IV DOMENICA DI AVVENTO – Anno A
(Is 7,10-14; Sal.23 ; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24)
Nella liturgia di questa quarta Domenica di Avvento c’è quasi una fretta, la fretta di giungere alla contemplazione dell’evento della natività , per accogliere, per riflettere, per imparare, per sostare. È simile all’attesa della sposa verso lo sposo, perché la Chiesa è la sposa.
Forse era proprio questa contemplazione prolungata l’intenzione di Matteo, che aveva iniziato il suo Vangelo con la lunga teoria di generazioni – tre serie di quattordici persone – iniziando da Abramo fino a Giuseppe, “lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo”(1,16). Gesù viene per tutte le generazioni, tutta l’umanità è accolta nel mistero dell’Incarnazione. Matteo continua il sua Vangelo dicendo: “Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo”. Il racconto del susseguirsi delle generazioni non basta. Lo leggiamo la sera della Vigilia di Natale, prima della Messa di mezzanotte. Matteo dopo questa contemplazione grandiosa vuole soffermarsi a contemplare la vicenda intima e personale di due creature che si sono lasciate plasmare e trasformare da Qualcuno in cui credevano profondamente, da qualcosa che non avevano previsto.
Come due legni incrociati che accolgono il fuoco tra di loro e lo esprimono nell’unica fiamma, due giovani, Maria e Giuseppe, giovanissimi – secondo il costume ebraico la sposa aveva tra i 13 e i 14 anni, lo sposo tra i 18 e i 20 – rendendosi docili allo Spirito, permettono l’avverarsi dell’evento storico: “Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo”.Nelle parole del racconto si coglie un cammino forte di maturazione. Non facciamoci sgomentare dalla pazienza necessaria per crescere nella vita di fede. Lo abbiamo meditato con Luca l’otto dicembre per quanto riguarda Maria, abbiamo visto la sua fatica umana nell’accogliere la voce dell’angelo. Matteo ci evidenzia soprattutto il cammino di fede di Giuseppe. Dapprima la sorpresa: Maria “si trovò incinta”. Poi l’incertezza: Giuseppe “era giusto e non voleva ripudiarla”, non sa che cosa fare. La saggezza umana, vissuta nell’assunzione della propria responsabilità, lo spinge ad una decisione: “Decise di licenziarla in segreto”. È una preoccupazione piena di affetto: “Mentre pensava queste cose” turbato anche nel sonno, ma vigile nella fede, “ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse “Giuseppe, figlio di Davide, non temere … quel che è generato in lei viene dallo Spirito” ”. Ora a Giuseppe viene chiesta un’assunzione di responsabilità, l’amore paterno verso un figlio non generato da lui: “Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù”. È una maturazione nella fede che ha toni umani concreti, forse dolorosi. La decisione di Giuseppe è irrevocabile: egli compie il volere di Dio in tutto, fino in fondo: “Fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore”. Con Maria sperimenta la possibilità dell’impossibile.
Fa impressione il fatto che Matteo, parlando di Giuseppe e del suo compito di padre, di Maria – ripetutamente accostata al bambino come “sua madre”, in tutto il racconto dell’infanzia non ponga alcuna parola sulle loro labbra.
Sono obbedienti nella fede.
Obbedienti, ma non deboli.
Docili, ma pienamente responsabili.
Un unico compito, ma con due cammini distinti.
Il loro è un amore forte, che sa accettare la rinuncia al proprio progetto per consentire il realizzarsi di quello di Dio e così vivono in pienezza il loro matrimonio. È un amore maturo che sa accogliere nella propria persona, come sorgente di fecondità, lo stesso Spirito creatore, che nel primo libro della Genesi aleggiava sulle acque. Ora egli fa di Giuseppe e di Maria il giardino della nuova creazione: l’umanità di Gesù Cristo.
Questa strada di fede rende possibile quello che Isaia aveva detto: “Il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: “eccomi qui” ”(Is.52,6). Quel nome non era stato dato a Mosè, che lo aveva chiesto al Signore quando gli parlava dal roveto ardente. Gli erta stato risposto con il nome oscuro: “Io sono”. Ora nel figlio di Maria, nella carne del Bambino, è pronunciato pienamente, in modo visibile e concreto il nome preannunciato da Isaia: “Eccomi qui”! Il nome di Dio, quello che libera l’uomo dalla schiavitù della paura, della solitudine, è “Eccomi qui”. Come dice ancora Isaia: “Implorerai aiuto ed egli ti dirà: “Eccomi!” ” (Is.58,9). Allora quando io dico: ho paura … non ce la faccio … non capisco … nessuno mi vuol bene … egli dice: “Eccomi qui”.
Matteo, pur sobrio di parole, concluderà l’itinerario di fede dei Magi con l’identificazione del divino nell’umanità del Bambino: “Entrati nella casa, videro il Bambino con Maria sua madre e prostratisi lo adorarono” (Mt.2,11). Per capire la presenza del Signore, dobbiamo cercarlo nell’ “Eccomi qui” del volto dell’uomo. Questo è il Natale.
A Giuseppe e a Maria, alla loro tenerezza di sposi, tutta fondata in Dio, domandiamo la grazia di saper ascoltare quello che lui ci vuol dire negli avvenimenti della vita, di saper comprendere il senso di quello che accade intorno a noi, di cercare il volere suo nelle scelte che compiamo. Domandiamo che ci sia data la certezza che Dio fa sentire la sua voce, anche nel nostro tempo, nella penombra del “pensiero debole”, e che affida la realizzazione dei suoi desideri alla nostra responsabilità. Chiediamo di essere liberati dalla paura che ci fa tirare indietro. Non ci lasciamo turbare dai tempi lunghi. Trasformiamo l’oscurità in luce, i momenti bui in occasione di abbandono nelle mani del Signore.
Così sperimenteremo la grazia di cui parla Paolo ai Romani: essere portatori del Vangelo, testimoni della venuta del Signore, della sua presenza tra noi.
Il racconto che Matteo fa della chiamata di Giuseppe è l’ultimo passo del Vangelo proposto alla nostra meditazione prima del Natale e ci dice che significa per un credente avere fiducia nel Signore. Esso si avvicina allo schema letterario che la Bibbia utilizza per le chiamate a compiti particolari o a vivere avvenimenti significativi per l’azione di Dio nella storia.
Così, mentre ci mostra l’avveramento storico della profezia di Isaia nella nascita di Gesù dalla vergine Maria, Matteo ci presenta l’esperienza di fede di Giuseppe, con segni chiari che danno certezza a chi viene chiamato. Non sono tanto i particolari che contano, perchè appartengono a quel genere letterario; conta invece la consapevolezza profonda dell’azione di Dio e l’adesione concreta ad essa. Matteo fa intuire il cammino di Giuseppe verso la disponibilità senza riserve, invitando a rispettare il silenzio, tipico della sua personalità, espressione della sua fede e della sua santità.
Giuseppe è un giovane uomo reale, non visionario; un giusto a cui Dio fa dono della rivelazione di sé, come agli antichi patriarchi. Ma questo non lo esime da una crisi, dall’incertezza e dalla solitudine nel superarla, mentre gli viene chiesto di comportarsi da giusto. “Giusto” nella Bibbia è l’uomo pio, timorato di Dio. I Salmi lo presentano come il credente, colui che sa vedere la presenza e l’amore di Dio anche negli avvenimenti più inspiegabili della storia personale e sociale, restando alla sua presenza nel silenzio dell’essere creatura, nell’accoglienza umile e cordiale.
“Il più alto raggiungimento nella fede è rimanere in silenzio e far sì che Dio parli ed operi internamente”.
Così scriveva alla fine del 1200 Maestro Eckhart.
La giustizia spinge Giuseppe a non condannare Maria, ma a cercare con lei la strada del compimento giusto. Ed è bello pensare alla comunione profonda di questi due ragazzi che si vogliono bene. Di lei Luca dice il “turbamento”, di lui Matteo dice il dolore così grande da pensare di “licenziarla”. Il Signore entra in questo rapporto di amore fra Giuseppe e Maria e interviene ancora una volta:
“ecco gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo” ”
L’intervento del Signore li libera dallo sgomento e li fa capaci di libertà per assumere il compito. Due silenzi si donano per amore, si incontrano. E lì Dio opera, l’annuncio che rende possibile l’impossibile è fatto alla coppia, al giusto e alla vergine che si vogliono bene. Penso a tante coppie che sono nel dubbio: quanto sarebbe importante che imparassero il vangelo della comunione nella fatica e nella sofferenza, quando si cercano le vie della verità e del bene. Mettere insieme, per amore, i turbamenti che una falsa concezione dell’amore vorrebbe indurre nel silenzio, è via alla verità più grande. La certezza che il bambino viene dallo Spirito Santo diventa fonte di sicurezza interiore per Maria e Giuseppe e responsabilità nel vivere:
“Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa”
È un atto di fede in Dio che opera quello che annuncia, non è l’esito innanzitutto di una ricerca scientifica o di opportunità.
Vengono in mente i momenti di alleanza al Sinai o a Sichem, quando a Mosè prima e poi a Giosuè il popolo giurò di mantenersi fedele all’Alleanza.
Si ha l’impressione che Matteo, con attualità quasi sconcertante, inviti ad una fede seria, radicata nella sottomissione a Dio di cui si è certi che è l’Amore e disposti a vivere con fiducia i passaggi oscuri del turbamento e dell’incertezza. La pretesa, anche se sostenuta da atteggiamenti religiosi, di sfuggire a questi passaggi, toglie contenuto ala fede, perché non ascolta la parola di Dio e punta solo alla realizzazione del programma umano. Non accorgersi, con fede seria, del Signore che viene, trasforma il Natale in favola per i bambini.
Matteo ci condurrà, con il suo linguaggio aspro, all’esigenza di una fede “asciutta”, che accetta il rischio dell’incomprensione e della solitudine, che si assoggetta alla fatica di leggere la realtà alla luce dell’Incarnazione, che è disposta a pagare di persona piuttosto che tradire la verità di Dio, che sceglie di seguire le sue esigenze senza atteggiamenti di superiorità e senza pretese verso chi pensa diversamente. Nell’attesa di Dio che viene.
Tommaso da Celano, biografo di Francesco di Assisi, riferisce che, nel preparare il presepe nella grotta di Greccio, il santo aveva detto all’amico messer Giovanni, che lo aiutava: “Vorrei vedere il Bambino con i miei occhi corporali, come fu deposto in una mangiatoia e dormire sulla paglia, tra un bue e un asino” (1 Cel. 30,84).
Il santo voleva che i cristiani, a Natale, nel presepe contemplato non fossero preda della religione della carne, delle emozioni e delle canzoncine, ma andassero alla parola austera di Isaia, voce del lamento di Dio per la lontananza del popolo:
“Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone. Israele invece non comprende, il mio popolo non ha senno” (Is.1,3)
Voce che parla dell’amore e della giustizia di Dio.
Tutti siamo interpellati.
“Così fu generato Gesù Cristo”
La concretezza tipica del linguaggio di Matteo ci mette dinanzi il venire nel mondo del Figlio di Dio come dono purissimo dell’amore del Padre, amore che si svela più grande di quanto possa venire dall’umanità, sia positivo che negativo, del merito o del peccato. È importante sentire l’evento come grazia, per evitare l’illusione di non avere bisogno di redenzione, di potersi salvare da solo, “naturalmente”, per propria iniziativa. La nascita di Gesù non è il punto finale di una discendenza umana, neppure l’appagamento dovuto del desiderio di quanti sono coscienti dell’incapacità di autoliberazione e perciò portatori di una attesa sempre crescente. Nella graduale rivelazione di sé, di cui l’Antico Testamento è testimonianza, accompagnando i passi dei padri, Dio prepara una strada nella storia umana, particolarmente di un popolo, come Matteo scrive nella genealogia. Ma la nascita di Gesù dice sorprendentemente che egli è il Figlio donato dal Padre per amore del mondo, perciò opera solo di Lui. Alla nostra mentalità diffidente e persino dissenziente è proposta, nel racconto della nascita, la sfida della fede.
Fede di Maria, nell’accettazione umile del mistero per cui il progetto si fa storia in lei. E questo sta accadendo nella sua persona, al di là di ogni possibilità di essere all’altezza di quello che accade. La sua verginità non è disprezzo per la coniugalità, ma segno dell’appartenenza piena alla potenza infinita della grazia che lo Spirito le dona. È questa fede la “pienezza dei tempi”, è “pienezza dello Spirito”, che si incontra con il consenso umano all’agire sorprendente di Dio. Fede di Giuseppe, che Matteo presenta non come figura scialba, senza personalità. Perciò appare pensieroso: lui, lo sposo sicuro di Maria, eppure turbato fino al pensiero di rimandarla a motivo di quello che avveniva in lei. Forse avrebbe voluto uscire da una vicenda che avvertiva più grande di lui, farlo nel rispetto della creatura che amava, che aveva pensato come la madre dei suoi figli. Fino all’intervento della parola: “Non temere … il bambino generato in lei viene dallo Spirito Santo”. Deve oltrepassare l’oscurità della fede, che gli procura timore nel decidere e che solo nell’obbedienza matura fino all’assunzione piena della responsabilità: dire il nome Gesù e vivere il compito di custode e di educatore.
“Fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore”. Così dice il suo “sì” analogo a quello di Maria. Vuol dire che ha creduto, che si è affidato alla Parola di Dio, che ha accettato l‘impensata e più alta forma di paternità. Questo è il motivo profondo per cui Matteo lo dice “giusto”, come è giusto Abramo che si era esposto, nella rinuncia ad ogni rassicurazione personale, ad una vicenda che Dio man mano gli manifestava. Così sono tutti i giusti che, con l’offerta del loro assenso e della loro libertà, diventano i “luoghi” dove si attua e si svolge il disegno divino, sempre infinitamente distante dalle aspettative dell’uomo.
Giuseppe ci è maestro, in questi giorni di Avvento, avvertendoci che Gesù nasce là dove c’è l’obbedienza consapevole e rischiosa della fede, dove la vita va oltre le nostre misure, a patto che la lasciamo germogliare in noi. L’uomo che sa veramente obbedire, fa diventare vita la Parola ascoltata: “Prese con sé la sua sposa”. Diventare docili al “Dio con noi” significa vivere prendendo con sé, facendosi carico delle persone che sono affidate alla propria responsabilità, come Giuseppe mostrerà nell’episodio successivo della fuga in Egitto con il piccolo Gesù e la fragile Maria.
Sono giorni particolarmente difficili e amari quelli di questo Natale. Il vescovo, nell’iniziativa del giubileo di preghiera, di penitenza, di sforzo condiviso per il bene comune della nostra terra, ci dice che: “i primi ad essere chiamati in causa sono i credenti in Cristo … Se il vangelo non è riuscito a spiegare, in ogni angolo del nostro territorio, tutta la forza salvifica delle sue pagine, le responsabilità vanno prima di tutto cercate nei nostri limiti, nella nostra incapacità di farci missionari. … La fede, infatti, non può risolversi in un atteggiamento intimistico: chi la vive chiuso in se stesso, pur in cerca della propria perfezione, ha distolto, senza rendersene conto, lo sguardo da Gesù che ci invita ad una storia di fratelli e sorelle che si adoperano per il bene comune” (lettera pastorale 8-12-2010).
Domandiamo nella preghiera che il Natale accaduto nella storia per la fede concreta di Maria e Giuseppe, possa rinnovarsi nel presente che siamo chiamati a vivere, con speranza e con disponibilità, senza distogliere lo sguardo da Gesù.
La maniera in cui Matteo parla della nascita di Gesù è semplice e asciutta nell’uso dei vocaboli e nella descrizione dei particolari che, invece, nel vangelo di Luca sono abbondanti. Matteo preferisce mettere in luce la figura di Giuseppe, presentato nella genealogia come “lo sposo di Maria” (Mt,1,16), legato a lei dal fidanzamento “ufficiale”, che era l’impegno legale dell’appartenenza reciproca dei giovani ebrei che decidevano di sposarsi, già prima di iniziare la convivenza, e poteva venire interrotto solo attraverso il ripudio della donna da parte dell’uomo. Durante questo tempo, Maria “si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”.
Matteo non descrive la reazione di Giuseppe, i suoi dubbi, le sue preoccupazioni, le ansie, la sua pena cocente per la donna che amava e aveva scelto per sposa. Dice solo che, nella angosciosa impossibilità di comprendere il mistero nascosto in quello che stava accadendo, meditava di ripudiare Maria, discretamente, per non farle del male, perché le voleva bene e il bene non fa mai del male: “poiché era giusto”. Giusto, nella Bibbia, è l’uomo che cerca Dio ed ordina la propria vita secondo la sua volontà e, per conseguenza, è buono e saggio, retto nella coscienza nell’obbedienza alla legge e nella maturità umana. È l’uomo ideale alla luce del Vecchio Testamento, perciò la Scrittura lo presenta come ornato di lineamenti nobili e di bellezza, costruttore di armonia e di pace, gradito a Dio e al popolo.
“Giuseppe, figlio di Davide”. Il Signore gli viene in aiuto agganciando quello che avviene nel suo presente a quello che, circa mille anni prima, Natan il profeta aveva annunciato a Davide per la sua discendenza; che “la tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre” (2Sam.7,16). “Figlio di Davide”. Dio chiede a Giuseppe di consentire al proprio progetto di dare compimento alla promessa antica, perché questo è il momento dell’avveramento di essa e a lui, Giuseppe, viene domandato di essere l’ultimo anello della catena generazionale che Dio stesso ha voluto e guidato per arrivare a Gesù che è il “Figlio di Davide” in assoluto; dopo di lui nessuno sarà più chiamato così.
Giuseppe comincia a comprendere che, accogliendo la parola dell’angelo, da figlio di Davide permetterà il compimento dell’incarnazione. E Matteo, nell’ultimo versetto dice che egli lo ha fatto: “Fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore”. Ricevuto e accolto il messaggio, in obbedienza e semplicità, introduce Maria in casa, certo che quanto le accade non ha origine terrena. Così entra nel mistero dell’incarnazione, azione di Dio nella propria persona a cui è affidato il nome e la responsabilità del Figlio eterno che viene tra gli uomini. A noi consegna quello che dobbiamo contemplare con lui, la Vergine scelta direttamente dal Signore, resa madre e immersa nel suo Spirito.
“Darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù”.
La profezia antica si fa storia contemporanea, Gesù nasce per manifestare all’umanità di ogni tempo che Dio la ama, non con promesse vaghe, ma a fatti, con il dono del Figlio, come aveva detto: “ Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni … perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo… Non temere, perché io sono con te” (Is.43,1.4a.5). Giuseppe lo crede, crede che il Bambino è “Dio con noi”, la presenza di Dio tra gli uomini. Questa non si attua più in un’istituzione, in un luogo, in un casato privilegiato, ma in un uomo la cui natura è di essere, come mai prima, Dio con gli uomini.
“Tutto ciò è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore”.
Giuseppe ci è maestro e modello in questo “compiere” l’opera di Dio nei cuori dei singoli e nella comunità umana.
Possiamo provare in questi giorni ad interrogarci alla luce della sua giustizia, sulla nostra personale rettitudine di coscienza, sul rispetto che ci deve animare davanti alla rettitudine di quanti sono in relazione con noi, sull’umiltà del pensiero senza pregiudizi e condanne superficiali, sulla generosità del cuore nell’amore concreto per i fratelli. Gli atteggiamenti che abbiamo intuito in Giuseppe ci vengono incontro perché, senza presunzione e senza illusioni, possano essere condivisi nel consenso sincero.
“Senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio, ed egli lo chiamò Gesù” (Mt.1,25)
Oggi apriamo il cuore con riconoscenza a questo fratello nell’umanità e nella fede.