XXVII DOMENICA T.O.- Anno C
(Ab 1,2-3;2,2-4; Sal. 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10)
Quest’anno la Chiesa ci ha fatto incontrare il Vangelo di Luca. Oggi leggiamo l’inizio del capitolo 17. Gesù parla ai “suoi”. Non si tratta della folla, termine che ha un’indicazione più generica. I “suoi” sono quelli che il Signore invita ad entrare sempre meglio dentro la sua mentalità. Nei primi 4 versetti, che la liturgia non legge, egli dà due esortazioni. Con la prima, a carattere negativo, li esorta a non essere motivo di scandalo – cioè di ostacolo – per i fratelli con un comportamento fuorviante, perché non in armonia con il Vangelo. La seconda ha carattere positivo. È l’invito a perdonare sempre, con generosità. Occorre vigilanza, per conquistare l’unità di vita. Di fronte a queste parole i discepoli si sgomentano, così come, nel capitolo 19 di Matteo, si erano sgomentati per la radicalità delle esigenze del Vangelo nei confronti della vita matrimoniale. Di fronte ad esigenze così forti, al di là delle semplici capacità umane, si comprende la loro supplica: “Signore, aumenta la nostra fede!”. Per agire così è necessaria una grande fede! Gesù risponde con l’iperbole del granello di senape, il più piccolo dei semi. Anche una fede piccola, purché autentica, una fede iniziale, senza bravure, permette a Dio di manifestarsi proprio nella piccolezza. Nei Vangeli tante persone, dalle fede povera e incerta, vengono accolti ed esauditi. Chi crede, cioè si affida totalmente a Dio, gli permette di manifestarsi come presenza e provvidenza. È il Signore che compie quanto l’uomo da solo non sarebbe capace di fare.
Con queste parole Gesù si rivolge in particolare a quanti hanno responsabilità, perché abbiano un riconoscimento umile, ma convinto, della sovranità di Dio. Perciò ancora una volta si spiega con una parabola, desunta dalla vita sociale del suo tempo. Come il servo di quell’epoca, sottomesso totalmente al padrone, nella vita di fede non ci si deve fondare sul lavoro compiuto e tanto meno vantarsene. Sono necessarie solo l’obbedienza alla Parola di Dio, la modestia nello svolgere il proprio compito, il rifiuto di ogni vanto. L’affermazione: “Siamo servi inutili” non è dispregiativa dell’uomo e non nega l’utilità del suo lavoro per il Vangelo, ma afferma la verità che solo Dio può cambiare e santificare il cuore umano. Perciò bisogna essere liberi dalla preoccupazione della nostra inadeguatezza. Il Signore supplisce alla nostra insufficienza. Tutta la storia della spiritualità cristiana ci insegna come Dio ci permetta di operare cose grandi, nostro malgrado. Non dobbiamo poggiarci sui titoli acquisiti, il vanto è un ostacolo per la testimonianza del Vangelo, così come lo è la preoccupazione per il premio. Ciò che conta è solo la sicurezza nell’aiuto di Dio, che viene a noi nella Mensa Eucaristica. Il presente e il futuro sono custoditi dalla Provvidenza di Dio.
Tutta la Parola approfondisce oggi questo messaggio. Nella prima lettura, al senso di impotenza che il profeta esprime con la propria preghiera angosciata di fronte al male della storia, uno stato d’animo condiviso da tanti uomini del nostro tempo, credenti e non credenti, il Signore risponde indicando la preziosità della fede. E S. Paolo a Timoteo soggiunge: “Non vergognarti della testimonianza da rendere al Signore … soffri anche tu, insieme con me per il Vangelo, aiutato dalla forza di Dio”. Nella lettera ai Romani Paolo non aveva avuto paura di dirsi “schiavo di Cristo Gesù”. Dal momento in cui lo ha incontrato egli non concepisce nulla al di fuori di quanto ha ricevuto e lo ha reso un inviato del Vangelo. Non ha più programmi e il suo vivere è Cristo. Si sente come uno che è in debito con l’umanità, perché ha molto ricevuto, e deve andare incontro a tutti. Potersi spendere è una grazia, un puro dono dell’amore di Dio, che lo ha chiamato ad annunciare il Vangelo “alle nazioni”, “ai greci come ai barbari, ai dotti come agli ignoranti”. Gli uomini non vanno riconosciuti o valutati in base a quello che fanno, ma solo per lo sguardo di Dio che tutti ama e tutti difende.
Anche oggi, celebrando la missione cui sono stati chiamati i nostri fratelli, ci rendiamo conto che non possiamo pensare che vi siano culture incompatibili con Dio. Paolo dice di essere “in debito” verso tutti. Tutte le culture possono entrare in dialogo con il Vangelo, da tutte abbiamo da imparare. Le diversità non sono un ostacolo per il Vangelo: ne rendono possibili, piuttosto, nuove interpretazioni, nuovi modi di esprimersi, accenti nuovi, nuovi ripensamenti. Dobbiamo convincerci che il mondo che cambia non è un ostacolo, ma un’opportunità per il Vangelo, una grazia. I popoli che emergono non sono un ostacolo. È sbagliato, perciò, dire che “prima era meglio”. La storia ci permette di sperimentare la certezza sempre nuova, la freschezza del Vangelo di Gesù.
In questa certezza potremo condividere la gioia e la trepidazione del momento missionario, divenire collaboratori di don Sandro.
“Accresci in noi la fede”. Luca pone sulle labbra dei primi discepoli queste parole, chiamandoli “apostoli”. C’è forse in lui il pensiero che quelli a cui è affidata la trasmissione del Vangelo debbano avere una fede matura e forte, tale da poter sostenere le comunità che si moltiplicano.
Le immagini usate da Gesù non vanno nella direzione di ricercare le capacità di operare prodigi spettacolari, ma
vogliono ribadire che niente è impossibile alla fede, Anche se iniziale e molto debole, piccola come un granello di senape, la fede, se autentica, ha in sé l’efficacia del bene. Non può essere valutata, perciò, con il criterio dell’efficienza e del successo, ma con quello della vita che si fida di Dio e si affida a Dio, pur se è oscura per la debolezza della mente e umile nella pazienza che occorre per andare avanti tra incoerenze personali e contraddizioni nella Chiesa.
È molto probabile che, scrivendo queste righe, Luca abbia pensato ai responsabili della prima comunità cristiana e dedicato ad essi la piccola parabola. Per questo si sente libero di esprimersi con radicalità, come in un colloquio nell’intimità della famiglia. Lo fa con i colori della parabola, che la gente capiva bene perché era a conoscenza dei diritti dei datori di lavoro e dei doveri di quanti lavoravano presso le loro case e botteghe. Lo schiavo non poteva pretendere alcuna ricompensa per il suo lavoro (nei campi al mattino e in casa la sera): tutto quello che gli era comandato era soltanto il suo dovere. Così anche l’uomo credente nei confronti di Dio: il suo rapporto con Lui è di assoluta dipendenza, non può accampare pretese davanti a Lui. Questo – dice Luca – è il significato che Gesù da e vive della sovranità del Padre dei cieli. L’immagine del rapporto del padrone con lo schiavo è iperbolica. Non si deve pensare che quello che si fa, il proprio dovere in fedeltà alla coscienza, non abbia valore: anche nella Chiesa è prezioso. Con la parabola Luca vuol dire che la mentalità che nasce, anche tra i credenti, del guardare alla propria fedeltà come motivo di ricompensa, di attenzione privilegiata da parte di Lui, non è giusta. Sembra ammonire gli apostoli e la Chiesa che sboccerà dal loro ministero che anche al loro interno potrà insinuarsi la tentazione di trarre motivo da quanto si è operato per vantarsi davanti agli uomini ed avere pretese davanti a Dio. L’aggettivo “inutile”, perciò, non significa che lo schiavo abbia fatto un lavoro non utile, ma che ha lavorato non per la propria utilità. Tutta la parabola utilizza il paradosso per proporre il rapporto con Dio nella sua verità oggettiva e nella sua autenticità. Così il Vangelo inculca nel cuore dei credenti l’importanza dell’obbedienza di fede, la modestia in quanto si opera per il bene, il non “darsi delle arie”, per poter ripetere con san Francesco di Assisi: “Tu sei tutto, io niente”. Ognuno nella misura della propria vita, al di là di ogni riconoscimento, perché “nell’amore ciò che conta è amare”, come scrive Chiara Lubich.
“Il giusto vivrà per la sua fede”, dice il profeta.
Ma dove nasce la fede? E come può nascere là dove l’uomo si fondi solo sulle proprie evidenze e possibilità? A tanti, in ogni epoca, ma specie oggi in Occidente, appare innaturale il paradosso di Gesù che definisce la fede, anche minima ma radicata nel cuore umano, come un’energia capace di svellere dalla terra anche un albero dalle grosse radici. E, tuttavia, la storia della santità nella comunità cristiana è testimonianza di questa “possibilità dell’impossibile” che nasce e si manifesta nell’umanità quando una creatura si lascia prendere dal Vangelo e non lo giudica ma lo vive. La fede allora appare come una vera sorpresa, proprio perché non è ovvia, molto più sorprendente dell’incredulità, diffusa fino alla scontatezza e, apparentemente, dominante.
All’inizio delle fede c’è l’esperienza di essere amati da Dio nella persona e nella vicenda di Gesù, di un amore radicale e gratuito, che suscita l’esigenza di reciprocità nell’appartenenza, senza sentirsi obbligati a compiere cose e senza diritti da vantare e premi da rivendicare perché si è stati utili.
Una settimana fa la Chiesa ha dichiarato “beata”, cioè pienamente realizzata nella vita cristiana, Chiara Luce Badano, una ragazza di diciannove anni (vissuta dal 1971 al 1990) di Sassello in Liguria, che fu colpita a diciassette anni da sarcoma osseo. Il suo segreto è stata la certezza di essere amata, che le ha permesso di dire al Signore: “Se lo vuoi Tu, lo voglio anch’io” e di salutare la mamma alla fine dicendo: “Sii felice, io lo sono”.
È l’amore. non la costrizione etica o esteriore, che suscita e alimenta la fede che si fida e si affida e rende utili per il Regno di Dio, senza sentire l’essere utili come un peso da togliere dal collo, senza misurare con il criterio del merito, ma solo con quello di riamare l’Amore da cui si è stati amati.
Oggi la coscienza dei diritti sembra impedire la coscienza dei doveri e i conflitti sono tanti, ai livelli più diversi, dalla famiglia alla società, fino alle sofferenze che spezzano i matrimoni. La forza della legge appare coercitiva, ed è perciò rifiutata, e non sembra più sufficiente per la serenità dei rapporti,
Chiediamo il dono della convinzione sincera del dovere compiuto, nell’ottica positiva di chi vuole vivere i rapporti per amore, fino a donare la vita, perché si sente corresponsabile di tutti.
Sarà il nostro umile servizio al Vangelo del Signore.