VII DOMENICA T.O.- Anno C
(1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23; Sal. 102; 1Cor 15,45-49; Lc 6,27-38)
La liturgia di oggi si apre con la lettura tratta dal capitolo 26 del primo libro di Samuele. Essa dà solo i momenti salienti di un episodio più lungo, incollandoli tra loro, ma vi consiglio di leggere tutto il passo. Il suo valore va oltre i fatti narrati, in quanto non vuole solo mostrare la grandezza del personaggio umano, Davide, ma un aspetto saliente del cuore di Dio. L’azione, infatti, si svolge nell’accampamento dove tutti sono immersi in un sonno profondo: si tratta di quel torpore che nella Bibbia accompagna l’azione, il rivelarsi di Dio. Nel libro della Genesi, al capitolo 2, quando Dio crea Eva Adamo è immerso nel torpore, come Abramo, al capitolo 15, nel momento centrale dello stipularsi dell’Alleanza. Adesso, di sua iniziativa, gratuitamente, Dio sta rivelando che egli è Padre nel perdono. Nel Salmo 102, di cui abbiamo letto una parte, Davide mostrerà di aver compreso il valore di questa rivelazione: “Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono”.
Con questo episodio la liturgia ci prepara all’insegnamento del Vangelo di Luca: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro”. Luca sa che ciascuno di noi può realizzarsi ad immagine di Dio nel perdono, facendo nostro il suo cuore misericordioso di Padre. Bisogna essere decisi nella scelta di Dio, non annacquare l’invito di Gesù, che si rivolge a tutti dicendo: “A voi che ascoltate, io dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano …”. Nell’ascolto siamo ricreati, accogliamo nel nostro cuore lo Spirito Santo, poniamo al centro dell’esistenza non il nostro io, ma Dio. Questo significa avere fede. Prima di riferirci ai comportamenti concreti che ci attendono, familiari, personali, politici – oggi siamo sconcertati dalla politica – sociali – pensiamo al ragazzo ucciso da un suo coetaneo, proprio qui, a Mergellina – prendiamo coscienza del fatto che le parole di Gesù ci chiedono innanzi tutto di fare della nostra vita un dono. Chi decide seriamente di essere cristiano sa che deve essere a disposizione del fratello, dargli la propria tunica anche se ci ha tolto il mantello, lasciare che tutti i poveri entrino dalla porta spalancata del suo cuore. Chi ascolta queste parole fa l’esperienza di non appartenersi più, di essere divorato dall’altro, perché l’esigenza di Gesù è quella di un amore che si avvicini al suo, un amore totale e senza limiti. Non è una richiesta di generosità individuale, fondata sull’intransigenza morale, non è una legge che limita la nostra libertà personale, ma è la chiamata ad aprire il nostro cuore, tutta la nostra esistenza, all’onda di amore che ci viene da Dio. Egli ci invita a fare come lui, che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, ad avere una reazione positiva verso chi si comporta ingiustamente, a sostituire il disegno della fraternità universale al rigore della giustizia puramente umana. Dio, rivelandoci il suo disegno di amore infinito, dando suo Figlio per i giusti e per gli ingiusti, rende possibile ciò che ci appare impossibile.
Nicola Berdjaev, il filosofo russo convertitosi al cristianesimo e perciò espulso dal regime sovietico, scriveva: Dio disse a Caino: “Dov’è Abele tuo fratello?”. Ma l’ultimo giorno dirà ad Abele: “Che hai fatto di tuo fratello Caino?”. Con Gesù la giustizia non è più una misura sufficiente. Il Vangelo ci chiede di essere membri di una società alternativa nei confronti dei rapporti abituali nel mondo, una società dove la fraternità è possibile. Questo deve essere il compito profetico della comunità cristiana nel mondo.
Luca conclude il discorso di Gesù con la regola d’oro: “Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”. È una massima che, nella sua formulazione al negativo, era conosciuta nell’antichità: la troviamo in Erodoto, in Seneca, negli stoici ed anche in Confucio. Nella Rivoluzione francese fra i doveri dell’uomo e del cittadino, come regola tratta dalla natura, troviamo il fare agli altri il bene che vorremmo ricevere. Oggi, nella società multiculturale in cui siamo chiamati a vivere la regola d’oro ci invita tutti all’attenzione reciproca, alla reciproca accoglienza del diverso. Accoglierlo come noi vorremmo essere accolti.
Ancora una volta siamo aiutati nella nostra riflessione dalle parole di Dietrich Bonhoeffer, il pastore tedesco, ucciso in campo di concentramento dai nazisti: riconosciamo la croce di Cristo come segno dell’invincibile amore di Dio, della sua grande sapienza. Dio ama i nemici, questo ci dice dalla croce. Per loro egli conosce croce e dolore, per loro ha dato suo Figlio. Davanti ad ogni nemico pensare che Dio lo ama e dargli pane, acqua, misericordia, amore. Non domandiamoci se lo merita: chi è più povero di chi odia, chi più bisognoso di amore del tuo nemico?
“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”
L’episodio di David e Saul – antichi re di Israele – è tratto da un libro storico, il primo libro di Samuele, che racconta eventi di circa mille anni prima di Cristo. È un episodio da leggere e meditare per intero, con calma. Il suo valore è nella rivelazione che Dio fa di sé e va molto oltre il racconto del fatto storico, la generosità di David, perseguitato dalla gelosia feroce di Saul. È un testo di rivelazione: il “torpore mandato dal Signore” indica l’azione di Dio, come nel libro della Genesi accadde ad Adamo, nel momento in cui Dio gli fece il dono della prima donna (Gen.2,21) e ad Abramo quando Dio stipulò con lui l’Alleanza (Gen.15,12). Anche quando Gesù si rivela come Amore sofferente, sul Tabor e nell’orto degli Ulivi, gli Apostoli cadono nel torpore.
Qui è Dio che si rivela Padre nel perdono.
La liturgia ci propone questo episodio per aprirci all’insegnamento di Gesù, che ha il suo culmine nel versetto 36:
“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”
Luca vede nella misericordia vissuta la più alta imitazione di Dio nell’uomo, la possibilità di realizzare la vocazione ad essere di Lui “immagine e somiglianza”, e questo concretamente, nell’essere benevoli e disponibili con tutti (vv.37-38), fino all’amore per i nemici (vv.27. 35). Ci dice che le parole di Gesù sono rivolte a chi intende seguirlo:
“A voi che ascoltate, io dico”
I discepoli, impegnati nella comprensione, nella docilità verso la Parola, sono persone che non si pongono più al centro, ma si decidono per l’andare dietro a Gesù, prima di riferirsi ai comportamenti concreti e di lasciarsi coinvolgere dalla dialettica degli avvenimenti, delle valutazioni di ragioni e di torti. Capiscono che il perdono non è subordinato ai meriti, ma è la conseguenza dell’essere figli di Dio in Gesù: davanti agli occhi del Padre l’uomo è più importante dei suoi comportamenti positivi o negativi. È il “sì” alla chiamata che apre la personalità più profonda all’esigenza di fedeltà al Signore, al punto di non poter più vivere un comportamento diverso da quello che Lui domanda; una chiamata che si esprime nella libertà di donare il tempo, due ore invece di una, il vestito, oltre che il mantello, la guancia… fino a togliere ogni distanza tra il nostro essere e l’obbedienza alla Parola. I discepoli non propongono teorie su Dio Amore, ma hanno nel Maestro un modello: Gesù nella sua passione ha vissuto questi atteggiamenti in modo radicale, ha dato il vestito, la guancia, la vita…
Perciò non bisogna arsi catturare dalla dialettica che rischia di ridurre la fede ad ideologia. L’insegnamento del Vangelo non è una morale impositiva, fatta di prescrizioni a cui attenersi ad ogni costo o da esigere dagli altri. Non si tratta neppure di obbedienza generosa ed eroica al comandamento dell’amore. Non è una questione di bravura o di merito: il cristianesimo non si impone, ma si propone attraverso Gesù, nella concretezza del vivere, nell’amore a Dio ed ai fratelli. Sulla croce Gesù stesso si fa maestro di perdono, domandandolo al Padre. Chiede perciò di guardare a Lui, per cui “nulla è impossibile”, Lui può rendere il discepolo capace di un comportamento umanamente impossibile: solo Dio è l’autore di un perdono vero.
Parlando in questo modo ai discepoli, Luca fa intendere che la vocazione a vivere il Vangelo è proporre nel tempo una società alternativa a quella delle regole della mondanità, come uno spazio in cui si vive “diversamente”, si lavora per costruire rapporti diversi da quelli usuali nel mondo, rapporti in cui riconciliazione e fraternità sono pazientemente portate avanti e rese visibili. È il compito profetico, di segno, del popolo di Dio. Nel libro degli Atti egli ne mostrerà la realizzazione storica, concreta.
Qui possiamo ricordare il forte insegnamento di Benedetto XVI nella lettera enciclica “Dio è amore”, che compie il confronto tra i due principi dell’amore, eros e agape. Eros finalizza il lavoro al profitto, ricerca il prestigio, il potere, mentre agape si manifesta nella gratuità, e i credenti sono invitati a percorrerla.
“Anche se l’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente – fascinazione per la grande promessa di felicità – nell’avvicinarsi poi all’altro si porrà sempre meno la domanda su di sé, cercherà sempre più la felicità dell’altro, si preoccuperà sempre più di lui, si donerà e desidererà ‘esserci per’ l’altro” (n.9).
Guardando il Cristo che segue, il discepolo imparerà sempre più “quel volgersi di Dio contro se stesso per rialzare l’uomo e salvarlo” (n.12). Da lì nasce la reciprocità che fa sì che l’amore sia anche riamato, che sia agape, amare ed essere amati, donare e ricevere.
Dal campo di concentramento in cui era stato rinchiuso dal potere nazista, Dietrich Bonhoeffer scriveva:
“Per questo è di capitale importanza che dinnanzi ad ogni nemico che incontriamo, subito pensiamo: Dio lo ama, per lui Dio ha dato tutto. Anche tu, ora, dagli ciò che hai: pane, se ha fame; acqua, se ha sete; aiuto, se è debole; benedizione, misericordia, amore. Ma lo merita? Si. Chi infatti merita di essere amato, chi è bisognoso del nostro amore più di colui che odia? Chi è più povero di lui?” (da: Memoria e fedeltà)