XXVIII DOMENICA T.O.- Anno C
(2Re 5,14-17; Sal. 97; 2Tm 2,8-13; Lc 17,11-19)
Oggi, con la “Colletta” abbiamo pregato così: “O Dio… fa che nessuno di noi ti cerchi solo per la salute del corpo: ogni fratello, in questo giorno santo, torni a renderti grazie per il dono della fede …”.
La fede è il dono su cui abbiamo meditato domenica scorsa. Luca ne ha sottolineato la fecondità. La fede può essere capace di spostare montagne, di sradicare alberi grandi come il gelso: ma c’è un’immensa sproporzione tra la nostra piccola fede e quella proposta da Gesù. I discepoli gli avevano chiesto: “Signore, aumenta la nostra fede!”.
Oggi il Vangelo ci narra un episodio, presente, in questa forma, solo in Luca. Quello dei dieci lebbrosi. L’Evangelista vuole farci approfondire il senso vero della fede Innanzitutto la vera vita di fede è riconoscenza che ci spinge a tornare costantemente verso Gesù, con amore grande, nella reciprocità. La riconoscenza ha un aspetto purificatore, perché ci permette di uscire dalla chiusura di una fede “questuante”. Luca sottolinea lo stupore addolorato di Gesù. Egli non è arrabbiato, né scandalizzato di fronte al fatto che sia solo uno dei lebbrosi a tornare verso di lui per ringraziare della guarigione ottenuta, ma è addolorato per la nostra mancanza di gratitudine. Luca sottolinea come anche i favori miracolosi possono lasciare l’anima fredda e chiusa. Le cose meravigliose non sono capaci di arricchire la fede, che si fonda su di un rapporto di amicizia e di gratitudine per il Signore. Sul nostro tornare a lui per ringraziare.
Ma a fede non è solo è accoglienza del dono e gratitudine: è allo stesso tempo volontà di andare verso il fratello, per divenire segno della presenza del Signore fra noi, presenza del suo amore che risana.
Per noi oggi capire il senso del dono, il fatto che la vita è dono, diventa sempre più difficile, perché il nostro cuore è offuscato, indurito dal dilatarsi e prevalere del potere economico, della logica del profitto. L’uomo diventa ogni giorno più superbo, convinto della propria autosufficienza, tanto da pretendere di poter governare anche la nascita e la morte. Invece, per comprendere la positività della vita, il suo essere dono, è necessario che il nostro spirito diventi povero interiormente. Non si tratta di rinunciare alla nostra razionalità, ma di fidarsi di Dio e della sua parola, come, nella prima lettura, abbiamo visto che ha fatto Naaman, capo dell’esercito siriano. Egli rinuncia alla prospettiva di conquistare il profeta con i doni per farsi guarire e diventa umile nell’obbedienza della fede. Ascolta la parola di Eliseo, si lava nel fiume di Israele ed è guarito. A volte la fede ci sembra troppo piccola di fronte alle nostre ambizioni sociologiche e psicologiche, che ci fanno pretendere successi, trionfi mondani. Anche all’interno della Chiesa molto spesso aspiriamo a troppo, aspiriamo alla visibilità senza avvertire il senso del nostro limite e diventiamo indisponibili nei confronti dell’amore che salva. Invece solo chi accoglie il dono della Parola può sentirsi sanato e capisce che il bene non è secondare la nostra volontà, ma andare con accoglienza ed umiltà verso il fratello, anche se mi sento separato da lui. Il Signore è presente nelle parole semplici e così risana. Accogliendo il fratello ci accorgiamo della infinita tenerezza del Signore, che si prende cura di ciascuno di noi. Così capiamo che la vita non è una condanna, ma spirito di vita, capacità di amore, perché c’è Qualcuno che ci accompagna. Aprirci al suo amore ci rende capaci di abbandonare ogni tipo di fanatismo. Perché il fanatismo è divisione, inimicizia. Ma questa presenza divina dell’Amore dobbiamo cercarla nel nostro cuore, non altrove, ricordando le parole di Agostino: “Tu eri dentro ed io ti cercavo fuori”. E ascoltando quanto l’Apostolo Giovanni ripete, quasi come uno “slogan”: “Amatevi gli uni gli altri”. L’amore non è la chiusura di un nido protetto, è l’invito ad andare verso i fratelli. Questa è la chiamata di Gesù: “Alzati e và”! Il dono dell’amore di Dio deve essere trasmesso circolarmente. La fede matura ci spinge a divenire dono per il mondo, a farci carico di chi non riesce a vedere la vita con positività. La fede deve muoversi verso la periferia, verso tutti gli esclusi, quelli che anche la carità cristiana emargina e lascia soli. L’amore risanante di Gesù non si ferma alla porta di chi non ha celebrato il matrimonio in Chiesa, di chi non è stato battezzato. Il chiudersi alla relazione è la vera lebbra, ma Gesù, risanandoci ci spinge alla relazione, al superamento di ogni ribrezzo, all’apertura verso tutti i fratelli. Anche il lebbroso è candidato al dono di Dio, perché Gesù non emargina nessuno. Guai a noi se, di fronte al cuore angosciato dei fratelli, lasciamo che gli venga detto: “Impuro!”, come un tempo avveniva ai lebbrosi. Non è lecito che la Chiesa, ministra di un amore che risana, possa emarginare qualcuno. Tutta l’umanità deve incontrare questo amore che risana. Ognuno di noi ha un’insufficienza costitutiva, anche se le circostanze lo hanno molto aiutato. Quanto più siamo stati aiutati, tanto più dobbiamo accorgerci dell’amore che ci chiama e divenire segno di salvezza per i fratelli che attendono di essere risanati.
Accorgerci ogni giorno dei gesti della tenerezza di Dio nella nostra vita: tornare da Gesù per ringraziare, ma contemporaneamente andare verso i fratelli piagati, sapendo che l’amore di Dio accoglie, senza nessuna riserva. Questo ci dice la liturgia di oggi, annunciandoci la presenza di Qualcuno che è l’amore che risana.
Oggi Luca ci invita a riflettere sulla riconoscenza, che esprime la fede e fa sperimentare l’incontro personale con il Signore. Il racconto privilegia questa realtà interiore più che la stessa narrazione della guarigione. Il messaggio è tutto in questa sottolineatura della riconoscenza.
Sarà stata forse la gioia per la salute ritrovata, forse l’interiorità sarà stata invasa dal chiasso esteriore dei presenti ed amici, forse avrà influito la preoccupazione di adempiere l’invito di Gesù a presentarsi ai sacerdoti perché potessero testimoniare l’accaduto; fatto sta che nove guariti non tornarono indietro, ma solo uno avvertì l’urgenza di rifare la strada per cercare Chi lo aveva risanato, per prostrarglisi davanti, stringergli i piedi nell’adorazione, dirgli il proprio grazie.
Luca pensa con rammarico che ben nove su dieci perdono il momento prezioso dell’incontro con l’Amore che li ha preceduti e risanati, donando loro una qualità di vita più alta nella coscienza del dono ricevuto. E ricorda ala comunità dei credenti il dovere di accogliere il segno dell’unico dei dieci che si sente assicurare un dono incomparabilmente più prezioso della guarigione, quella parola indimenticabile: “Alzati e va’, la tua fede ti ha salvato!”.
Così è il rapporto di Dio con ciascuno. Egli dona il futuro prima che accada, in maniera che chi accoglie la sua Parola la riconosca già avuta in dono e operante in sé. Dirà Agostino del suo travaglio nella ricerca: “ Ti cercavo fuori di me, nelle creature, ma Tu eri dentro di me, più intimo a me di quanto lo sia io stesso”. Non è più il grido lancinante di chi desidera la liberazione dal male, ma la scoperta dell’attrazione per Chi ha avuto fiducia della propria piccola creatura, senza fermarsi per il suo limite.
La liturgia sottolinea la preziosità della risposta umana al dono di Dio ed esorta a vivere la preghiera di riconoscenza come “porta della fede”. Accostando alla pagina di Luca quella del libro dei Re, indica la riconoscenza, per ogni uomo a livello universale, come approdo alla fede in cui matura il rapporto personale con Dio. Gesù si fa maestro e guida e moltiplica i segni interni alla vita e alla storia di ciascuno, perché siano accolti. Così il credente è invitato dal Vangelo a vigilare sulla propria interiorità e sulla propria esperienza di preghiera, badando a che non si esaurisca nella sola domanda per ottenere la soluzione dei problemi e sempre nuovi doni.
Si possono avere doni – dice Luca – senza che il pensiero si volga a Chi fa i doni, usare di essi senza lasciar crescere il fiore della reciprocità nel rapporto, il desiderio di comunione che i doni manifestano. Così lo straniero disprezzato diventa segno di fede autentica. La fede riconoscente salva il miracolato! Tutti sono stati sanati, lui solo salvato!
Perciò il prodigio non è fine a se stesso, ma è segno che rimanda all’Amore che lo ha operato, segno che chiama all’incontro personale con Dio. E’ il significato più profondo del tornare indietro, che sembra un “perdere tempo” e invece è “accelerare, responsabilmente”, il fine di tutto che costituisce la “patria” dell’incontro della creatura con il suo Creatore. Il samaritano che torna e trova non ha più bisogno di andare dai sacerdoti: “Talvolta – dice Bonhoeffer in una sua lettera – bisogna andare contro la legge per essere fedeli in profondità”.
Così Gesù faceva con il sabato e le molte pretese dell’ebraismo osservante. Il samaritano disobbedisce al comando per dare spazio all’amore riconoscente. Ha capito che il senso di quanto gli è accaduto non è la guarigione, ma l’incontro con Dio che guarisce, quel Dio che non cerca adempimenti ma persone, non riti ma amore.
Oggi Gesù ci invita ad una vita riconoscente, ci insegna un atteggiamento sincero di gratitudine, sobria e gentile. Lo consegna alla sua Chiesa perché lo conservi, lo alimenti, lo testimoni nella vita di comunità e nei rapporti fraterni.