IV DOMENICA T.O.- Anno C
(Ger 1,4-5.17-19; Sal. 70; 1Cor 12,31-13,13; Lc 4,21-30)
In questa domenica continuiamo la lettura del capitolo 4 del Vangelo di Luca, in cui Gesù, nella sinagoga di Nazaret, annuncia la sua realtà di Messia e ci viene presentata la reazione degli ascoltatori alle sue parole.
Il testo ci dà un insegnamento forte, nella drammaticità della contrapposizione fra accoglienza e rifiuto. Sembra che Gesù si chiuda di fronte alla pretesa di potenza della sua comunità di origine e contesti la sete di gesti prodigiosi che diano forza al messaggio, di quanti non accettano l’invito a considerare la fede come accoglienza della Parola, ascoltata e fatta propria nell’intimità del cuore, perché modifichi tutta la vita, così come è stato per Maria. Egli rifiuta la proposta dei Nazaretani di voler possedere per sé, come un bene campanilistico, l’attività a favore dei malati e sofferenti.
Forse Luca ha posto questo insegnamento all’inizio della vita pubblica di Gesù, come fosse stato detto prima che accadessero gli avvenimenti che invece lo hanno preceduto: l’insegnamento infatti dà senso a quello che sarà raccontato, è una chiave per leggere e capire il Vangelo. Non si assimila il Vangelo se non si assume l’atteggiamento dell’universalità. Grazie al rifiuto della sinagoga di Nazaret, il lettore comprenderà perché Gesù sarà sempre in cammino, sulla strada, verso altrove; potrà capire meglio che cosa significa concretamente “annunciare la buona novella ai poveri”. Il continuo camminare, il viaggio nella sua continuità non è frutto del caso o di una necessità esteriore, ma la realizzazione di una vocazione assunta dal primo momento, come abbiamo contemplato nella scena del battesimo al Giordano: Gesù è il Figlio prediletto, bene prezioso del Padre, che lo dona a tutti.
“Gesù andava”. Lo stesso uso del tempo imperfetto delinea la caratteristica portante che unifica ed orienta tutta l’opera di Gesù nel terzo Vangelo. È importante coglierla come qualificante la vita del Maestro e quella dei discepoli, individualmente e coma comunità. Gesù “deve” andare “fuori” della patria: da Nazaret dove era cresciuto, a Cafarnao – come dice il Vangelo di Luca nel versetto immediatamente successivo a quelli che abbiamo ascoltato oggi (Lc.4,31) – “anche alle altre città” (Lc.4,43), in tutta la Giudea, fino a Gerusalemme (Lc.9,5), il centro di Israele. Questa caratteristica corrisponde a quella che seguirà la vocazione della Chiesa, e Luca descrive negli Atti degli Apostoli: sempre in viaggio, da Gerusalemme dove nasce, alla Samaria, ad Antiochia, al Mediterraneo, “fino agli estremi confini della terra”, come il Risorto aveva domandato (Atti 1,8), fino a Roma, che appariva il centro della terra (Atti, 25). A confermare questa vocazione universale della Chiesa, abbiamo ricevuto in questi giorni un testo bello di don Sandro da Safà, dove da poco è arrivato don Mauro, accompagnato da don Giuseppe. Ci descrive la gioia della gente per la loro venuta, dice che “li mangiavano con gli occhi” mentre celebravano insieme l’Eucarestia. È la felicità che accompagna gli interventi del Signore nelle nostre vite.
A Nazaret c’è un’accoglienza iniziale e un rifiuto sostanziale. Proprio da questa constatazione nasce un interrogativo di grande attualità. Come può accadere che una persona, in un primo tempo affascinata dalla fede, si trovi poi ad abbandonarla; che una comunità, che abbia accolto il Vangelo nelle sue tradizioni e nella sua struttura sociale, lo rifiuti poi con astio o con indifferenza; come può accadere all’Europa, che nel Medioevo si identificava con la cristianità, di dissociarsi oggi palesemente dal cristianesimo? Sono interrogativi drammatici e urgenti per la comunità cristiana, se vogliamo andare per il mondo a portare il Vangelo.
Forse si può fare un’analogia, un breve accenno, perché occorrerebbe molto tempo per approfondire. A Nazaret le persone, ben disposte all’inizio, si trovavano soggiogate dalla contrapposizione tra il localismo della piccola comunità e l’universalismo proposto da Gesù Cristo. In Europa, nel lento progredire di un pensiero non credente, dal Rinascimento all’Illuminismo, si è tolta alla ragione la luce della rivelazione e alla fede la sua ragionevolezza. Così la ragione si è organizzata entro limiti definiti da se stessa, con leggi che essa stessa si è data, lasciando fuori quello che non rientra in essi, compreso il Dio della rivelazione. E la fede si riduce ad un qualcosa di inutile ed insignificante, che riguarda solo la privatezza, la volontà e il sentimento dell’uomo. È contemporaneamente un impoverimento della fede e della ragione, che spiega il tentativo di proporre il ritorno ad un Sacro che non ha nulla del Dio di Gesù.
Alla fine dell’ ‘800, Nietzsche, nella “Gaia scienza”, diceva: “È sempre più notte”, alla fine del ‘900 Giovanni Paolo II : “La notte oscura, la prova che fa toccare il mistero del male ed esige l’apertura della fede, acquista a volte la dimensione di epoca e proporzioni di collettività”. Il mistero della Chiesa di ogni tempo appartiene al mistero di Gesù accolto e rifiutato.
Oggi sono qui con noi sedici coppie che riceveranno il Matrimonio nell’anno: vogliamo accompagnarli con l’affetto e con la preghiera, dicendo loro di non avere paura a guardare in alto. La ragione da sola muore, la rivelazione permette alla ragione di vivere. Abbiamo ascoltato le parole di Paolo: l’amore è più forte di ogni difficoltà. Non bisogna guardare le impossibilità, ma le tante possibilità di superare le difficoltà, che ci indica il Vangelo.
In questi giorni, a 94 anni, è morto l’Abbé Pierre. Con la sua vita, donata a tutti, a cominciare dai più piccoli, ci ha insegnato ad uscire dalla difficoltà di una ragione lasciata sola. Ascoltiamo le sue parole:
“Il problema per voi non sta tanto nell’avere di che vivere, ma nel sapere per cosa vivere”
Forse, alla luce della sua testimonianza, dobbiamo ripensare la nostra pretesa di giudicare il Vangelo a seconda della sua consonanza con quanto appare più corrispondente al nostro essere cittadini del benessere. Non cediamo di fronte ala potenza della negatività. Il Vangelo sembra dirci parole dure: dare la vita per l’altro è duro, ma darla per chi amiamo è avere vita per sempre.
E custodiamo quanto ancora l’Abbé Pierre ci dice come testamento:
“Globalmente sono certo di non essermi ingannato.
Quando si tende la mano alla miseria, è impossibile ingannarsi!”
Che il Signore ci faccia capire sempre meglio il suo messaggio.
Quello di questa domenica è la continuazione del brano letto e meditato domenica scorsa, come si può facilmente capire dal v. 21 che lega le due pagine di Luca.
“Cominciò a dire”. A dire di sé, a spiegare con i gesti e con le parole la propria identità, suscitando stupore per la grandezza di Dio in un giovane uomo che la gente di Nazaret conosceva da bambino e riteneva “figlio di Giuseppe”. Uno stupore positivo, di lode e di riconoscenza, per le “parole di grazia che uscivano dalla sua bocca”. Gesù non dice direttamente di essere il profeta di cui parla Isaia, ma suggerisce elementi certi per la comprensione e suscita sentimenti di adesione che perciò non sono imposti ma proposti alla libertà umana.
Luca vuole inserire nelle parole di Gesù che comincia a farsi conoscere quanto i nazaretani già avevano sentito di lui, le parole di grazia donate alla gente mentre tornava in Galilea e i gesti di amore compassionevole fino al prodigio delle guarigioni istantanee dei malati che gli portavano perché li toccasse. Sapeva quanto questo insegnamento e questi contatti con la miseria umana avrebbero creato aspettative e per questo introduce l’argomento prevenendo la domanda: “Fallo anche qui nella tua patria”. Comincia a far capire che per lui non esiste una patria particolare, che la sua gente è tutto il popolo di Dio, tutta l’umanità. Non è chiamato a limitare la propria azione alla sua casa, a Nazaret, ma è inviato a Cafarnao, nella Galilea, a Gerusalemme e al mondo.
Comincia a domandare a quanti lo ammirano e lodano di allargare il cuore, di uscire dalla mentalità del privilegio nell’essere concittadini di un profeta per ricevere benefici, devoti a un Dio procacciatore di favori per i credenti. Sarebbe una pretesa, e Gesù rifiuta nettamente di diventare monopolio di chi vorrebbe renderlo di parte: “ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”, dice Luca. Questa nettezza del proprio modo di pensarsi è come una chiave di lettura del vangelo intero. A partire da Nazaret, il lettore comprende perché il Gesù di Luca è sempre in cammino verso un altrove, verso i poveri che mancano ancora della parola che egli ha in sé ed è mandato a donare a tutti. Il lettore docile sentirà, compiendo il cammino di fede, di dover lavorare nel proprio intimo per imparare dallo Spirito a guardare l’umanità con l’occhio di Dio, a pensare con il suo pensiero caldo di amore paterno che non raggiunge alcuni si ed altri no, ad amare con il suo cuore che non tollera confini ed esclusioni. Luca invita i credenti a riflettere, guardando Gesù, che non è volontà di Dio che il profeta limiti la propria missione alla patria e all’ambiente più prossimo, ma è chiamato a non restare a casa propria. La parola chiara di Gesù sul rifiuto dei concittadini non indicano un insuccesso del vangelo, ma la necessità di dare il vangelo al mondo. Così egli è in continuità con il profeta Elia nel donare la fiducia in Dio provvidenza alla vedova di Sarepta, e con Eliseo nella guarigione di Naaman il Siro.
Questa fedeltà al volere e allo stile di Dio che si compiono nella fedeltà all’uomo, mette in luce il peccato di tradimento dei credenti nel privatizzare l’insegnamento del Signore, il peccato della Chiesa quando le accade di pensarsi come un particolare elitario e privilegiato dell’umanità. Gesù ci chiede di riflettere su quanto domanda ai suoi concittadini, su quale Dio stiamo seguendo, il Dio libero che ha in cuore “che tutti siano una cosa sola” oppure l’idolo potente, manipolabile a seconda delle nostre necessità sotto cui si nasconde la tossina dell’individualismo.
Oggi, “giornata per la vita”, invitiamo quanti vivono il matrimonio a rinnovare le loro promesse.
Sarebbe bello che lo facessero ricordando che la sacra Scrittura è ricchissima di immagini dell’amore dell’uomo e della donna, quasi che lo Spirito non abbia trovato altro modo per rivelare l’ardore, la fedeltà, la gratuità, l’universalità dell’amore di Dio. È la rivelazione che l’uomo è chiamato ad esistere nel rapporto, come scriveva Emmanuel Mounier nel secolo scorso: “Amo, ergo sum”, “amo, dunque sono” (“Il personalismo” 1951). Una relazione che abbraccia tutto il mondo dell’uomo, la famiglia, la pace, l’ambiente, la storia …
Sarebbe bello che il rinnovo delle promesse andasse oltre il sentimento e che assumesse il significato profondo di un sì al Signore Gesù che oggi “ha cominciato a dirci” di avere in cuore il vangelo della vita per tutti gli uomini, di ogni tempo, perciò anche del nostro così ferito nell’amore malato. Rinnovare non può essere confuso con il ripiegarsi nell’abitudine e neppure rassegnarsi al generoso sacrificio di sé, ma aderire con la propria esistenza, anche e particolarmente quando è provata, alla vocazione universale all’unità. È il contributo al cammino dell’umanità verso il Dio-famiglia trinitaria, ritmo di unità e distinzione, che è alla radice di ogni relazione.