XIX DOMENICA T.O.- Anno C
(Sap 18,6-9; Sal. 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48)
Il capitolo dodicesimo del Vangelo di Luca è lungo e denso, è un insieme di insegnamenti di Gesù, che l’Evangelista ha raccolto ed unificato. Leggendoli – ed io vi invito ancora una volta a riprendere le letture domenicali durante la settimana, per approfondirle meglio – siamo aiutati a confermare la nostra certezza nell’aiuto costante di Dio nella nostra vita: lui che ha cura degli uccelli del cielo e dei gigli del campo, non può dimenticarci.
Il primo punto della meditazione è oggi proprio questo: che significa per noi avere la certezza dell’amore di Dio? Domenica scorsa la liturgia, leggendo la prima parte di questo dodicesimo capitolo del Vangelo di Luca, ci ha ammonito a non riporre la nostra fiducia in altre certezze precarie, a cominciare da quelle finanziarie. Ma altrettanto precarie sono le certezze relative alla salute, quelle psicologiche, che si rivolgono alla tutela della nostra personalità, quelle culturali, che ci fanno chiudere sulle nostre acquisizioni morali, quelle organizzative, che ci fanno cercare sempre la “parte giusta”, in cui trovare riparo. Si tratta di un ammonimento, risponde Gesù a Pietro che lo interrogava, valido anche per chi ha delle responsabilità. Tutte le certezze sono effimere e precarie, unica certezza è l’amore di Dio. Lì è il nostro tesoro. Non a caso Luca inserisce fra il passo letto domenica scorsa, che sottolineava la vanità delle ricchezze (Lc.12,13-21), e il passo di oggi, l’invito pressante rivolto ai discepoli di non darsi pensiero per quello che mangeranno o di come si vestiranno: “Quanto più degli uccelli voi valete!… Se dunque Dio veste così l’erba del campo.. quanto più voi, gente di poca fede! Il Padre vostro sa di che cosa avete bisogno…”. Gesù ci invita all’esperienza della libertà interiore, che ciascuno di noi può sperimentare così come – ci ricorda la prima lettura – Mosè visse l’esperienza della liberazione dalla schiavitù in Egitto. Riflettiamo su quali sono le nostre schiavitù oggi e come il Signore ci dona libertà nei loro confronti. Gesù ce lo assicura: Dio ha il potere di liberarci dalle preoccupazioni per avere la libertà dei figli suoi. “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. Queste parole non ci trasmettono solo una fiducia di incoraggiamento e rassicurazione, ma ci svelano l’amore forte di Dio, la sua tenerezza nei nostri confronti. Non solo Dio non disprezza la nostra piccolezza, ma ci viene vicino, ci vezzeggia, chiamandoci “piccolo gregge”. Dio riempie di sé la nostra piccolezza, perciò non dobbiamo vergognarcene. Essa non è un impedimento per Dio!
Il primo punto che le letture di oggi hanno proposto alla nostra meditazione è, quindi, la certezza dell’amore di Dio. Il secondo è l’invito rivolto a noi di fare spazio a questo amore, cui non dobbiamo anteporre nulla, nella prontezza ad accogliere ogni suo cenno. Le due parabole che parlano della venuta improvvisa del padrone – che viene a visitarci in ogni momento, non solo alla fine della nostra vita – e ci invitano a mantenerci pronti, non devono, perciò, farci paura e richiederci un’obbedienza forzata. Gesù ci ha detto: “Non temete!!” E ci ha invitato ad instaurare con Dio un rapporto di amore. La seconda lettura, tratta dalla lettera agli Ebrei, ce lo ripete. La fede dei Padri ci deve essere di insegnamento: Dio ci attende, vuole da noi un rapporto reciproco di amore. È una verità che dobbiamo accogliere nel nostro cuore, senza timore. Nel Cantico dei Cantici l’incontro della sposa con lo sposo è immagine dell’incontro di ciascuno di noi con Dio. E la sposa dice di essere attratta dal suo amato. Così come il libro dell’Apocalisse si chiude con queste parole bellissime: “Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!”. È la gioia dell’incontro con Dio, nell’amore reciproco con lui.
In tutto questo brano Gesù ripete più volte – come nel Discorso della montagna – la parola: “Beati!” Non si tratta di bravura. A Dio non sta a cuore la nostra perfezione. Vuole solo che il discepolo compia l’opera dell’amore. La sera del giovedì santo Gesù ha detto ai discepoli: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati”. Se vivrete nell’amore avrete in voi la vita stessa di Dio. Dio viene a visitarci in ogni momento e se ci troverà impegnati nell’amore reciproco saremo beati, perché inseriti nella vita stessa di Dio, la vita dell’amore trinitario. Gesù non viene a visitarci per darci un premio, una decorazione, vuole trovarci inseriti nel rapporto divino dell’amore reciproco. L’amore fraterno è la vera preparazione all’incontro con Dio, nel presente come nel futuro, è “scala del paradiso”, “porta del cielo”.
Anche nelle piccole circostanze di ogni giorno vivere nell’amore è vivere in Dio. E vivere in Dio è per noi il tutto.
Dopo l’invito ad “arricchirsi presso Dio”, Luca ci dona le parole di incoraggiamento del Signore a quanti sperimentano il senso di smarrimento sia per la radicalità delle esigenze, sia per l’esiguità numerica di coloro che intendono seguirlo come maestro e modello di vita: “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno”. Una parola di consolazione e l’assicurazione che non verrà meno perché la scelta fatta di chiamarli al dono della fede è garantita dalla volontà sovrana del Padre, al cui cuore “è piaciuto” rivelarsi come amore gratuito. Questa certezza dell’amore che non dipende dal merito, fedele per sempre, vince la paura dell’incognito. Perciò i discepoli sperimenteranno la libertà di vendere, dare in elemosina, vivere per il tesoro che è stato loro affidato, deposto come chiamata nel loro cuore, attendere il Signore al suo ritorno.
Comprendiamo in quanto Luca ci sta dicendo in questo capito 12 del suo vangelo, che non gli sta a cuore la condanna di ogni possesso come cattivo in sé, ma il ripetere ai credenti di vigilare su che cosa e dove indirizzarsi per avere fermezza di cuore e solidità di speranza: non verso i beni, ma verso Dio. Questo darà stabilità e armonia alla vita spirituale, donando la beatitudine che deriva dal compimento di quello che piace a Dio. Perciò l’esortazione alla vigilanza. L’avveramento della beatitudine non è più quello dovuto al rapporto dei servi con il loro padrone che torna e da sicurezza come nella parabola, ma quello dei credenti con il Signore Risorto, fonte di felicità piena. Il culmine della gioia dell’incontro sarà l’atteggiamento del Signore che stupisce i suoi ripetendo in forma solenne il gesto compiuto durante l’ultima cena, servendoli a mensa e soprattutto donando la vita per loro in croce.
Il ricordo di lui come “colui che serve” è il segreto che motiva e anima la vigilanza cristiana, che non è finalizzata al perfezionismo, preoccupato di sé e moralistico, ma a testimoniare la memoria viva del Signore.
Luca ci parla della vigilanza non come preoccupazione assillante della morte e della valutazione della verità dell’esistenza ricevuta in dono, ma nella prospettiva del servizio della comunità, della responsabilità nel vivere il compito affidato a ciascuno con la vita ricevuta. Il credente vigilante è colui che resta attento ad accogliere il rumore dei passi di Cristo servo e Signore che viene per servire e domanda comunione con Sé. Ed egli insegna a non fare le cose come schiavi del fare, ma come amicizia che domanda reciprocità, che ricorda ed attualizza la parola detta nel cenacolo: “Non vi chiamo più servi ma amici” e tende a trasformare i servi in amici confidenti e infine in fratelli. Egli è colui che viene nel tempo oscuro della notte, dell’incertezza, dell’imprevedibilità dell’esistenza. Bisogna imparare ad abitare la notte, fidandosi di Qualcuno la cui “notte non conosce oscurità” (Sal.139).
Fede come servizio, quella che Luca ci propone, in attesa del ritorno che è ritmato dal cuore paterno di Dio, che è la trasformazione in figli di Dio per essersi modellati al Figlio. Perciò occorre far propria la via di Gesù che è Signore perché servo, a servizio di un progetto ricevuto in affidamento.
Cristo è servo in sé e nella Chiesa. Sant’Agostino nella sua concisione, scrive: “Il servo di Dio è il popolo di Dio, la Chiesa di Dio” (“Su Gv.” 10,7). Perché la Chiesa è un solo essere con il suo Signore. “Pienezza di Cristo sono dunque il capo e le membra. Cosa vuol dire il capo e le membra? Il Cristo e la Chiesa” (“Su Gv” 21,8).
Il Vangelo interpella tutti noi sull’identità e continuità di servizio, e motiva l’esistenza del cristiano.
È il servizio del Signore che spinge la Chiesa verso i popoli: è il suo essere nel tempo e la sua beatitudine che si va attuando. La Chiesa – dice Agostino nei suoi scritti – è serva in quanto madre che genera, in quanto è tenda di ristoro nella fatica del cammino, è nido che accoglie e ripara i semplici, “i piccoli della tortorella”(Sul sal. 83), la città di Dio che si mescola con la convivenza umana, per trasformarla dall’interno e condurla al suo Signore.
Tutte immagini di Chiesa che serve per il vero bene degli uomini, la ragione della sua esistenza, icone delle due città che si cercano fino al raggiungimento dell’unica città definitiva di Dio con gli uomini.