Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo – Anno C
(2Sam 5,1-3; Sal. 121; Col 1,12-20; Lc 23,35-43)
Oggi è la domenica che conclude l’anno liturgico C, l’anno in cui ci ha accompagnato il Vangelo di Luca. Celebrando Gesù Cristo, Re dell’universo, la liturgia ci invita a credere con fede sempre più viva che la storia dell’umanità procede linearmente verso un traguardo finale, la signoria di Dio sul mondo e sulla storia, signoria realizzata dal Figlio incarnato, crocefisso e risorto, che ci chiama alla sua sequela. Entriamo nello spirito di questa celebrazione, leggendo i due versetti che precedono il passo del Vangelo di Luca, propostoci oggi dalla liturgia: “Insieme con lui venivano condotti a morte altri due, che erano malfattori. Quando giunsero sul luogo chiamato cranio, vi crocefissero lui e i malfattori, uno a destra e uno a sinistra”. Cerchiamo di entrare nella sofferenza di Cristo, rivelazione di un amore che raggiunge il limite estremo della povertà umana, fino ad identificarsi con essa. Luca sembra volerci dire, mentre concludiamo la lettura del suo racconto, che Cristo è con noi, per condividere la nostra povertà, per dirci che ci è accanto mentre la viviamo. Sembra dirci di fare attenzione a non strumentalizzare il dolore di Cristo. Chiedendogli di evitare a se stesso la sofferenza, siamo noi a respingerla, perché vorremmo che, evitandola per sé, egli la eviti a ciascuno di noi. Con questo rifiuto, rifiutiamo la libertà e sovranità di Dio, che si esprime attraverso il suo farsi prossimo alle situazioni più estreme, fino alla libera scelta di morire fra due malfattori. La liturgia di oggi, indicandoci in Gesù che muore fra gli ultimi della terra, l’atto supremo della regalità di Dio sulla storia, ci invita ad entrare nell’ottica dell’amore di Dio, nell’ottica del Crocefisso che salva proprio attraverso il suo non salvarsi. In modo più esplicito ce lo comunica Giovanni, che, nel suo Vangelo, identifica la “gloria” di Cristo con la croce, dicendoci così che Dio manifesta ciò che egli è in se stesso – e quindi esprime la propria regalità – lì dove l’amore si spende totalmente, senza pretendere che la potenza di Dio intervenga, appunto, per salvarci dalla fatica della sofferenza. Dio si manifesta – manifesta la sua gloria – assumendo la condizione umana fino al limite estremo della morte, nell’abbandono totale, fiducioso, del Figlio nelle mani del Padre, che lo consegna al mondo fino alla morte. La gloria del Padre è nel suo donare il Figlio, e quella del Figlio nel suo fidarsi del Padre, fino ad accogliere la morte, crocefisso fra due malfattori. La gloria di Dio, la sua presenza tra noi, è proprio in questo atto di amore e di abbandono. In Luca il malfattore (noi lo chiamiamo il “buon ladrone”, ma niente ci dice che egli sia buono; così come chiamarlo “ladrone” è solo parola di un linguaggio affettuoso) è un ladro, condannato a morte, che avverte nella persona di Gesù, crocefisso accanto a lui, qualcosa di più forte dell’odio e della morte e capisce che gli si può affidare. Egli è cosciente del proprio limite, della propria colpa, ma ha fiducia in Gesù, che accoglie la sua stessa sorte, non imprecando, ma perdonando, pregando per chi lo uccide. Avverte che in lui c’è la vita e gli dice, chiamandolo per nome: “Gesù, ricordato di me, quando sarai nel tuo regno!”. Gesù è Re, perché vive il Vangelo che ha insegnato. In Luca, durante l’Ultima Cena, ai discepoli che si domandavano chi fra loro fosse il più grande, Gesù aveva risposto: “I re delle nazioni le governano e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi, però, non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve.”. La vera regalità è nel servizio. Il momento della più grande debolezza, vissuto da Gesù nella libertà, nell’amore per chi lo uccide, nella massima fragilità ed impotenza, è il momento della signoria di Dio.Questa è l’icona che Luca ci consegna. Ascoltiamo le parole di Agostino: “Amiamolo tutti, sia egli caro a tutti, per lui amiamoci scambievolmente. Tutti abbiamo un unico Re; raggiungiamo tutti l’unico Regno”. Cogliamo in queste parole un duplice richiamo. Innanzitutto il richiamo ad una dimensione personale. Vivere il Regno è adorare il Signore nell’intimità del proprio cuore. Con lui e per lui vedere il tempo, i rapporti, gli impegni, la vita intera. L’adorazione del cuore non è riconducibile né al rito, né alla liturgia. Essa è la sottomissione umile della fede al Maestro, che è la via, la verità, la vita. Lasciamoci guidare da lui, lasciamoci correggere, perdonare, incoraggiare da lui, per divenire capaci di ricominciare sempre. E qui appare in tutta la sua preziosità, mai sufficientemente compresa e vissuta, il senso e il valore della presenza del Signore nell’Eucarestia, che, come ci dice il Concilio Vaticano II, “è il bene più prezioso della Chiesa”. Sottomettersi alla signoria di Cristo nel Regno, per esserne cittadini sempre, è un fatto personalissimo, non delegabile a nessuno, un patto fra lui e me. L’altro richiamo è alla dimensione sociale, che la stessa parola “Regno” include in sé, perché essa significa comunità, “polis”, convivenza di molti. Regno di Dio è fraternità tra gli uomini, nella verità, nella giustizia, nella pace, possibili e attuali per chi segue con decisione la strada indicata da Cristo: essere promotori di fraternità, assumere l’impegno politico come atto di amore, per il bene comune dei fratelli di ogni condizione. Nel rispetto della dignità di tutti, prendersi cura dei bisogni di ciascuno. Pensiamo ai bisogni della nostra città dove l’amore non fiorisce. L’amore politico è permettere che esso possa fiorire tra i giovani, impediti dalla carenza di strutture a potersi sposare, a trovare una casa, a compiere i propri studi. È permettere che esso possa fiorire tra tanti ammalati, frustrati dalla “mala sanità”. Vi sono cittadini per cui la città è come se non esistesse, per i quali le istituzioni sono inaccessibili e si sentono esclusi, mortificati dalle attese, dai rimandi frustranti. In una città che conta la densità più alta di giovani, questi sono costretti ad “arrangiarsi”, sono avviati alla delinquenza, per l’assenza di altre possibilità di lavoro. Per ciascuno di noi essere cittadini del Regno significa assumersi la responsabilità del nostro territorio, anche nei suoi aspetti più ripugnanti. Il territorio è il luogo in cui Gesù crocefisso ci chiede di spenderci, perché la terra sia realmente Regno di Dio.
“Il popolo stava a vedere” Più volte nella liturgia di quest’anno, in cui siamo stati accompagnati dal suo Vangelo, Luca ci ha insegnato l’importanza del “vedere” la realtà di Dio, di contemplarla perché penetri in noi, di “serbarla nel cuore” come egli ci dice di Maria (Lc.2,51). La liturgia oggi propone questo sguardo di contemplazione al popolo ebraico e a quello cristiano, invitati a riflettere su quello che vedono. Nella solennità della regalità il Vangelo di Luca ci fa vedere l’incomprensione, la derisione di tre categorie di persone. Innanzitutto lo scherno dei capi religiosi: essi considerano la santità di Dio solo nei successi e provocano Gesù a scendere dalla croce con la potenza tante volte manifestata nei gesti di prodigio; scherno che diventa disprezzo, oltraggio per il deciso assoggettamento di Gesù al mistero del volere di Dio su di sé Il suo silenzio è simile al “no” detto al tentatore all’inizio della sua vita pubblica e agli abitanti di Nazaret, che gli dicono: “Medico, cura te stesso” (Lc.4,23). Quindi lo scherno dei soldati – molto probabilmente romani – incattivito dalla spugna imbevuta di una bevanda acidula che avrebbe rianimato il condannato e prolungato la sua sofferenza, secondo il lamento del giusto sofferente nel Salmo: “Hanno messo nel mio cibo veleno – e quando avevo sete mi hanno dato aceto” (Sal.69,22). Esso è centrato sull’aspetto politico: “se tu sei il re dei giudei” è il motivo della condanna del processo romano e culmina anche qui come una tentazione laica – di quella laicità che ritiene vincente nella vita solo chi si impone con i mezzi umani – nel “salva te stesso”. La stessa espressione scritta sul cartiglio della croce, “questi è il re dei giudei”, è uno scherno e, tuttavia, chi contempla non può non pensare che è l’unica cosa di cui siamo a conoscenza, scritta su Gesù durante la sua vita. Profezia inconsapevole! Ma il culmine della pagina di Luca è nel rovesciamento della scena. Non solo uno dei malfattori – che nella tradizione è chiamato il “buon ladrone” – dichiara l’innocenza di Gesù, ma intuisce e riconosce la sua regalità derisa dagli scherni. E Luca, unico, racconta l’episodio per dirci – come all’inizio del Vangelo hanno riconosciuto i pastori – che Gesù è veramente il Salvatore atteso, che ha uno stile tutto proprio. Egli risponde alla sfida lanciatagli: non salva se stesso, ma salva un uomo; non preservandolo dalla morte, ma facendo della morte il passaggio alla vita vera e alla felicità. Salva un uomo, perciò salva l’umanità. Non in senso politico e spettacolare, ma dando inizio ad una nuova realtà, ad un modo nuovo di essere uomo o donna. Quel condannato pentito e salvato all’ultimo momento è la certezza di una speranza aperta a tutti, in qualsiasi condizione di lontananza si trovino, la rivelazione, a fatti, della misericordia di Dio per i perduti. La morte accanto a Gesù, in certo senso “come Gesù”, è una realtà nuova. Gesù conclude la sua vita dicendo “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc.23,46) e il ladrone. “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno” (Lc.23,42). Essa manifesta il crocifisso come via dell’uomo fino al momento della morte, che così diventa “inizio” della vita. Perciò Colui che non salva se stesso, ma si fa prossimo dell’uomo nella morte, è il futuro dell’uomo. Ognuno di noi, la Chiesa in ogni tempo, è ammonito a non salvare se stessa per essere il futuro dell’uomo, che non è nel potere, ma nell’incontro con l’altro uomo, che con Gesù si fa prossimo. Un futuro che inizia subito perché Gesù dice “oggi”: come a Betlemme, come a Nazaret, come in casa di Zaccheo, un futuro individuale e attuale, non solo collettivo e lontano. Luca lo afferma quasi oscurando il giudizio finale! “Ricordati”. Il ricordare come preghiera rivolta a Dio è tipico della fede ebraica, che ricorda a Dio le meraviglie che aveva compiuto e trova conforto nella certezza di essere esauditi. Perciò Gesù risponde con solennità: “oggi”. E pronuncia una parola inattesa “paradiso”, che letteralmente significa giardino, situazione di felicità, che nella Bibbia indica beatitudine eterna in Dio. “Con me”. Gesù assicura a chi muore con Lui una vita di comunione con sé, subito, “oggi”. Nella visione cristiana, la comunione con Gesù, possibile ai credenti per la verità della sua resurrezione, è in se stessa la beatitudine definitiva, la salvezza piena. Con Gesù Risorto l’oggi della vita non è più precario, ma definitivo. Così la morte di Gesù si rivela come vittoria sulla morte prima ancora che avvenga come evento dall’aspetto distruttivo. “Ricordati di me, Signore – scrive Cirillo di Gerusalemme nel V secolo – ogni uomo ha simpatia per il proprio compagno di strada. Noi due siamo compagni sulla strada che porta alla morte. Ricordati di me, tuo compagno di strada” (Catechesi,3). Regno di Dio, regno di Cristo è la fiducia che permette di affidarsi a Lui che si è fatto compagno della morte dell’uomo. Che ha scelto di non salvare se stesso, ma di essere il tu dell’uomo e domanda di non salvare noi stessi per essere il tu di Lui nella storia: “Chi vorrà salvare la proprio vita, la perderà, ma chi ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc.9,24). Regno non è fare delle opere di bene, ma vivere la vita e la morte con Gesù, che, proprio morendo, porta la vita. Regno perciò è, nel presente, l’umanità che segue Gesù, consapevolmente o anonimamente decisa a donare la vita per l’uomo, come Lui ha fatto. Un’umanità che sceglie di non salvare se stessa, ma di essere fedele a Lui, come s. Paolo ci ha ci ha presentato nella seconda lettura. Facciamo nostra l’invocazione di chi muore accanto a Lui: “Gesù, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno”.
Il brano della lettera di San Paolo alla giovane comunità di Colossi, che abbiamo ascoltato con la seconda lettura, aiuta a comprendere il senso della celebrazione in questa ultima domenica del cammino annuale di fede. San Paolo scrive a questa comunità di cristiani provenienti dal paganesimo, che non aveva fondato personalmente, ma che conosceva bene perché il fondatore Epafra era suo stretto collaboratore. Lo fa perché aveva avuto notizia che essi tendevano a conservare credenze e miti, come quelli riguardanti la venerazione degli astri, con pensieri ed immaginazioni non corrispondenti alla verità del Vangelo, “elementi del mondo” che potevano disturbare la limpidezza della fede. Cristo, dice san Paolo, non può essere considerato il primo tra questi elementi: Egli è infinitamente di più. A Lui si addicono le caratteristiche della Sapienza cantata nell’Antico Testamento e la proclama come in un inno. Gesù è l’immagine visibile di Dio, è “prima”, anteriore ad ogni cosa creata, tutto è stato fatto e trova la propria identità e continuità in Lui, per mezzo di Lui. Nulla perciò può essere considerato superiore a Lui e neppure pari a Lui. Ecco perché i cristiani trovano la “propria pienezza” in Lui che è il “capo” di “ogni autorità e potenza” e sperimentano la libertà dalla schiavitù e dagli asservimenti del mondo. Così Paolo propone alla fede dei credenti la persona di Gesù come di colui che ci precede, che è radice e modello di ogni realtà. A Lui dovranno guardare e Lui imitare quanti vogliono vivere in pienezza la vita secondo l’intenzione di Dio. Tutto questo è svelato dal mistero della sua morte e resurrezione. Da esse è diffuso il dono della liberazione dal male e della riconciliazione di ogni divisione e inimicizia, nel cuore dei singoli e nel cosmo. Ecco perché soltanto Gesù deve essere il “contenuto”, l’oggetto centrale della fede dei cristiani, continuamente cercato ed accolto: “Egli è in voi”, perciò essi si devono sentire chiamati ed essere “immersi in Dio”. La conseguenza è “tenersi al capo”, vivere stretti a Lui, in unità di scopi e di stile. Questa sarà la radice e la possibilità della sicurezza e della pace. Il battesimo, infatti, è il segno di appartenenza sicura, perché incorpora a Lui e rende partecipi della sua morte per amore e della sua resurrezione. La conseguenza è che i cristiani si ritengono “morti”, indisponibili alle pretese della mondanità e sempre più disponibili, “viventi” per le esigenze del loro Re e Signore, morto e risorto per un mondo rinnovato. Paolo dice che Gesù regna fra gli uomini quando sono insieme nella ricerca e nello sforzo di mettere in pratica quello che appartiene al mondo nuovo, lo spogliarsi dell’uomo vecchio con le sue azioni e rivestire il nuovo. Questa appartenenza al Signore, intima e nello stesso tempo visibile, raggiunge il suo culmine nella vita dei seguaci con la partecipazione alla passione del Maestro, loro “Signore”: “Ora io sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne a favore del suo corpo, che è la Chiesa” (Col.4,24). È il dono della sua regalità che si compie nel fare della propria vita un dono di amore. Perciò l’invito al ringraziamento, ripetuto per sei volte nelle poche pagine della lettera. Come uno sprone a non fare a meno di riconoscere che la propria identità di credente è tutta frutto di un dono gratuito e domanda di trasformare il gemito di un malfattore crocifisso con Lui, “Ricordati di me”, in preghiera fiduciosa, “Regna su di me”.