II DOMENICA DI AVVENTO – Anno A
(Is 11,1-10 ; Sal.71 ; Rm 15,4-9; Mt 3,1-12)
“In quei giorni comparve Giovanni Battista…” così egli viene a noi nei nostri giorni, viene oggi, in questa Eucarestia. Guardiamolo. Matteo ce lo presenta adulto, che addita Gesù, anche lui adulto, all’inizio della sua predicazione. Non sappiamo molto di Giovanni. Solo Luca, nel suo Vangelo, aveva parlato della paternità e della maternità di Zaccaria e di Elisabetta e dell’incontro di Elisabetta con Maria, quando Giovanni aveva esultato di gioia nel seno della madre, per la vicinanza di Gesù. Il suo compito è: “Preparare la via al Signore”. Giovanni è un asceta e compie scelte di vita di una rigida austerità, difficile da comprendere. Guardiamola con rispetto, è una sua scelta personale e non la impone. La sua richiesta di “Preparare la via al Signore” è altra cosa. Non è un invito vestire di pelle di cammello o a cibarsi di locuste e miele selvatico, ma è richiamo forte alla conversione, a non appoggiarci sulla certezza che la salvezza sia fatto scontato, solo perché apparteniamo ad una determinata religione, ad Israele per gli Ebrei e per noi ad un Cristianesimo garantito dal Battesimo, dall’Eucarestia che abbiamo ricevuto. La conversione richiede un impegno che porti frutti di verità e di giustizia. Guardiamo a Giovanni: anche noi siamo chiamati a “preparare la via al Signore”, consapevolmente. La sua caratteristica saliente è il rifiuto del protagonismo. Il Quarto Vangelo ci dice che, non appena ha indicato la presenza di Gesù ai suoi discepoli, si congeda da loro. Anche Giovanni, persona di grande fascino, aveva dei discepoli che lo seguivano, ma non vuole più trattenerli quando arriva il Signore. Le sue parole sono cariche di amore, di tenerezza, di senso della responsabilità: “Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e lo ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Gv.3,29-30). Il primo messaggio che ci invia Giovanni è che per preparare la strada al Signore è necessario il rifiuto di ogni protagonismo. È un messaggio carico di attualità in questa società fondata sul prestigio e sull’apparenza. Siamo chiamati ad andare contro corrente, a rifiutare ogni forma di competizione. Giovanni vive con responsabilità il proprio compito: la sua è una voce forte, una voce che grida: “Convertitevi!”, non con un gridare stridulo, ma con la testimonianza di tutta la sua vita, che è parola vissuta. Convertirsi significa entrare nel pensiero su Dio, entrare con lui in un rapporto radicalmente nuovo di conoscenza autentica, libera dalla mentalità rituale, che si accontenta degli adempimenti di una religiosità tutta esteriore. Convertirsi è sottomettersi liberamente alla luce e alla Paola di Dio, con un atto di fede che tocca il cuore, che accoglie l’iniziativa di Dio e la fa propria. È il ritorno al sogno originario di Dio Creatore, che ha voluto l’uomo come amico e gli ha affidato il mondo perché proseguisse l’opera sua, perché coltivasse e custodisse il giardino in cui lo aveva posto. È uscire dalle alienazioni che impediscono la realizzazione del disegno divino, secondo la situazione personale di ciascuno di noi. Gesù, Parola di Dio fatta uomo, è lo svelarsi pieno di quel disegno, del sogno di Dio e perciò convertirsi è seguire Gesù nella sua via. E quello che ci dice Giovanni con il suo atteggiamento, semplice, ma chiarissimo: io non servo più, andate dietro di lui. La maturità di fede non è andare dietro a un prete, che serve solo ad indicare Gesù all’uomo perché egli faccia propria la responsabilità e la dignità di figlio di Dio, nella maturità della fede. Contemporaneamente l’atteggiamento di Giovanni ci dice di guardarci dalle cose scontate, nella coscienza che anche l’uomo giusto non ha titoli propri per accampare diritti davanti a Dio, ma solo aprire il cuore perché sia lui ad entrarvi. Il Signore non è prigioniero in un recinto, neanche quello del cristianesimo o del cattolicesimo. Dio è anche fuori. E chi vuol preparare la sua via, deve dirlo con fraternità. Convertirsi è uscire dal proprio guscio chiuso, è rinunciare a fare di se stesso il centro della propria vita, è rinunciare all’ottica individualistica anche nella vita di fede, nella ricerca del benessere sia fisico che spirituale. È vivere per gli altri, fare del bene comune il bene della propria personalità individuale. Scrive Agostino nella sua regola, un testo sacro per noi che la seguiamo, ma che è valido, però, per tutti i cristiani: “Nessuno mai lavori per se stesso, ma tutti i nostri lavori tendano al bene comune e con maggior impegno e più fervida alacrità che se ciascuno li facesse per sé. Infatti la carità, di cui è scritto che non cerca il proprio tornaconto, va intesa nel senso che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Per cui vi accorgerete di aver tanto più progredito nella perfezione, quanto più avrete curato il bene comune, anteponendolo al vostro”. Il mezzo per vedere il Signore non è il ripiegarsi su se stessi, in un’analisi di tipo psicanalitico, ma il dono, l’amore, l’accoglienza. Possiamo allora comprendere che la condotta personale di Giovanni sia vissuta all’insegna dell’austerità: in questo modo egli diventa capace di fare strada ad uno che è Altro da sé e lo rende comprensibile, visibile ai fratelli. Solo così, nella sua persona si può capire il venire del Signore. Scrive S. Gregorio di Nazianzio: “Dopo la incerta luce del Precursore, viene la luce stessa, che è tutta fulgore. Dopo la voce, viene la Parola, dopo l’amico dello Sposo, viene lo Sposo steso”. C’è una ragione fortemente positiva nell’esigenza di sobrietà che il tempo di Avvento ci propone e ci raccomanda: non un risparmio fine a sé stesso, ma una scelta di vita che permetta di sparire di fronte al Signore che si manifesta al mondo, che cresce dentro le nostre vite. Preghiamo perché in questo Natale che celebriamo possiamo diventare anche noi, come Giovanni, voce che prepara la venuta del Figlio di Dio.
Nello scenario storico del vangelo di Matteo e in quello liturgico dell’Avvento appare la figura rigorosa di Giovanni Battista. Matteo lo descrive rapidamente nella sua austerità e ne riferisce l’esortazione alla conversione per “accogliere colui che viene dopo di me”, che “battezzerà in Spirito Santo”. L’esortazione riguarda i contemporanei che “accorrevano e si facevano battezzare” e riguarda i lettori del vangelo, perciò ogni credente in Gesù, perciò anche noi oggi. Facciamoci accompagnare in questo tempo di Avvento, dall’insegnamento e dall’esperienza di Agostino: è un dono per tutti noi. Nel libro settimo delle Confessioni racconta la sua conversione. Aveva ricevuto da Platone la convinzione che la felicità è in Dio e dice: “cercavo la via per godere di te”. Aveva capito che non basta sapere che la felicità è in Dio se non si fa in Lui la propria esperienza di felicità, che non sarebbe entrato nella felicità “finché non avrò abbracciato il mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù”, “finché umile non avrò abbracciato l’umile mio Dio Gesù”. Capisce che non può entrare da solo, poggiato sulla propria sicurezza intellettuale. Agostino, questo grande fratello nella fede, ci dona così il cuore dell’esperienza cristiana e ci fa capire che la felicità vera, quella che sazia il bisogno di pienezza del cuore dell’uomo, non è il termine di un percorso della ragione, ma la conseguenza del riconoscimento umile ed accogliente del Signore, custodito in cuore e ripensato nella mente. La capacità di riconoscere Dio viene dalla sua grazia che ravviva anche la mente perché la fede sia incontro tra dono di Dio che sta all’inizio e risposta personale dell’uomo: “Credi e capirai!”. La “carne”, il pensiero umano, non dona la purificazione, ma il Figlio di Dio che la ha presa con sé facendosi uomo e restando con gli uomini. Gesù è perciò la strada, la via universale aperta a tutti. Non conta innanzitutto la capacità di comprensione del mistero di Dio e neppure soltanto il comportamento. Ma la fede di Abramo che credette e ricevette la promessa e la benedizione. La coscienza universale dell’uomo porta in sé il desiderio di armonia e di bellezza che non passino, e nello stesso tempo il dramma di non essere in grado di distogliersi dall’attrattiva della futilità, dell’effimero, che è la proposta della mondanità. Agostino parla della sconfitta non solo della razionalità, ma anche dell’impegno religioso ed etico, come tutti noi sperimentiamo, come sperimentano in particolare i genitori con figli adolescenti, quando vogliamo proporre e difendere i cosiddetti valori. Sentiamo l’urgenza di una luce più forte e di un’attrattiva più efficace di quella data dall’effimero. Urgenza di incontro profondo con quella fede umile che non si scandalizzi dell’impoverimento di Dio nello sporcarsi i piedi con il fango della terra, della “bassezza” del Dio bambino, uomo, crocifisso. La preghiera eucaristica di Natale, nella sua introduzione, il “prefazio”, dirà: “attraverso le cose visibili”, cioè attraverso la bassezza di Dio nella umanità di Gesù, “siamo condotti all’amore delle cose invisibili”, quelle che non passano. Così si può sperimentare la libertà dalla schiavitù di quella razionalità esasperata che vorrebbe raggiungere Dio come esito del ragionamento umano, che è propria del dio minore dei filosofi. Agostino lo dice con l’espressione: “credi, perché tu possa comprendere”: accetta la fede e, dall’interno della fede, capirai! Nell’esperienza del riconoscere Gesù ti si farà chiaro che credere è ragionevole. E giungerai alla gioia di sperimentare sempre nuova e più profonda comprensione del mistero di Dio, in un’avventura di comunione con Lui che esalta l’intelligenza e fa della filosofia una teologia. Così vale anche l’altra espressione agostiniana: “intellige ut credas”, cioè pensa, rifletti, cerca di capire per credere sempre più pienamente. È la responsabilità della Chiesa, che oggi Benedetto XVI propone insistentemente, l’armonia fra ragione e fede. La chiarezza della mente che contempla assieme al cuore che ama è radice dell’inserimento nel vangelo vivo perché conduce a dire le parole, a compiere i gesti, a servire come Gesù ha fatto quale maestro e Signore, lavando i piedi ai suoi discepoli, prima dell’ultima Cena, come leggiamo nel vangelo di Giovanni al capitolo 13. Si può capire il messaggio di Giovanni Battista e la sua attualità: la sobrietà austera, il suo stile di vita prima ancora del suo parlare, la ruvidezza esigente del suo messaggio che invita alla conversione, dicono che occorre lasciar cadere quello che non vale, che non rimane, ma questo sarà possibile solo a patto di accogliere “colui che deve venire”. Sarà lui, Gesù, a colmare mente e cuore della gioia delle beatitudini, a convincere che il sogno di Isaia non è da relegare nello spazio delle utopie, ma da incarnare nella concretezza dell’amore scambievole, il suo comandamento. La liturgia dell’Avvento, con la parola forte di Giovanni, domanda ai credenti di uscire da un tradizionalismo piatto, dalla consuetudine insignificante. E domanda di preparare il cuore perché il Signore che viene prendendosi a cuore l’umanità, anche se miscredente come ognuno di noi si scopre, possa cambiarci la vita, uno ad uno, senza dipendere dal comportamento di chi ci circonda, facendoci certi che il cammino della fede non è un obbligo, ma il dono di Dio da accogliere con umiltà ed implorare nella preghiera. All’inizio del secondo millennio, quando l’Europa viveva un tempo d lotte e tensioni, Anselmo da Aosta scriveva: “Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti; che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti”