il primo gesto di riconoscenza e gratitudine nel segno dell’adorazione da parte dei discepoli, evidenziato dalla prostrazione. Mai Luca aveva parlato di questo gesto prima della passione, ma ora lo propone come qualità e misura del rapporto con Gesù, nella prostrazione davanti al suo gesto di benedizione.
È l’ultimo suo gesto la benedizione con cui si rivolge ed accompagna tutta l’opera dei primi discepoli e di quelli che li seguiranno. A questa benedizione, che il Signore dona con le mani alzate, i discepoli dovranno sempre “guardare”: quelle mani significano non solo presenza affettuosa, ma tenerezza, premura. La prostrazione degli Apostoli è quella dovuta solo a Dio. Così si inaugura il culto cristiano, la relazione con Gesù, sempre in Dio e sempre con noi.
L’Ascensione è un mistero di vita e di amore per noi che ci uniamo all’adorazione dei primi discepoli. Siamo amati dallo stesso Amore, chiamati alla stessa gloria, come dice sant’Agostino in una sua omelia per questa solennità:
“Pensa a Cristo che siede alla destra del Padre; quanto ha fatto egli con la sua ascensione è per te una promessa.
Bisogna sperare che risorgeremo e saliremo al Regno di Dio e vi rimarremo per sempre con Dio”. (Disc.265/C)
La speranza e la gioia sono il respiro del cristiano che custodisce la memoria della dimora definitiva di Gesù in Dio, primo di ogni creatura. Ci viene donata una presenza più viva, più intima ed efficace di quanto possiamo immaginare nel nostro limite. Una presenza che raggiunge il cuore di ogni uomo, alimenta l’attesa dell’incontro definitivo, radicata in quella che è stata l’iniziativa di Dio nella vicenda di Gesù Cristo.
“Queste cose – conclude sant’Agostino – le ha promesse Dio. Affinché tu creda – ha detto in sostanza – che salirai a me, prima io scendo da te, e affinché tu creda che vivrai di me, prima io muoio per te” (ivi).