XXXIII DOMENICA T.O.- Anno C
(Ml 3,19-20; Sal. 97; 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19)
La prima lettura che oggi abbiamo ascoltato è del profeta Malachia. Questo nome significa: “Mio messaggero”. Forse ad esso non corrisponde un singolo personaggio reale, ma si tratta di un’opera che risale al tempo in cui il popolo, euforico dopo il ritorno dall’esilio, ricostruiva il Tempio. Ci troviamo intorno al 515 a.C.. Malachia si domanda se sacerdoti e fedeli professassero un culto purificato, chiede, nel nome del Signore, che la loro condotta sia coerente con quanto veniva proclamato nella liturgia. Il suo è un messaggio molto preoccupato dell’integrità della condotta morale, severo nei confronti del ripudio, che afferma di detestare. In questa luce parla dell’attesa di un giorno di luce, il giorno definitivo della verità davanti a Dio: non lo possiamo trovare nel calendario, ma esso è presente nel cuore del Padre.
Anche Gesù parla di questo giorno e Luca riferisce le sue parole: ci sarà un momento conclusivo della storia. Per la Scrittura la storia non ha un percorso ciclico, ma lineare: tende verso un punto finale, l’Omega, il compimento. Di esso ci parlano i testi apocalittici (apocalisse vuol dire rivelazione): è il giorno definitivo del bene e della verità, ma – ci dice Gesù – è sbagliato cercare di conoscerne il momento, anche se molti pretendono di poterlo prevedere. Questo accade anche oggi: movimenti religiosi o spirituali, singoli individui, pretendono di saper predire il futuro, ma Gesù non li tollera: è sempre severo nei confronti di qualsiasi tipo di millenarismo. Anche gli avvenimenti più gravi non autorizzano il catastrofismo: è sbagliato temere per la stabilità del Regno di Dio. Il credente non può sapere quando finirà la storia, ma sa – con l’Apostolo Paolo – che le sofferenze che la attraversano sono simili alle doglie del parto, perché da esse nascerà una vita nuova. Non conosciamo né modalità né date, ma sappiamo con certezza che il Signore “fa nuove tutte le cose”.
“Nemmeno un capello del vostro capo perirà”. È il passo centrale, il cuore del messaggio evangelico di questa domenica. Il credente vive la speranza, accettando con mitezza la solitudine della fede, quella solitudine che gli viene perché egli prende atteggiamenti “controcorrente” nei confronti delle suggestioni della moda, dei mass media, quando sono in contrasto con il Vangelo. Il Cristiano deve mantenere questo comportamento, ma senza assumere atteggiamenti di vittimismo. Anche se vi sono forme esplicite di persecuzione, sappiamo che essere credenti implica un essere “controcorrente”. La certezza di Dio, che si prende cura di ogni nostro capello, fa scoprire l’importanza di ogni vita agli occhi del Padre, ci spinge a vivere ogni aspetto del presente con impegno responsabile, con cordialità. Anche se sembra prevalere il negativo, se tante cose appaiono inutili, contrarie al bene, dobbiamo accoglierle nel cuore, trasformarle come in una camera oscura, cogliendone gli aspetti impensati di positività, valorizzare tutto senza disprezzare nulla, perché tutto è preparazione e anticipazione del Regno di Dio. È lui che conduce la storia. Le parole di Agostino sono illuminanti: “Viviamo bene e allora i tempi sono buoni. I tempi siamo noi: quali noi siamo, tali sono i nostri tempi”. Se viviamo bene, allora i tempi sono buoni. Lo sono se viviamo nella tensione di far fiorire ogni potenzialità positiva, di rendere la città dell’uomo a misura della città di Dio, di rendere ogni rapporto segno della fraternità universale. Cogliamo ancora una volta l’insegnamento di Maria: dopo la croce si è trovata nella solitudine di fede, di rapporti umani. Non aveva più vicino il Figlio, ma, come figli, i discepoli, così poco amabili in tante cose. Eppure ella imparò a cogliere in loro le scintille del divino con cui costruire persone nuove. I tempi siamo noi che li costruiamo!
Anche se ogni cosa è destinata a finire come il Tempio, noi dobbiamo impegnarci nella fatica operosa, perché il lavoro ha un valore prezioso. Ce lo dice Paolo nella lettura, tratta dalla seconda lettera ai Tessalonicesi. Ce lo conferma il Concilio Vaticano Secondo, nella “Gaudium et spes”. “Certo, siamo avvertiti che niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero, ma perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo” (G.S.39)
La liturgia oggi ci illumina con la certezza dell’infinita cura che Dio ha per l’infinitamente piccolo. Nulla è per lui insignificante. È una certezza che ci permette di uscire dalla sensazione di essere inutili, da quella disistima di noi stessi, cui ci sentiamo costretti dalla civiltà dell’immagine e del successo, che ci porta anche ad un giudizio penalizzante nei confronti del prossimo. Siamo invece chiamati alla perseveranza, alla responsabilità, nella certezza che possiamo collaborare al progetto di Dio. “Con la perseveranza salverete le vostre anime”, le vostre vite. La vita non si salva con il disimpegno, anche se motivato dall’attesa del Signore, ma con l’impegno tenace, umile, quotidiano, con il prendersi cura, all’interno della storia dell’umanità lontana e vicina.
Anche qui, a Napoli Gesù, presente nell’Eucaristia, ci dice: “Non temere, io sono con te” e ci dona la speranza. Che la speranza diventi impegno e responsabilità per ciascuno di noi.
“Con la perseveranza salverete le vostre vite”.
“Queste cose che osservate, verranno giorni nei quali non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta”
L’occasione della parola di Gesù – ruvida nell’espressione letterale – è data da alcuni che dicono a voce alta l’ammirazione per gli ornamenti del tempio – oggi siamo abituati alle immagini splendide, ma allora la grandiosità suscita meraviglia grande. Luca utilizza la risposta breve di Gesù per introdurre il “discorso escatologico” sulle ultime realtà di Gerusalemme e del mondo. Probabilmente Luca scriveva dopo il 70, anno in cui l’imperatore Tito aveva distrutto Gerusalemme, ma nel suo vangelo questa è l’opportunità per inculcare nei credenti la necessità della perseveranza e della testimonianza che saranno esigite dalle circostanze storiche. In Luca si coglie non tanto l’intento di parlare della fine del mondo – più evidente in Marco e in Matteo – ma piuttosto quello di ricordare ai credenti la responsabilità di vivere nella storia, di saperla leggere come opportunità per il Regno anche nelle sue contraddizioni, di essere pronti alla sofferenza e al rifiuto che verrà opposto all’annuncio del vangelo.
Il primo avvertimento è diretto a non lasciarsi ingannare da falsi profeti – “verranno molti nel mio nome” – a non farsene discepoli. C’erano personaggi infatuati da messianismi politici, come appare nel libro degli Atti, e c’erano credenti che si esaltavano al pensiero del ritorno del Signore, annunciandolo come imminente e distogliendo dal vivere con impegno di fede il presente: “non seguiteli!”. Anche oggi nella chiesa vi è in molti una frenesia di fatti straordinari, una ricerca di “miracoli”. Queste persone con i loro atteggiamenti – dice il vangelo – non appartengono al venire di Dio che resta certo ma sconosciuto, anche se i fatti della storia hanno un loro significato nel piano di Lui, che occorre saper discernere. “Non vi terrorizzate. Devono infatti accadere queste cose, ma non sarà subito la fine”. Inondazioni, malattie, guerre non significano la fine del mondo.
I cristiani sono chiamati da Luca al tempo presente, al tempo della Chiesa alla quale appartengono anche contraddizioni interne e persecuzioni del mondo, che tuttavia non sono segni della stanchezza di Dio. Quando egli scrive il vangelo queste realtà già si sono manifestate nella Chiesa. E l’evangelista ricorda che “tutto questo” fa parte del discepolato e attua l’insegnamento di Gesù sul “portare la croce”, come egli aveva indicato nel capitolo 9 (Lc.9,23) Occorre sapere che “tutto questo” è occasione di testimonianza e strumento di diffusione della Parola, da vivere con la perseveranza che il Signore accompagna e compenserà.
“Nessuno potrà resistere”. C’è un ottimismo nel vangelo sulla diffusione della Parola che, se costa fatica e sofferenza – è tuttavia irresistibile per la potenza di amore che la abita: essa procede non per i meriti né per la capacità di chi annuncia, ma è soggetto dell’evangelizzazione.
Si può applicare la parola del Signore alla vita cristiana in generale. L’esistenza quotidiana del credente e la prospettiva della morte individuale sono viste da Luca non solo come previsione di tribolazioni, ma come occasioni di “costanza”, quella forma di perseveranza che fiorisce in mezzo alle prove che caratterizzano la vita dei credenti.
Una tale perseveranza permette ala fede di portare i suoi frutti e permetterà di entrare nel Regno.
Il vangelo di Luca riconduce perciò alla storia, non in senso astratto, ma a quella che viviamo e soffriamo: la nostra chiesa, la nostra città, Napoli, come è oggi. Nessuno può rifiutare il proprio impegno, perchè la società in cui vive gli fa orrore. È necessario occuparsene, amarla come luogo dell’amore paterno e misericordioso di Dio e servirla con fedeltà e pazienza. Questa pagina del vangelo toglie gli alibi religiosi che distolgono dalle responsabilità sociali.
Vi leggo poche righe di Martin Buber, pensatore e scrittore di fede ebraica:
“Quando ero giovane, la religiosità per me era l’eccezione. Da una parte la vita abituale; dall’altra il rapimento, l’estasi. Un giorno, dopo una mattinata di esaltazione religiosa, ricevetti la visita di un giovane sconosciuto, senza esservi però presente con tutta l’anima… Non era venuto da me per caso, ma mandato dal destino, non per fare una chiacchierata, ma per una decisione, e proprio da me e proprio in quel momento. Che cosa ci aspettiamo quando siamo disperati, ma cerchiamo lo stesso una persona? Probabilmente una presenza attraverso la quale ci venga detto che, nonostante tutto, esiste un senso nelle cose.
Da allora ho abbandonato quella religiosità che è soltanto eccezione, estraneazione, evasione, estasi; o forse sono stato abbandonato da lei. Ora non ho altro che la vita quotidiana dalla quale non vengo ami distolto. Non conosco più altra pienezza se non quella di ogni ora mortale fatta di pretese e di responsabilità. Se questa è religione, allora la religione è tutto, la totalità vissuta semplicemente nella sua possibilità di dialogo” (M.Buber, 1878-1965, Frammenti autobiografici)
Da questo fratello di fede, riceviamo il nocciolo del Vangelo. Dio è una realtà che si protende verso l’altro, in cui è più forte la relazione e il dono di sé che il possedere se stesso. Per questo Gesù sulla croce ci rivela in maniera decisiva l’essere di Dio come essere per l’altro: è l’essere di Colui che dona e perdona.
“Mentre alcuni parlavano del tempio”, ne ammiravano la vastità e la ricchezza degli arredi. Era il tempio che Erode il grande aveva voluto ampliare ed ornare in modo grandioso con lavori che durarono dal 20 a.C. al 63 d.C., sette anni prima che venisse distrutto dalle truppe romane dell’imperatore Tito nell’anno 70, quindi un po’ prima che Luca scrivesse il vangelo.
Luca riferisce l’insegnamento del Signore ad un pubblico vasto che lo ascoltava e che era venuto al tempio in pellegrinaggio – come il segno più grande che il popolo ebreo avesse, di memoria, di conforto, di speranza: “Verranno giorni – dice al gruppo dei discepoli e a tutti – nei quali di tutto quello che vedete non sarà lasciata pietra su pietra che non sia distrutta”. Luca scrive il vangelo dopo che la profezia si era compiuta. Così invita a guardare in un’ottica di fede gli eventi della storia e quanto accade sul piano personale, mai insignificanti in una vita in cui la fede è guida al discernimento e alla pace, nel momento in cui i fatti interpellano. Gli eventi della storia avvengono per cause precise e i credenti, proprio perché aiutati dalla Parola a discernerli, sono rimandati alla responsabilità umana, senza disimpegnarsi con il rimettere il senso alla fine della storia, senza confondere la pazienza con l’inerzia, che è come rinuncia a vivere da cooperatori di Dio nella custodia della creazione e nella costruzione della pace. La fine del tempio è un fatto storico, frutto di una cattiva politica, non può essere letto soltanto come segno della fine del mondo. Perciò – dice Luca – attenzione ai “falsi profeti”, a quelli che si deresponsabilizzano sotto la copertura della meraviglia del tempio o di una fede solo celebrata, che nega il presente, rinviando tutto al futuro.
I credenti maturi sanno che Gesù è l’unico Messia che guida la storia e non si lasciano prendere la testa e i gesti, come quelli che Paolo descrive “sempre in agitazione”, aggiungendo significativamente: “a questi tutti, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità”. La nostra fede ci conduce a guardare al paradiso come realtà che si inizia a costruire sulla terra.
Tuttavia gli eventi, pur derivando da cause precise che rimandano alla responsabilità personale e sociale, morale e politica, hanno in se stessi un potere evocativo della venuta definitiva del Signore e della conclusione della storia terrena. Perciò Luca riferisce l’esortazione del Signore alla perseveranza e l’invito alla testimonianza. La fatica della fede, la prova della solitudine, dell’incomprensione e della persecuzione persino da persone care, saranno occasioni per condividere la via cristiana e dire il vangelo a fatti. La persecuzione potrà togliere loro la vita, ma non impossessarsi della loro morte. Anche così doneranno sapienza all’umanità.
Quello di Luca è un tempo in cui ebrei e cristiani venivano considerati – come riferisce Tacito negli Annali – “nemici del genere umano” (9,20-26). I cristiani, sapendo questo dalle parole del Signore, non si faranno prendere dallo sgomento ma si impegneranno a sostenersi nelle loro comunità per vivere la perseveranza che conduce a “guadagnare la vita” (Lc.9,24).
Gli avvenimenti sono carichi di profezia, per il presente e per il futuro. Non indicatori del compimento del Regno in termini di tempo. Essi danno, nel loro accadere, un forte invito a valutare il presente ricordando il valore del tempo in cammino verso il compimento. I credenti sanno perciò che quanto non è inserito in questo cammino in avanti non è fedeltà al Signore. Sanno rimettere il proprio futuro nelle mani del Risorto che guida la storia in cui sono chiamati a vivere la fede e sanno essere attenti a lasciarlo operare con la forza della sua Parola nel tessuto fragile dell’umanità e nell’inadeguatezza della Chiesa, fino al tempo del compimento.
“A che cosa mi giova conoscere il giorno del giudizio … se Cristo non viene nella mia anima, se Cristo non vive in me, se Cristo non parla in me?” (Ambrogio: “Commento al vangelo di Luca”).
C’è, nella liturgia di oggi, un invito forte a non rifugiarsi in una speranza vaga, che non morde la storia in cui siamo chiamati a vivere la fede. I segni della negatività ci avvolgono, ci sommergono ci “rubano la speranza”. La parola del vescovo Sepe domanda come espressione della speranza evangelica non il ripiegamento nell’agitazione della recriminazione, dell’accusa di responsabilità altrui, del lamento di chi si sente vittima; quella parola domanda e si attende dai credenti un serio esame di se stessi, un impegno nell’oggi per il bene comune, un lavorare in tranquillità per una città che è sempre più preda dell’angoscia per il disimpegno e la resa senza futuro alla prevaricazione del male sul bene. Solo il farsi carico, in Dio, del bene di tutti è coraggio per resistere e forza per affrontare la fatica.
Quel farsi carico che è la beatitudine della fede.
È l’ultima liturgia del “tempo ordinario” prima della conclusione con la festa di Cristo Re dell’universo, domenica prossima. Poi il nuovo ciclo annuale, quello “A”, con il vangelo di Matteo.
La parola del Signore invita ancor alla contemplazione della fine del tempo e della venuta purificatrice di Dio che viene per rendere definitivamente l’umanità “suo” popolo, il popolo che gli appartiene per sempre. Perciò, ci dice il brano del capitolo 21 del vangelo di Luca, il popolo dei credenti è chiamato a vivere il proprio tempo come “tempo di attesa”, viva, come “chairòs” tempo di grazia, in cui la speranza del compimento si sposa con l’operosità che mette ordine nella vita, quell’ordine che è reso possibile dal credere al progetto che è su ciascuno (seconda lettura). Alla gente sfiduciata, che si sente delusa da Dio, Malachia ripete che Dio prepara il suo giorno, che perciò è sempre più certo e vicino, e che l’incontro con Lui richiede preparazione.
Gesù conferma l’annuncio del profeta. Davanti al tempio, mentre viene sollecitato all’ammirazione dei bei marmi e dei ricchi ornamenti portati dal re Erode, svela l’ambiguità che può insinuarsi anche nelle realtà belle e solide, anche nei luoghi chiamati sacri che, tuttavia, sono destinati alla ruggine del tempo, alla violenza distruttrice dell’uomo, come già avevano previsto da secoli Geremia, al capitolo 7, Ezechiele, al capitolo 11. Quando il loro prevedere sarà accaduto, Dio rivelerà il suo amore fedele trasferendosi in mezzo al suo popolo nelle baracche degli esiliati in terra straniera e mostrerà l’ambiguità della mitizzazione del tempio, che pretendeva di renderlo prigioniero di un’istituzione, anche di quella più bella e sacra, come il tempio di Gerusalemme. Perciò ai credenti non deve stare tanto a cuore conoscere “i tempi e i momenti che il Padre ha riservato al suo potere” (Atti,1,7). Il segno, povero ma allo stesso tempo concreto e perciò chiaro, del venire di Dio e del suo Regno, sarà la testimonianza, la perseveranza, il tenersi pronti dei discepoli. Luca lo dice alla sua comunità, la liturgia lo ripete a noi, nel tempo che viviamo, perché affrontiamo il rischio del pessimismo e assumiamo l’avventura di essere testimoni. Allora, il segno che Gesù propone nella propria persona, quello dell’incarnazione, con tutta la fatica di donare la propria esistenza fino all’incomprensione, al rifiuto, alla persecuzione, è il segno di ogni discepolo suo, passa in ogni discepolo che intenda proseguire il cammino insieme a Lui.
Luca pensa alla provvidenzialità delle prove raccontate negli Atti degli Apostoli: esse appaiono come strumenti e momenti preziosi per la diffusione del Vangelo. Per questo motivo, concludendo il suo vangelo dei “detti e fatti” del Signore, prima di raccontare la sua passione e la sua glorificazione, invita chi lo legge con docile attenzione a far propria la proposta di una spiritualità di attesa e vigilanza.
“Vivere nell’attesa del ritorno del Signore non è fuga dalla storia; è vivere ancora più pienamente la storia nell’orizzonte del suo destino ultimo”, scriveva il cardinale Martini. È imparare a fare discernimento per vivere responsabilmente le scelte a cui ognuno è chiamato perché siano coerenti e occasione di incontro con il Signore che è il bene ultimo, di fronte a cui tutto il resto è penultimo, è meno di Dio che è il fine della vita. Qui si radica l’esistenza cristiana, qui nasce l’etica evangelica. Perciò la spiritualità dell’attesa è spiritualità di vigilanza, si esprime nel quotidiano riferire al Signore la propria vita, le proprie vicende, il proprio desiderio sincero di camminare nella luce della fede. E qui che nasce nel cuore umano quella pace che Gesù ha promesso e dona a quanti si sforzano di seguirlo vivendo il Vangelo. È la spiritualità del cuore aperto, che non muta davanti al consueto e all’imprevisto, al già capito e al non ancora capito, al conosciuto e all’incognito.
Una vigilanza che è anche ascetica, come una ginnastica dello spirito, che si deve “vedere” come quella atletica, che genera nel mondo il fascino dei santi. Perciò bisogna imparare a non sentirsi troppo padroni della propria vita, forti delle proprie possibilità, delle sicurezze che sono presenti anche in chi si ritiene credente ma tante volte vive come se Dio non esistesse. Nessuno è esentato da questo frutto del secolarismo che ha fatto di Dio un oggetto insignificante, presente nella vita come un soprammobile!
Un’ascetica cristiana sa guardare, sa riconoscere, sa tagliare quello che distoglie dalla tensione a vivere da figli di Dio, nella fiducia di incontrarlo, nella libertà da piccole e grandi servitù e idolatrie.
Per imparare a restare, a dimorare in Lui per sempre.