XII DOMENICA T.O.- Anno C
(Zc 12,10-11;13,1; Sal. 62; Gal 3,26-29; Lc 9,18-24)
Oggi inizia il tempo liturgico “Per annum”, termine che viene tradotto in maniera non felice con “ordinario”. È il tempo feriale, non scandito da festività importanti e ci accompagnerà fino all’autunno inoltrato, quando, all’inizio di dicembre comincerà l’Avvento. La lettura continua del Vangelo di Luca scandirà questo tempo e ci renderà possibile seguire la strada di Gesù. Da oggi, con il capitolo 9, inizia il suo cammino verso Gerusalemme. È una decisione forte, è l’inizio del percorso che lo porterà alla conclusione drammatica e gloriosa della sua vita. Ora che incominciano le vacanze ci sarà possibile meditare meglio sull’annuncio che il Vangelo ci fa: avremo più tempo per meditare su quanto abbiamo ascoltato la domenica, magari portando con noi a casa il foglietto con le letture.
Oggi Luca ci mostra come Gesù vuole condividere con i discepoli il senso di questo suo andare verso la passione e la morte, spingendoli a maturare la loro fede, passando dalla superficialità di un’opinione, di un sentito dire, alla convinzione profonda che li spingerà a seguirlo lungo la sua strada. È la strada annunciata dai profeti, da tutta la Scrittura. Gesù inizia domandando loro: “Chi sono io secondo la gente?”. Si tratta di opinioni, le più varie. Ma Gesù vuole condurre i discepoli a qualcosa di più preciso. Luca ci dice che l’intensità di questo suo comunicarsi ai discepoli avviene in un clima di preghiera. Gesù prega il Padre ed invita i discepoli ad entrare nella sua preghiera, a parteciparvi. Luca ci mostra sempre Gesù che prega, in particolare nei momenti delle decisioni importanti. Ci dice così che per comprendere Gesù è necessario ritirarci con lui in un “luogo appartato”, contemplarlo nel suo rapporto con il Padre. Capiamo così sempre meglio che la preghiera rivolta al Padre non è rito, non è disciplina, non è adempimento di un dovere, ma è conseguenza dell’essere stesso di Gesù, che ha l’esigenza di porsi in un rapporto di intimità filiale col Padre suo. Luca ci insegna, così, che per comprendere e seguire realmente Gesù, i discepoli devono uscire dalla opinione superficiale della “gente” nei suoi confronti, e cercare anche loro, in disparte, un rapporto di intimità col Padre. È un consiglio rivolto anche a noi. Cerchiamo un angolo di silenzio, lontano dal chiasso della strada ed ascoltiamo la sua voce che ci interpella: “Tu”, proprio tu, non gli altri, “tu, chi dici che io sia?”.
La risposta che gli dà Pietro non è ancora matura. Egli risponde correttamente: “Tu sei il Cristo di Dio”, il Messia tanto atteso, ma non ne coglie il senso profondo, perché non è entrato nella profondità del rapporto di Gesù con il Padre. Gesù lo chiarisce a lui, a noi, soggiungendo: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno”. Il verbo “deve” non ci spaventi! Non indica che Dio è giustizia implacabile, che chiede soddisfazione, che impone un’espiazione per le nostre colpe, condannando il Figlio ad una morte atroce. L’annunzio del Vangelo e tutt’altro. Esso ci rivela l’amore sconfinato del Padre che dona il Figlio all’umanità. Quello stesso amore si concretizza nel dono di sé che ci fa il Figlio, andando verso Gerusalemme, consegnandosi nelle mani di quanti rifiuteranno il suo messaggio di amore e lo condanneranno a morte.
Ma in quella morte volontariamente accettata dal Figlio è la salvezza per tutti. Quella morte è la testimonianza unica dell’amore di Dio, l’amore senza riserve, che non oppone violenza a violenza, ma risponde con il dono di tutta la vita. Perciò leggiamo oggi le parole del profeta Zaccaria: “Guarderanno a colui che hanno trafitto”. Solo in lui l’umanità è redenta. Non c’è fede vera, non c’è libertà vera dai nostri egoismi e dai nostri condizionamenti se non contempliamo il Crocefisso. Gesù è totalmente libero da ogni condizionamento e perciò ha la libertà di donarsi per noi, di prendere e portare su di sé tutte le nostre colpe, per salvarci. Anche a noi domanda di liberarci da ogni condizionamento per divenire liberi di sperimentare la via di Dio, la via del dono di sé. Non si tratta di abdicare a noi stessi, alla nostra personalità. Aprirsi all’amore del Padre è l’atteggiamento di fondo di chi sa di aver ricevuto da lui la vita, e quindi di non esserne padrone, e la mette nelle mani di chi ce la ha data.
La via del Calvario è divina. Essa ci permette di entrare nelle situazioni più assurde, perché esse testimoniano la vicinanza di Gesù. Edith Stein era una giovane tedesca, ebrea, discepola del filosofo Husserl. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, un suo collega morì al fronte. Husserl le chiese di annunciarlo lei alla moglie. Edith accettò l’incarico con gran timore, ma la forza d’animo, la fede profonda con cui quella giovane donna accolse la terribile notizia fu per lei una rivelazione improvvisa, un colpo di fulmine. Come dice nel suo diario quello fu il suo primo incontro con il mistero della Croce e da allora incominciò ad intravedere la realtà della Chiesa, nata dal dolore del Redentore e dalla sua vittoria sulla morte. Poco dopo si farà battezzare, entrerà nell’ordine delle Carmelitane con il nome di Teresa della croce. Con questo nome fu uccisa ad Auschwitz ed è oggi santa della Chiesa cattolica.
Accogliere il mistero della croce non richiede una santità al di fuori della nostra portata. Ieri hanno celebrato qui il loro matrimonio due ragazzi appartenenti a “Fede e Luce”, un gruppo che si occupa dei portatori di handicap. Alla Messa ve ne erano tanti. Hanno tutti partecipato, portando le offerte all’altare, con le loro carrozzelle, appoggiandosi l’uno all’altro. Li abbiamo guardati con stupore e riconoscenza. Erano un popolo di vita, di gioia, non di dolore, il popolo di chi ha guardato “Colui che hanno trafitto”. Hanno saputo accogliere la vittoria della vita, donataci per amore. Questo ci insegna la moltitudine afflitta del nostro tempo. Come aveva predetto il profeta Isaia, Gesù è venuto “per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi …”.
Ai discepoli che cominciavano a riconoscerlo come Salvatore, Gesù disse di non parlare. Per annunziarlo non servono le parole, ma la testimonianza della vita. Rispondiamo così alla domanda che oggi ci rivolge: “Tu chi dici che io sia?”.
Chi è Gesù? Che cosa significa credere in Lui in modo da poter camminare “dietro di Lui” con sincera determinazione? Egli steso lo domanda, con grande attenzione pedagogica, partendo dall’opinione che la gente si andava facendo su di Lui, ma con l’intenzione di rafforzare la fede di quanti aveva scelto perché lo seguissero con radicalità. “Le folle chi dicono che io sia?”, chiede e poi, dopo aver ascoltato le voci riportate dai Dodici e subito accantonate come non rilevanti, con l’autorevolezza del Maestro e la luce sul volto di chi vede le proprie cose davanti a Dio, si rivolge direttamente a loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Voi, i miei Dodici scelti (Lc. 6.12-16), mia famiglia e miei parenti (Lc.8,19-21), voi che dovete restare vicini anche nella mia sofferenza (Lc. 22).
Luca racconta lo svelamento dell’identità di Gesù con la professione di fede espressa da Pietro e fa capire al lettore che non basta l’idea, la convinzione personale, pur derivata dalla conoscenza delle promesse bibliche e della tradizione, ma che occorre il dono dello Spirito in cui Dio stesso parla e presenta Gesù non solo come il Messia atteso, ma come il “Figlio mio”, e lo fa in questo stesso capitolo 9 con l’episodio della trasfigurazione “circa otto giorni dopo” (Lc.9,38). Le parole di Pietro vengono perciò completate dall’intervento di Dio stesso. Per questo compimento vengono superate le attese di alcuni dei profeti redivivi e viene accolta la novità di Dio in Gesù. D’ora in poi la professione di fede di Pietro: “Tu sei il Cristo di Dio” è la fede dei Dodici e della Chiesa, appartiene al cuore della fede cristiana, radicata nelle Scritture e illuminata dal Padre. L’espressione “Cristo di Dio” significa che l’uomo Cristo Gesù è legato a Do da un’intima relazione filiale e per questo è il Salvatore di quanti lo seguono.
Lo si può comprendere sempre meglio nel silenzio della ricerca personale. Il silenzio potrà diventare parola, come Gesù stesso domanda ai Dodici, solo quando la crocifissione e la resurrezione avranno reso chiaro che l’unico messianismo che salva l’umanità è quello che nasce nel cuore di Dio, nel dono di Gesù. Così silenzio e preghiera si coniugano in una tensione che accompagna la vita e le da senso: “Insegnami a cercarti e mostrati a me che ti cerco. Io non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se tu non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti, che ti desideri cercandoti, che ti trovi amandoti e che ti ami trovandoti” (Anselmo di Aosta, Proslogion,1,1).
Nel nostro tempo di turbamento e di ricerca, ci invita a riflettere.
Luca ci sta dicendo con insistenza che la possibilità di incontrare Gesù e di riconoscerlo come “il dono” di Dio all’uomo non dipende da enunciazioni astratte, sia pure corrette. Se diciamo con san Giovanni che “abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha in noi” (1Gv. 4,16), questo significa che la certezza di fede poggia sull’esperienza dell’incontro. Gli si può credere perché lo si è conosciuto. Un incontro non ideale e perfezionistico, ma nella sua incarnazione, nella sua umanità concreta, nei suoi discepoli che ne danno testimonianza significativa nell’averlo seguito. Per questo sono sempre attuali persone come Francesco di Assisi o Teresa di Calcutta, don Pino Puglisi o la mamma che perde la propria vita per non interrompere quella del bambino che porta in seno, Martin Luther King o chiunque, affamato di giustizia, si spende per i diritti umani.
La fede non è un istinto primario, un’emozione improvvisa, ma la risposta ad una attrazione che avvolge, abbraccia tutto l’essere personale nel pensarsi e voler essere un unico dono di amore fatto da Dio in ciascuno.
Questo è l’affidamento che Gesù fa ai suoi della propria identità: “E a tutti diceva: Se qualcuno venire dietro a me, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”. A chi lo incontrava, Gesù non consegnava mai una verità astratta, ma comunicava se stesso nell’ascolto. Nella condivisione, nella tenerezza e fiducia. Era il volto dell’amore che “Dio ha in noi”.
Credere perciò è per il cristiano un impegno concreto di conformazione, è sforzo di viverla non da soli, ma nella relazione fraterna che permette di entrare nella identità del Signore attraverso la reciprocità dell’amore assunta come regola e stile di vita. L’unità nella e della Chiesa non è un collante disciplinare o uno schema organizzativo, ma è l’essenza stessa della comunità perché l’uomo di ogni tempo possa intravedere la presenza, l’umanità divinizzata, la santità del Signore nel singolo e nella comunità.
Emmanuel Mounier, pensatore del personalismo cristiano, diceva: “Essere testimone significa farsi mistero, vivere in modo tale che la propria vita sia inspiegabile senza Dio”. Fare dono della propria presenza ed essere presente all’altro.
È la sfida per i cristiani di oggi. Mostrare Gesù vivo e trasferito in se stessi e tra di essi perché provochi l’incontro e l’esperienza di Lui nelle donne e negli uomini del nostro tempo.