NATALE DEL SIGNORE – Anno A
(Is 52,7-10; Sal.97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18)
“Chiamiamo Natale del Signore il giorno in cui la sapienza di Dio si manifestò in un bambino.
E il verbo di Dio che si esprime senza parole. Emise vagiti umani” (Agostino discorso 185)
La liturgia di questa giornata, fin dalle origini, comprende tre celebrazioni eucaristiche. È cominciata stanotte e il Vangelo di Luca – nella messa della notte e in quella del mattino – ci ha dato la descrizione puntuale dell’ evento con indicazioni precise del tempo storico e del luogo. Egli ha riferito l’annuncio dall’alto, perché l’evento potesse essere riconosciuto, ha riferito l’accoglienza dei pastori che sono diventati i primi testimoni. Ora, con la messa “del giorno”, il prologo del Vangelo di Giovanni ci invita alla meditazione del mistero dell’Incarnazione.
Le parole sull’origine divina del Verbo non sono fine a se stesse, non sono l’illustrazione di un pensiero teologico, ma sono parole cariche di vita e ci permettono di capire Gesù nel suo ruolo di rivelatore di Dio. Il centro del prologo è l’affermazione del versetto 14: “La Parola è diventata carne” (Gv.1,14). La Parola, il Verbo, può farsi narrazione di Dio, perché – come ci dice il versetto 1 – esso era da sempre “rivolto verso il Padre”. Alla fine del Vangelo di Giovanni, Gesù dirà: “Le cose che io dico, le dico come il Padre le ha dette a me” (Gv.12,50b). Dall’eternità il Padre comunica al Figlio – sempre rivolto verso di lui – ciò che egli è. Divenuto carne, cioè vita umana, il Figlio riflette il Padre in maniera visibile e intelligibile, dai vagiti della nascita fino al grido di solitudine e di dolore sulla croce.
La rivelazione che ci viene donata nell’evento dell’Incarnazione ci fa capire che il gesto dell’amore di Dio non è unicamente, come troppe volte è stato ripetuto, azione riparatrice di Dio a motivo del peccato compiuto dall’uomo. Contemplandone il mistero la Chiesa ha capito che, dall’eternità, in Dio c’è la propensione di comunicare se stesso in totale gratuità, di creare, senza nulla attendere. Natale rivela e opera uno scambio tra la vita di Dio e quella dell’uomo. Il Bambino è Dio che condivide la precarietà della condizione umana e questo sarà il suo dirsi costante, sarà la rivelazione del desiderio divino di comunicare se stesso, di manifestarsi nella condivisione, lungo tutto il corso della vita di Gesù, che culmina nella morte sulla croce. “Questo per voi il segno – dice l’angelo ai pastori – troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”: (Lc.2,12). Non è solo il segno del Bambino, ma quello della condivisione totale della condizione umana. Alla fine del Vangelo di Marco il centurione romano ai piedi della croce potrà dire: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc.15.29), nel vedere il modo tragicamente umano con cui Gesù condivideva con noi la morte. La rivelazione di Dio avviene al di dentro della vita umana, carica di precarietà e di angoscia, sottoposta ai condizionamenti, alle strumentalizzazioni, alla violenza. La nostra è una vita che ci appare sconvolta da avvenimenti più grandi della capacità di affrontarli, distorta da realtà che non affondano le proprie radici nell’eternità dell’amore divino e generano sofferenza. Ma Dio ha voluto abitare proprio dentro questa vita povera e la feconda, facendo scaturire, come una timida sorgente, la vita divina, che apre l’uomo all’infinito. Come dice Ireneo, portando Dio all’uomo, Gesù porta l’uomo a Dio. L’Incarnazione opera questo approfondimento della consuetudine fra Dio e l’uomo.
Gesù Cristo: “In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col.2,9), ci dice Paolo. Essa ha abitato il ventre fecondo di Maria, si è mescolato totalmente alla carne umana, tanto che non dobbiamo fermarci alla tenerezza che ci spinge a baciare il corpo del Bambino, sarebbe come tradirlo. Dobbiamo invece maturare la coscienza di appartenere al corpo piagato del Crocefisso, alimentare la consuetudine di appartenere anche alla carne del Risorto.Questa confidenza con la corporeità di Cristo ci è resa possibile dall’Eucaristia: essa ci dona lo Spirito che permette di appartenere profondamente a quel corpo. Nell’unità con lui diveniamo nella creazione come magma incandescente che anima la crosta oppressiva della storia, ne perforiamo la pesantezza, che sembra schiacciarci con la sua oscurità.
Ma bisogna credere a Lui, “Il Verbo uscito dal silenzio”, come dice Ignazio di Antiochia. Gesù è la Parola, l’unica, che ha in sé tutto il senso della realtà. Bisogna riflettere sulla barriera che si pone tra il silenzio eterno e le parole che noi diciamo, molte, troppe. Barriera che impedisce alle parole di essere pronunciate secondo un senso vero. In questo nostro tempo convulso dobbiamo dirci che quanto più si moltiplicano le parole senza radici, tanto più l’incontinenza del linguaggio ostacola il senso finale del desiderio di Dio di comunicare se stesso alle creature. Quanto più le parole si radicano nel “Verbo uscito dal silenzio”, tanto più la diversità dei linguaggi confluisce nell’unità. Dovremmo, nel travaglio del nostro tempo chiederci di pensare e di pronunciare parole radicate in Gesù, nel Vangelo, pensiero eterno che si fa storia, parole che gettano ponti e costruiscono strade. Anche questo è Natale.
Sullo sfondo vediamo Maria:
“Ora la Vergine è più vasta dei cieli.
Madre di Dio e Vergine … tu diventi la Madre
della tenerezza del Padre
portando nel tuo seno Dio, il Verbo incarnato.
Colui che è dal Padre prima dei secoli, senza madre,
per noi da te è venuto, senza padre”
“In principio era il Verbo, e il Verbo era verso Dio e il Verbo era Dio”
“… tutto fu per Lui, e senza di Lui niente fu”
La vita divina è attenzione di amore: rivolgiamoci al Signore, diciamogli che senza di Lui poche cose hanno valore nella vita, nulla ha senso.
Il “principio” che annuncia il prologo del Vangelo di Giovanni non si riferisce al momento iniziale della creazione, come nel racconto della Genesi, ma parla di un prologo che affonda nell’eternità, che si può intravedere perchè c’è questa realtà che celebriamo oggi con gioia e riconoscenza. Gesù, il Figlio eterno della Trinità, sempre rivolto verso il Padre, nascendo da Maria Vergine come uomo, all’uomo filosofo che ritiene Dio irraggiungibile per la trascendenza, al credente intimorito dalla sua santità eccelsa, manifesta un Dio che si apre, che vive una tensione amante, non dell’amore che tende a possedere l’amato, ma di quello che fa vivere l’amato. Perciò il Dio di Gesù, l’ “Abbà” il Padre tenero, è “la luce degli uomini”. È la verità, quella che rimane nel tempo e che troveremo in pienezza nell’eternità:
“La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”
Se si vuol capire il significato della celebrazione del Natale, bisogna guardare Gesù risorto e vivente per sempre. Lì si capisce che cosa vuol dire Giovanni affermando che “le tenebre non hanno vinto”: la luce è più forte delle tenebre, l’amore più forte dell’odio, la vita della morte. Ma proprio perchè è amore, tutto amore, Dio non si manifesta con la potenza dei tiranni o con la forza spaventosa dei tifoni. Dio è certamente intuibile nel cosmo, dove però potrebbe divenire oggetto di idolatria. È presente nella legge morale, che potrebbe apparire fredda e implacabile, e suscitare ribellione.
Il Natale ci dice che Dio prepara con infinita pazienza, nel corso della storia, l’esistenza di una giovane donna che, con la sua disponibilità, gli permetterà di manifestarsi alla sua creazione come “il vicino”, “l’Emmanuele”, il “Dio con noi”, “il Verbo si è fatto carne”. È un Dio impensabile, che sceglie il linguaggio del vuoto venendo in un mondo dove impera il linguaggio del pieno, che fa luce a quanti inseguono il sogno dell’autosufficienza. Dirà s. Paolo:
“Cristo Gesù … non considerò tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio
ma spogliò se stesso
assumendo la condizione di servo…”
(Fil.2,6)
Non possiamo capire il senso del Natale con il solo prologo di Giovanni, ma – legando le due pagine in un’unica contemplazione, che include l’origine altissima e le pieghe concrete del vivere – dobbiamo mettergli al fianco il racconto di Luca, che non si ferma all’annuncio dell’amore di Dio in se stesso – che potrebbe apparire astratto all’uomo sovente incapace di silenzio, di adorazione, all’uomo provato dalla sofferenza – ma lo presenta nella concretezza di Maria.
In lei Dio è diventato un bambino, bisognoso di una madre. La sua prima voce è un vagito, il suo primo gesto è tendere le mani per domandare di aggrapparsi. Il bambino come segno della condizione di creaturalità. Dio si è fatto bambino e il bambino è un essere che dipende.
Così il Natale insegna che Dio, autore della vita, ci dice che la vita cresce in pienezza quando va oltre il mito dell’autonomia personale, ritenuta inviolabile. Il rifiuto di quella luce si traduce in paralisi della vita e genera il rifiuto del Bambino e di tutte le debolezze, fino a diventare chiusura al povero, al piccolo, all’extracomunitario, al malato …
Nella preghiera vostra e mia meditiamo su tutti i “rifiuti” che affollano il nostro tempo – i minatori che muoiono nelle miniere, gli operai a Torino (perchè in Italia si muore ancora per mancanza di sicurezza sul lavoro), i neonati gettati nella spazzatura – meditiamo su tante notizie che ascoltiamo con cinismo dai telegiornali.
Accogliere il Bambino vuol dire rivedere il nostro rapporto con la vita.
L’uomo che viene rivelato in Gesù non è separato da niente, da nessuno. Facendo del pane il suo corpo e del vino il suo sangue, Gesù dice che tutto quello che succede a lui succede a noi. E reciprocamente. Quando sulla croce grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” e, quasi simultaneamente, “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, la luce della vita riempie l’abisso che si era scavato tra il divino e l’umano. Nella raffigurazione della Natività delle antiche icone il giaciglio su cui riposano Maria e il Bambino è nero: viene indicato così che Dio nascendo è disceso all’inferno, l’inferno che è in ogni uomo quando pensa solo al proprio interesse, sia pure spirituale. E in Cristo l’uomo trova la sua vocazione di “creatore creato”, come dice la teologia orientale, chiamato a trasformare le tenebre della storia in luce di resurrezione.
Perciò, come hanno fatto i cristiani dei primi secoli, celebrando il Natale siamo chiamati a pensare alla vita nuova, guardando il Bambino a pensare al Risorto. Il Signore, dalla mangiatoia alla croce, lava il volto della Chiesa e di ogni uomo perchè diventino il volto della sua sposa.
Per lungo tempo il cristianesimo si è pensato come società perfetta, assumendo atteggiamenti di intolleranza e di chiusura. Ora sa meglio di essere sempre più povero e tuttavia testimone della divino-umanità di Gesù Cristo, in cui si possono unire tutte le rivelazioni del divino e tutte le esperienze dell’umano, “senza confusione nè separazione”
“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre
pieno di grazia e di verità”
Contemplando nella memoria e nella preghiera della comunità, come in una sintesi, l’incarnazione della Parola di Dio, i primi discepoli di Gesù mettono in parallelo quello che era dal “principio” e quello che accade, l’eternità e la storia, il da sempre e l’oggi: era Dio e si “fa” carne, prima “era” e qui “si fa”; prima era “presso Dio” e qui pone la sua tenda, viene ad abitare in mezzo a noi.
Quando è stato scritto il quarto vangelo, l’espressione “il Verbo si fece carne” suscitava reazioni negative negli ebrei assertori gelosi dell’onnipotenza divina e decisi negatori di una qualche debolezza e fragilità; per i pagani uno scandalo un’umanità che avesse in sé la divinità. Ma, contro tutto, il Vangelo afferma che la Parola, in un momento storico preciso, si è fatta uomo, debole come ogni creatura, nascendo da Maria, una donna giovane e sconosciuta.
È questo l’annuncio da accogliere e custodire nella fede.
Il Verbo non si limita a discendere sulla persona di Gesù, ma diventa carne, si fa creatura umana, quella che ha creato nel principio del cosmo, abitando con essa stabilmente. Così ogni uomo è “carne di Dio”, come dice papa Francesco.
Se, nell’Antico Testamento, il luogo privilegiato della presenza di Dio era il tempio, ora è nella vita stessa dell’uomo e nella carne visibile di Gesù che è quella comune ad ogni uomo, quella carne che la prima comunità ha conosciuto da vicino ed ha toccato (1Gv.1,1-4).
I primi discepoli hanno contemplato nella fede il mistero di Gesù, Parola del Dio vivente, la gloria del Figlio che “viene” dal Padre, pieno di grazia e di verità. Questo significa che Gesù, nella sua carne, è la rivelazione di chi è Dio, quale è la sua vita “dal principio” quale il suo comunicare con l’uomo.
Perciò la fede è il dono prezioso che riceviamo nell’accoglienza di Gesù, il Verbo concretamente fatto carne, visibile e riconoscibile da quanti lo incontrano. Senza di lui non c’è Dio. In questa certezza siamo invitati a lasciarci avvolgere dalla gioiosa atmosfera di accoglienza, carica di riconoscenza, che permea la liturgia di questo giorno di Natale, nelle celebrazioni di stanotte, dell’aurora, del pomeriggio di oggi. A cominciare dal guardare a Maria che Luca ci ha messo in cuore stanotte, mentre vede “compiersi” i giorni del parto, nel moltiplicarsi delle circostanze avverse, “perché per loro non c’era posto nell’alloggio”(Lc.2,7). È come un invito a riflettere che Gesù, fin dall’inizio, non appartiene al mondo importante e potente agli occhi dell’opinione condivisa e vincente. E questo fa parte, in ogni tempo, dell’essere cristiani, discepoli sinceri di Lui, l’esigenza, cioè, di non soggiacere alla mentalità corrente.
Senza sentimentalismi, possiamo immaginare con quale amore Maria abbia vissuto questa sua ora, con quale tenerezza abbia avvolto il Bambino nelle fasce perché lo proteggessero dal freddo della notte e come, per una visione profetica, lo abbia deposto nella mangiatoia, quasi rimandando con il suo gesto – dice Agostino – a quello che significa “mangiatoia”, il luogo e quanto sorregge e nutre. Perciò nelle icone dei fratelli di oriente la mangiatoia è l’altare dell’Eucarestia dove è deposto il pane della vita vera, quella eterna. E, infine, con quale cuore materno abbia dato Gesù tra le braccia della gente semplice che è stata sensibile al richiamo di Betlemme e va ad adorare il Salvatore.
I pastori sono i primi uomini del “compimento” di Dio, dopo Maria e Giuseppe, i primi tra “quanti lo hanno accolto”, ai quali è dato “il potere di diventare figli di Dio”.
Con l’augurio di partecipare all’adorazione, alla lode e alla gioia di quanti “lo hanno accolto”.