II DOMENICA T.O. – Anno C
(Is 62,1-5; Sal. 95; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-11)
Quasi come un legame che non faccia perdere quanto ha proposto nella celebrazione del Natale, la liturgia oggi ci dona il gesto compiuto da Gesù a Cana come una manifestazione messianica simile a quella del battesimo nel Giordano. Lì era stato il Padre a svelare il Figlio, qui è Gesù stesso che rivela la sua gloria e lo fa con un gesto di cambiamento, come per dire che la sua persona porta un passaggio dal vecchio al nuovo. L’attenzione dell’evangelista non è sul prodigio, ma su Gesù: “Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli cedettero in Lui.”
Poniamoci ora due domande. Innanzitutto: Come si rivela la gloria di Gesù?
Giovanni nel suo vangelo racconta i miracoli come segni della realtà di Dio nella persona di Gesù. In questo, come in altri segni, c’è un atteggiamento e un’indicazione di superamento, nei gesti come nell’insegnamento, della concezione antica della religione, c’è come una tensione a rinnovare il modo di intendere la fede. Gesù, partecipando ai gesti rituali e donando la sua parola, conduce ad una qualità più alta del rapporto con Dio, ad una più grande abbondanza di ricchezza spirituale, che è sempre oltre quella precedente. Il vangelo di Giovanni è molto attento a questa pedagogia, ripetutamente. Per esempio, andando a Gerusalemme per la festa, dirà che lo Spirito che egli darà sostituirà la necessità di andare al tempio (c.5); dopo la moltiplicazione dei pani, dirà che il dono della sua carne e del suo sangue darà la vita in modo molto più vero di quanto non aveva fatto la manna al tempo dell’Esodo (c.6); all’accensione delle luci nel cortile del tempio proclamerà di essere la luce del mondo (c.8); durante la preghiera per l’acqua, alla festa delle capanne, farà l’affermazione di essere la fonte stessa dell’acqua viva (c.7). Perciò, a Cana, raccontando la trasformazione dell’acqua delle abluzioni rituali, in vino buono da bere, segno di gioia grande, Giovanni vuol dire che Gesù ormai è l’unica via di Dio. Tutte le istituzioni precedenti, le usanze e le feste religiose perdono significato in sua presenza.
Qui sorge una domanda seria: a costituirci cristiani è la consuetudine o il nostro rapporto vitale con Dio?
Come i discepoli sono aiutati nella fede dal miracolo?
Certamente la Scrittura che già conoscevano rendeva loro familiari le immagini delle nozze e del banchetto – basta pensare ai capitoli 54 e 62 di Isaia – e quella della gioia di giorni della presenza piena di Dio annunciati dai profeti (Am. 9; Os. 14; Ger. 31). Così l’evangelista sembra indicare la strada per il cammino di crescita nella fede dei discepoli, chiamati a vedere “cose maggiori di queste” – come Gesù aveva già detto a Natanaele (Gv1,50) – attraverso la meditazione della Parola e il credere pienamente nella Persona, lasciandosi sempre condurre da Gesù, soprattutto nei momenti di difficoltà.
Qui sorge un’ulteriore domanda: siamo o no disposti ad accogliere la novità nella nostra vita? Siamo pronti al nuovo che Dio ci propone?
Maria, la “donna” a Cana.
Il racconto è costruito principalmente sulla manifestazione di Gesù, ma – come spesso accade nel Quarto Vangelo – vi sono altre sottolineature: Maria è presente come la “donna”.
Nel libro dell’Apocalisse, al capitolo 12, c’è la presenza misteriosa e simbolica di una “donna”, personaggio chiave che partorisce un figlio maschio, che è il Messia, il quale viene rapito in cielo per sottrarlo all’assalto del drago. Questo drago è identificato con il serpente del dramma della Genesi ed è descritto in agguato perenne della donna e della sua discendenza. Dalla donna dell’Apocalisse dipende la vittoria finale di Dio: verso di lei punta il livore del drago, perché, misteriosamente, in lei Dio si rivelerà più forte della potenza del Maligno. La donna della Genesi è figura dell’umanità che si allontana da Dio, quella dell’Apocalisse è figura della Chiesa e della comunità dei credenti. Ma non è solo figura collettiva.
Maria, nella sua persona e nel suo compito di madre, sta alla base del simbolismo. È partecipe e protagonista del dramma della salvezza, della storia di Dio con l’uomo. Così, all’inizio della missione di Gesù e sotto la croce (Gv.19,25-27), nel vangelo di Giovanni Maria appare come la “donna” a cui il drago fa guerra, individualmente e nella sua discendenza.
Sia a Cana, sia sotto la croce, Maria è guardata in riferimento ai discepoli di Gesù. A Cana, per la maturazione della chiamata dei discepoli, dice: “fate quello che vi dirà”. Alla croce Maria non parla, ma nel discepolo che “egli amava” le viene affidata una discendenza da proteggere.
La sua partecipazione al dramma della liberazione dal “male antico” (come recita la liturgia dell’Avvento) che insidia l’umanità di ogni tempo, riceverà un culmine di amore personale e collettivo nell’affidamento di tutti i discepoli, contro i quali Satana si opporrà fino alla fine della storia.
Per questo motivo, mentre accogliamo la rivelazione che Gesù fa di se stesso, con Lui intravediamo Maria “mirabilmente unita al mistero della redenzione” che “ora risplende sul nostro cammino, segno di consolazione e di sicura speranza”.
È come lo svelamento della possibilità di superare le rassegnazioni che tentano di paralizzare la vita e la speranza.
Ringraziamo il Signore per averci dato la sua mamma, che è anche la nostra mamma.
L’intenzione della liturgia non è di raccontare il “segno” prodigioso di Cana in Galilea, ma di invitare alla riflessione sulla presenza di Dio che si manifesta in Gesù.
È una liturgia legata all’Epifania, perciò, che propone ogni anno una pagina iniziale del quarto vangelo con il racconto di un episodio che fa da titolo ad una manifestazione di Gesù. L’autore ne racconta sette, includendoli nello spazio di una settimana, quasi a scandire il ritmo di una nuova creazione: testimonianza di Giovanni Battista (1,19-26); Giovanni Battista indica in Gesù l’Agnello di Dio (1,29-34); chiamata dei primi tre discepoli (1,35-42); incontro con Filippo e Natanaele (1,43.51); “tre giorni dopo” questi quattro, perciò il settimo, la festa nuziale come culmine (2,1-11). L’annotazione dei tre giorni ha valore teologico, perché la Chiesa dei primi tempi vi vedeva il riferimento alla resurrezione, che è la piena e gloriosa manifestazione di Gesù.
Maria è presente due volte nel quarto vangelo, con l’indicazione di “madre di Gesù”: qui e sotto la croce (19,25-27), ferma, immobile, nel dolore e nella fede. Il suo ruolo è perciò in relazione alla manifestazione piena di lui. Come donna e madre chiede a Gesù di accorgersi del disagio nella festa. Gesù risponde dicendo: “La mia ora non è forse venuta?”. Le sue parole vanno lette con l’interrogativo: è un invito ad entrare nel momento di Dio, come popolo di cui ella è membro e si fa voce. Per questo lei dice: “Fate quello che egli vi dirà”, adesso è l’ora ed tutto è possibile. È un interrogativo rivolto anche a noi, una risposta alle nostre paure e alle nostre solitudini: quando Gesù dice “l’ora è venuta”, vuole tirarci fuori da tutte le chiusure, anche quelle delle nostre preghiere. Egli è qui con noi, non siamo soli.
“Donna”: è un vocabolo che supera il rapporto familiare, senza negarlo: non solo è la “madre di Gesù”, ma la Donna-Madre, che ha il compito particolare di essere espressione della fede, nell’ascolto e nella disponibilità, e di mettere insieme, di radunare i figli per la formazione del nuovo popolo di Dio, come apparirà a Pentecoste e in tutto il tempo della Chiesa.
“Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù”.
Il prologo aveva detto che la gloria di Dio si è fatta visibile. Ora dice che sta cominciando ad accadere nella storia; è il primo atto del Verbo incarnato nel mondo, segno della trasformazione che verrà, inizio di quella maniera di essere uomini –figli, che gli orientali chiamano “divinizzazione” e che il prologo indica con l’espressione “grazia su grazia” (Gv.1,16), come una tensione che si protende nella storia tra presente e futuro, tra già e non ancora. Così i discepoli dovranno imparare a non restringere il vangelo entro gli spazi angusti delle loro piccole speranze, ma a restare aperti alle sempre nuove manifestazioni di Dio. La Chiesa, come Israele, ha una lunga storia di fedeltà, di mediocrità, di disobbedienza: deve sapere di essere sulla soglia iniziale della rivelazione di Dio in Gesù. Perciò guarda “il terzo giorno”.
La fede incondizionata della Madre di Gesù nella Parola ha dato inizio ad una serie di eventi che hanno portato alla rivelazione di Dio nella vita delle sue creature e alla possibilità per loro di conoscenza di Lui. Quello che lo Spirito le ha detto è stato fatto, è diventato vita: la gloria di Dio si è manifestata in lei che ha creduto (Lc.1,45). Significa che vi sarà una “ora”, quando questa gloria sarà piena, quando la croce donerà senso a tutto il vivere umano e porterà fecondità di fraternità e di pace. In quella che sarà l’ora della croce gloriosa, si concretizzerà anche l’ora della presenza della Madre di Gesù. Sarà l’ora di Maria che avrà donato pienamente Gesù (Gv.19,25-27).
Così Cana, con la sua festa nuziale, è come un’anticipazione, una profezia dell’ora del compimento, del tempo “più buono” che viene non all’inizio, ma alla fine, come il vino delle nozze. Cerchiamo uno spazio di interiorità per approfondire questo annuncio.
L’immagine, proposta da Isaia, di una nuzialità che trasforma l’umanità da “abbandonata” in “mia gioia”, la terra da “devastata” in “sposata”, annuncia e testimonia il rapporto sorprendentemente intimo tra Dio e l’umanità stessa, quando questa si lascia sposare dal Signore, riamandolo nell’amore crocifisso.
È questa umanità la Chiesa del Signore, il sacramento del suo amore.
Preghiamo per la popolazione di Haiti:
Non solo preghiera di suffragio, non solo per ottenere il dono della carità che va oltre le convenienze e i sacrifici, ma preghiera per essere obbedienti al comando del Creatore: “riempite la terra e soggiogatela” (Ge.1.28), perché le tante possibilità date al nostro tempo favoriscano la promozione dei diritti umani fondamentali come sono la vita e l’abitazione.
Preghiamo per la visita che oggi Benedetto XVI compie alla Sinagoga di Roma. La visita ha, per cristiani ed ebrei, profondo significato religioso. Accogliere l’altro non è diplomazia né recita, ma ha il valore sacro di legame nella diversità.
È l’incontro tra ebrei e cristiani che conoscono e condividono il detto del Talmud: “le parole che escono dal cuore entrano nel cuore”. Perciò sono parole che non si dimenticano.
Questa festa di nozze a Cana di Galilea è da sempre ricordata nella liturgia alla luce dell’Epifania, insieme alla visita dei Magi e alla luce divina nel momento del battesimo al Giordano. Tutti e tre i racconti dicono l’inizio del tempo della comunione tra Dio che si propone nel Figlio e l’umanità che lo accoglie facendosi “sposa”. Giovanni dona al banchetto di Cana questa profondità di significato. Non è soltanto la potenza trasformante della parola di Gesù che gli sta a cuore trasmettere al lettore, ma l’intenzione di farsi conoscere dai suoi, chiamati a seguirlo da poche ore, come colui in cui si può credere e di cui ci si può fidare nell’avventura di seguirlo.
Seguendolo, cominciando a camminare dietro a lui, i discepoli avranno sempre più chiara la volontà del Padre che lo ha mandato, cioè che gli uomini imparino da lui a vivere alla maniera di Dio, e nel suo essere uomo imparino che Dio si può vivere e testimoniare nel rapporto umano. Non è un caso che il Signore abbia scelto di operare il primo segno prodigioso della sua manifestazione all’umanità andando ad una festa di nozze. Partecipa, insieme ai suoi primi amici, partecipa alla festa, e così proclama, testimonia il suo atto di fede nell’amore tra uomo e donna: lui crede nell’amore, lo pensa come segno e trasparenza dell’amore divino della Trinità, testimonia questa fede con il suo primo prodigio.
Gesù domanda all’amore umano dei suoi primi seguaci di farsi messaggio, parola di Dio. Questo avevano chiesto i suoi profeti da secoli. Ora, alla festa di nozze, Maria, regina dei profeti, dice: “Qualsiasi cosa vi dirà, fatela”. Così indica che dove c’è l’amore che si dona all’altro, dove la premura per la persona viene prima della logica dei diritti, dove si è pronti a ricominciare sempre, lì c’è la sorgente della vita che torna a germogliare, al di là delle stanchezze e delle abitudini, lì l’acqua della tiepidezza si trasforma nel vino della gioia e della convivialità. E affida se stesso, il Dio eterno, alla fragilità di questo amore umano, che accetta di far proprio l’invito di Maria: “Qualsiasi cosa vi dirà, fatelo”. Gesù dice che più vangelo significa più vita e rende più trasparente e visibile l’esistenza e la presenza di Dio.
Così, all’inizio del suo ministero pubblico, Gesù a Cana è segno, sacramento di Dio, che rinnova la comunione umana, salvandola dall’individualismo e dalla possessività. Dona a quanti sono decisi a vivere l’esistenza come tessuto di rapporti forti il respiro dell’amore fedele e disinteressato che rende sempre più umano il mondo. I primi discepoli impareranno ed insegneranno che il matrimonio dei credenti in Cristo dovrà guardare in alto per comprenderne l’origine e la meta; guardare nella fede all’amore del Padre e del Figlio nella Trinità. Dovranno imparare che il rapporto marito-moglie vissuto “nel Signore” deve essere riferito al modello dell’amore di Cristo per la Chiesa, un rapporto di amore che sceglie di dirsi nella nuzialità: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef.5,25). Dovranno essere certi che Cristo entra nell’amore umano dei battezzati, lo fermenta dal di dentro, lo purifica dalle scorie inevitabili che ciascuno porta in sé, per farne il riflesso del suo modo di amare la Chiesa. Come se dicesse: se volete vedere e capire chi è Dio e come è il suo amore, guardate quei due, a come si amano.
Perciò Gesù va alla festa di nozze, perciò quello di Cana è il primo prodigio, non solo in senso cronologico. Così introduce il matrimonio nel mistero stesso di Dio che ha il suo culmine nelle nozze dell’incarnazione. Questo mistero eterno si comunica nella poesia del fidanzamento, nella dolcezza e nella forza dell’amore coniugale. Gesù è presente a Cana perché gli sta a cuore la festa eterna di Dio con gli uomini, in cui lui stesso è lo Sposo. È presente e dona al matrimonio un valore più grande. È una buona notizia da dare agli sposi che forse non diamo bene a motivo dei tanti condizionamenti che accompagnano pesantemente la certezza e l’esistenza stessa del matrimonio. Gesù dice che è cominciato il tempo nuovo e per i credenti diventa possibile attuare il sogno del Creatore sulla coppia umana, in tutta la bellezza della comunione piena, quando “passeggiava nel giardino alla brezza del giorno” (Gen.3,8). La famiglia, per i discepoli di Gesù, diventa “immagine ridente e dolce della Chiesa”, esperienza della vocazione ad essere “Chiesa domestica” (San Giovanni Crisostomo, omelia su Ef.5,6).
Ringraziamo il Signore perché:
“Nell’alleanza fra l’uomo e la donna
ci hai dato l’immagine viva dell’amore di Cristo per la sua Chiesa,
e nel sacramento nuziale
riveli il mistero ineffabile del tuo amore”
(prefazio della messa per gli sposi)