BATTESIMO DEL SIGNORE – Anno A
(Is 42,1-4.6-7; Sal.28; At 10,34-38; Mt 3,13-17)
Per la comunità cristiana il battesimo è un momento importante, decisivo, nella vita di Gesù, è un momento di svolta, di orientamento forte in senso vocazionale, a cui egli giunge dopo un lungo periodo di meditazione a Nazaret, guidato dallo Spirito Santo, nel colloquio quotidiano con Maria, nella comprensione del piano del Padre. La sua maturazione lo porta a volere quello che vuole Dio, tanto da viverlo in gesti concreti, pubblici. Invita quelli che incontra a fare altrettanto, invita ciascuno di noi così come invita Giovanni al noi della condivisione: “Conviene che così adempiamo ogni giustizia”. In tal modo lo coinvolge. Sentiamoci chiamati tutti al noi del progetto della condivisione con Gesù.
Accomunandosi alla gente che avverte il richiamo di Giovanni alla penitenza, mescolandosi con chi si dice pubblicamente peccatore, Gesù compie una scelta che varrà per tutta la sua vita, una scelta di campo con i bisognosi di misericordia. Il battesimo di Giovanni – lo sappiamo bene – è altro dal nostro Battesimo, operato dalla Resurrezione del Signore. È un battesimo di penitenza. Scegliendolo Gesù annuncia che egli è il Dio dei peccatori, uno come loro. È la stessa ragione che lo spingerà a sedere alla tavola dei disonesti (Mt.9,9-12), a rifiutare di condannare l’adultera (Gv.8,1-11), ad affermare di essere venuto per salvare ciò che era perduto (Mt.18.11). Fino al Golgota, dove condividerà la morte dei malfattori, crocefisso accanto a loro. Fino al compimento pieno della Resurrezione. Questo compimento ha il suo inizio profetico nella scena del Giordano, con l’immersione, immagine della morte, e la riemersione, immagine della Resurrezione. Matteo sottolinea il compiacimento e la conferma del Padre, di fronte al gesto del Figlio, dicendo, che appena fu battezzato: “Ecco, si aprirono i cieli…”. Il divino irrompe sulla persona di Gesù, si ode la voce dal cielo, lo Spirito si fa visibile.
Il Figlio amato, nel quale il Padre trova il suo compiacimento, è il “Servo di Jahvè” annunciato da Isaia, nel capitolo 42:
“Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio.
Ho posto il mio spirito su di lui, egli porterà il diritto alle nazioni”.
Diritto, nella Bibbia, è la stessa santità di Dio. Per portarla agli uomini, Gesù darà tutta la sua vita, sceglierà quello che Dio gli propone. Di qui in avanti, come dopo l’attraversamento di una soglia, con la meditazione personale, non farà altro che attuare il gesto posto con il battesimo di Giovanni, nello stile del Servo, annunciato da Isaia. Attraverso il rapporto discreto con le persone, il rispetto e la fiducia in ciascuno, al di là della situazione fisica o morale in cui si trovi, persegue la regola della mitezza ad ogni costo, senza arrendersi mai. In lui comprendiamo come la mitezza sia tutt’altra cosa dall’arrendevolezza, dalla rinuncia al bene, all’ideale. La mitezza è in Gesù il metodo di cui il Padre si compiacerà, riconoscendolo Figlio nella Resurrezione. E questo sarà il metodo, che consegnerà ai discepoli perché il Vangelo giunga a riempire la terra : “Beati i miti perché erediteranno la terra” (Mt.5,5). “Andate, ammaestrate tutte le nazioni, insegnando loro ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato” (Mt.28, 19-20). A noi è consegnata questa mitezza.
La Chiesa, da sempre, guarda all’episodio del battesimo come rivelatore dell’identità di Gesù e come luce per quella del discepolo. Gesù si propone come il tu a cui l’uomo si può aggrappare, come il fratello su cui contare, come la risposta di Dio al di là delle parole dei filosofi. Egli non dà definizioni della condizione umana, non toglie le sue contraddizioni tragiche, la sua sofferenza, ma ne ha pietà e la condivide, vince la morte con un atto di amore infinitamente più grande della morte. Guardando a lui capiamo che noi, battezzati in lui, siamo chiamati a prolungare nel tempo e nello spazio questo atto di amore.
Così le iniziative di solidarietà e di dedizione – di fronte alla violenza della natura e alla fragilità umana, drammaticamente associate – assumono il carattere teologico di rivelazione dell’amore di Dio, che condivide la sofferenza dell’umanità, superando infinitamente il carattere sociologico, divenendo fonte di speranza.
La drammaticità di questi giorni ci ripete ancora una volta che il mondo della natura e degli uomini, il mondo dei singoli e dei popoli non basta a se stesso: ha bisogno di un Dio che non lo abbandoni mai, di una presenza amica e forte che ci soccorra nella vita, quando essa sembra perdersi.
È il Gesù del battesimo al Giordano.
“Accorrevano a lui da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalla zona adiacente al Giordano; e, confessando i loro peccati, si facevano battezzare da lui”
(Mt.3,5-6)
Con queste parole Matteo presenta il ministero di Giovanni Battista, il suo invito alla penitenza, che faceva crescere l’esigenza di una vita rinnovata. E, subito dopo, in mezzo a questa folla grigia e penitente, Matteo annuncia l’arrivo di Gesù, e la sua domanda di ricevere il battesimo. Giovanni aveva annunciato ai discepoli l’arrivo di Gesù, Zaccaria ed Elisabetta sapevano della sua nascita – forse non della sua divinità. Il suo atteggiamento ora sconcerta chi ha intuito qualcosa di Lui, ne ha parlato agli amici: come può Gesù mescolarsi alla folla, accusarsi di peccato e desiderare una vita rinnovata? Da qui la resistenza di Giovanni, che solo la parola ferma di Gesù sul “compimento” riesce a superare.
Nel pensiero e nella spiritualità dell’Antico Testamento – lo abbiamo meditato insieme più volte – giustizia e compimento della volontà di Dio sono sinonimi e qualificano la vita di fede. È quello che Gesù domanderà al Padre nella preghiera personale, insegnerà nel Padre Nostro, vivrà nell’angoscia dell’agonia al Getsemani e dell’abbandono sulla croce. Il suo dialogo con il Padre sarà centrato sull’adempimento della giustizia, cioè sul superamento del peccato e sull’impegno per la vita rinnovata. Scendere nel Giordano, perciò, è calarsi nell’abisso, nell’inferno della negatività umana. Lo mostrano efficacemente le icone della Chiesa orientale dove, nella raffigurazione del battesimo di Gesù, l’acqua del fiume è di un nero scurissimo, come un sepolcro liquido. Gesù entra in questo abisso, lo prende su di sé, accettando di morire per i peccati dell’umanità. Perciò, quando parlerà del battesimo, Gesù vorrà indicare la morte (Lc.12,50) e la resurrezione, frutto dell’amore che lo induce a prendere il posto dei peccatori (Gv.12,25-28).
Così Gesù rivela la giustizia di Dio, che è fedele nell’infedeltà dell’uomo, fedele al suo sì all’uomo pronunciato nel momento della creazione. Dio continua a seguire l’uomo, nonostante i suoi no, fino a sacrificarsi per lui. È qui il cuore della dottrina cristiana: Dio non è mai complice del male, ma è più grande del negativo, che non durerà in eterno perchè nel suo amore Egli stesso si sacrificherà per i peccati degli uomini di tutti i tempi. È la più grande rivoluzione culturale della storia. Nelle altre religioni, anche in quella greca, tutto si sacrifica agli dei, persino l’uomo. In Gesù avviene la rivoluzione: Dio sacrifica se stesso! Per l’uomo! In questo amore è il culmine del Vangelo, è la vittoria della speranza per l’umanità, anche se degradata, di cui Paolo, nella lettera agli Efesini, dice: “eravate senza speranza”(Ef.2,12).
Quando cerchiamo di comprendere il battesimo cristiano, intuiamo che accoglierlo nella disponibilità iniziale, e portarlo a compimento nel cammino di fede, significa entrare nell’identità di Gesù, su cui viene il compiacimento del Padre, e ricevere la nostra identità da Lui, nella sua morte e resurrezione. Così insegnerà con chiarezza Paolo: “Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti” (Col.2,12).
Il battesimo di Gesù dice che – al di là delle debolezze personali – la storia è riscattata dal com-patire per amore nella solidarietà; il sacramento in noi è dono di partecipazione alla fatica di questo riscatto, seguendo Gesù Cristo nella sua via, sulla quale brillano i segni eloquenti del “cielo aperto” per la consonanza della volontà divina e umana; della proclamazione: “è il Figlio”, che antepone l’essere ad ogni fare; della presenza dello Spirito che garantisce il legame tra azione di Dio e agire umano. Con queste caratteristiche Gesù inizia il suo cammino e sta avanti a noi come “figlio prediletto”, per certi versi totalmente “Altro”, ma anche contemporaneamente fratello di ciascuno di noi.
La voce del Padre parla solo due volte nel Vangelo, al battesimo e alla Trasfigurazione, rivelando l’identità di Gesù e la nostra e ripetendo “Ascoltatelo!”.
Ricordiamo le tre parole:
“Figlio”:
Dio si offre come Padre. Non è mai tanto se stesso come quando da la vita: “Non cercatemi là dove sono, ma dove amo e sono amato” gli fa dire Jacques Maritain. La sua paternità conduce al vertice del suo desiderio: fare dell’essere umano il proprio figlio.
“Amato”:
È la seconda parola che dice l’identità di Gesù e nostra: “che il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai amati come ami me” (Gv.17,23). Dio ama immensamente ciascuno di noi come ha amato Gesù, come lo ama fuori del tempo, con la stessa identità e tenerezza, nonostante le delusioni di cui siamo causa, perchè ognuno è amore e dolore nel cuore di Dio.
“Mio compiacimento”
È la terza parola. Un Dio che trova felicità nella sua creatura, nonostante la fragilità che Isaia ha drammaticamente descritto nella prima lettura, con l’immagine della canna incrinata e dello stoppino dalla fiamma smorta. Quante volte ci sembra di non avere forza, nè gioia di vivere, di non vedere nulla di positivo intorno a noi. All’amore di Dio basta sapersi accolto, Egli trova gioia nel cuore che gli si apre, comunque lo si faccia, e qualsiasi siano le condizioni di quel cuore.
Il cielo si è aperto su Gesù, si apre su ogni bambino condotto al battesimo dalla piccola fede dei genitori, si apre su ogni catecumeno che con fatica si accosta alla comunità di fede accogliendone l’amore, si apre sui passi incerti di chi è in ricerca e anela ad un approdo, nella fiducia di Chi ha deciso di essere per ognuno di noi più intimo di quanto ciascuno di noi lo sia a se stesso, come dice Agostino nelle Confessioni (Agostino Confessioni, 6,11)
È un cielo, quello del battesimo di Gesù, che non si rinchiuderà più: questa è la gioia riconoscente che oggi ci viene donata.
“Ecco il mio servo che io sostengo,
il mio eletto di cui mi compiaccio”
Il “secondo Isaia”, come viene chiamato l’autore dei quindici capitoli (40-55) del libro che va sotto l’unico nome del profeta, autore dei primi cinquanta, descrive in quattro canti, alti e drammatici, un personaggio misterioso, mai rivelato prima, che viene detto “servo”. È Dio stesso che lo presenta: “così dice il Signore” … “ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio”. È destinato ad un compito di grande responsabilità, che diverrà addirittura drammatico. Il Signore avrà con lui una relazione strettissima e si impegnerà a sostenerlo mentre porterà il diritto – la rivelazione della santità di Dio – alle nazioni, a tutta la terra che attende il suo insegnamento: egli non farà affidamento nell’idolatria, ma solo nel Signore, unico Dio. Questa la sua missione di “giustizia”. Avrà un metodo nuovo, che stupirà: non agirà con veemenza e giudizi di condanna, non getterà via, ma riutilizzerà la canna rotta, non spegnerà la lanterna fioca, ma la rianimerà con l’olio perché continui a dare luce. Il suo servizio si caratterizzerà per questa scelta di metodo senza violenza, senza costrizioni, attraverso una debolezza sconcertante ma efficace, apparentemente perdente, ma in effetti capace di vincere il male. Metodo paradossale di umiltà e mitezza, di servizio e altissima dignità derivante da Dio stesso, che lo prenderà per la mano, lo costituirà “alleanza del popolo e luce elle nazioni”.
Questo personaggio è la chiave per capire la liturgia di oggi.
Quando, nella vita di Gesù, viene il momento di manifestarsi nella propria identità e, lasciata Nazaret dopo la lunga permanenza, di dare inizio all’annuncio del vangelo, egli sceglie di porsi nella linea del servo cantato da Isaia cinquecentocinquanta anni prima, sceglie di non dissociarsi dal popolo che si riconosce peccatore e bisognoso di rinnovamento, ma di mettersi in mezzo alla piccola folla di persone che vanno da Giovanni per il rito penitenziale del battesimo, nel Giordano. La cosa sorprende fino allo scandalo lo stesso Giovanni, che conosceva quanto riguardava la sua nascita e il suo essere il “consacrato di Dio”, il Messia atteso da tanto tempo.
L’umiltà del penitente Gesù, quasi fosse colpevole come i penitenti che incontrava ogni giorno, sembra in contraddizione con questa identità di innocente di cui egli, Giovanni, era sicuro testimone. Così come il vangelo può apparire contraddittorio al lettore scettico sulla via della croce, che sarà il culmine della scelta del Signore. Ma Gesù vuole radicalmente vivere in mezzo agli uomini la “giustizia” di Dio, che è l’unico a salvare dal male con un amore totalmente gratuito, e lo testimonia nella sottomissione che lo rende “giusto” come sarà per quanti faranno lo stesso. Perciò dice, al plurale, “adempiano”, coinvolgendo Giovanni, che comprende come Dio si voglia fare una cosa sola con l’umanità. E Giovanni deve fare un passo, uscire dal rifiuto: “lo lasciò fare”, lasciò che Dio agisse. “Ed ecco, … lo Spirito di Dio…”. È la rivelazione del Dio che non si rassegna al rifiuto dell’uomo e “squarcia i cieli”, come aveva invocato Isaia (Is,63,19), e discende per “farsi carico” delle sue sofferenze, prossimo e solidale con lui, secondo l’altra profezia di Isaia (Is,53,4). “Ed ecco… la voce dal cielo”. È Dio stesso il Padre, che tiene per mano il Figlio “amato” e lo riconosce suo: “in lui ho posto il mio compiacimento”. Può apparire – anche se in maniera antropomorfica – un Padre affettuoso, fiero del Figlio, che si riconosce in lui e se ne compiace. È il compimento della profezia nell’adempimento e nell’obbedienza (compiere e adempiere sono due verbi molto cari a Matteo). Il Padre dice la sua gioia per il fatto che il Figlio non si vergogna dei suoi fratelli, peccatori che Egli ama. Ed è rivelazione di un’intesa eterna tra le Persone della Trinità, un’intesa che permette di capire che la redenzione non è qualcosa di casuale, ma il “farsi carico” di Dio Amore. Così la memoria grata è ricondotta al sacrificio di Abramo e alla croce di Gesù, evidenza della vittoria dell’Amore, il primo come simbolo, la seconda come realtà.
Il battesimo di Gesù illumina il nostro, quello che ci è stato dato prima della nostra consapevolezza di fede, per puro amore di Dio. In quel momento siamo stati immersi nella sorgente che è la persona di Gesù, “servo” per amore. La sua missione e il suo metodo sono diventati nostri e caratterizzano la vita della Chiesa e dei singoli cristiani. I primi lo hanno capito subito:
“Per coloro che sono sotto la legge, mi sono fatto come uno che è sotto le legge.
Per coloro che non hanno legge, mi sono fatto come uno che è senza legge.
Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli;
mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno:
ma tutto io faccio per il vangelo, per diventarne partecipe anch’io”
((1Cor,9,22-23)
Il battesimo di Gesù è il nostro per sua grazia: stessa dignità, e stessa missione. Così ha compreso san Paolo e quanti hanno compiuto il cammino della vita adempiendo la giustizia di Dio.
Farsi carico del territorio nel quale siamo stati chiamati a vivere, pur con tutte le difficoltà che emergono in esso, farsi carico del popolo in mezzo al quale celebriamo l’Eucarestia, senza vergognarci dei nostri fratelli e senza pensare che siano irredimibili, impegnarsi con il dono delle proprie competenze per il bene comune, questo è vivere il battesimo non come un rito magico, ma come un modo concreto di seguire Gesù.