DOMENICA DELLE PALME – Anno A
(Is 50,4-7; Sal.21; Fil 2,6-11; Mt 26,14- 27,66)
La lettura del secondo capitolo della lettera di Paolo ai Filippesi (Fil.2,6-11) ci dona la possibilità di entrare più profondamente nel significato di quanto celebriamo in questi giorni, di non fare solo festa, ma di vivere il mistero. Questo passo, insieme al racconto della passione, ci permette di accostarci alla fede della prima generazione cristiana: la lettera è datata intorno al 50 d. C., è stata scritti, quindi, circa 15 anni dopo l’evento della Croce.
I primi cristiani hanno capito che la passione è il momento culminante della manifestazione di Dio nella vicenda storica di Gesù: sintesi della sua rivelazione, luce per il cammino dei discepoli di ogni tempo, qualcosa con cui ha a che fare la vita di ogni credente, in ogni momento.
Paolo ci pone di fronte ai due punti centrali del mistero della croce.
Innanzitutto l’abbassamento. Gesù pre-esisteva alla sua nascita, condivideva con il Padre la condizione di “natura divina”: egli è il Figlio eterno. Ma “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio”. L’abbassamento è l’opposto della mentalità che spinge a tener stretti i propri privilegi, a farne un bene personale, esclusivo. Le parole di Paolo ci fanno pensare che, nella condivisione della vita trinitaria, vi sia stata come una “congiura”, un progetto di amore che individua la rivelazione, il farsi comprensibile di Dio, nella condizione di solidarietà, di com-passione con la realtà di debolezza e di precarietà della creatura umana. “Spogliò se stesso” – si dovrebbe dire, nella fedeltà al testo “completamente” – “assumendo la condizione di servo”, la condizione di quelli che, nella concezione umana, non hanno significato, non hanno diritti, di quelli che sono sulla sponda opposta dell’onnipotenza divina. Nella persona di Gesù le due sponde abissalmente lontane del divino e dell’umano sono congiunte: Dio si umanizza, facendosi solidale con l’uomo. Il mistero della Pasqua è in questa obbedienza a Dio nella solidarietà con l’uomo. Si tratta di un discorso di grande attualità oggi, in un momento in cui vi è grande attesa di solidarietà. L’obbedienza di Cristo, la sua identità di amore, è svelata in quel: “facendosi obbediente fino alla morte”, che significa tutto il tempo e tutta la vita, fino a quell’interrogativo, che è di ogni povero, di ognuno dei flagellati della terra: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” In questo abbassamento senza limiti sentiamo che Dio ci è vicino, nella persona di Gesù crocefisso e abbandonato. È Dio Amore, Dio non chiuso nella sua onnipotente trascendenza, ma proteso ad accogliere la creatura, nello svuotamento dei propri diritti. Egli ci tocca da vicino, è una mano che viene verso di noi, una voce che dice: “non temere, io sono con te”, “il Padre ti ama”. Contemplare questo abbassamento richiede tanto silenzio, tanta disponibilità a spogliarci delle idee che ci facciamo abitualmente quando pensiamo a Dio e lo invochiamo nella preghiera, perché ci liberi dai nostri problemi e dalle nostre angosce, così limitate e soggettive.
L’altro punto che emerge da questo passo della lettera ai Filippesi, è che l’ultimo atto di Gesù non è l’ultima parola del Padre. Per la sua obbedienza fino alla morte, prosegue Paolo, “Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome”. La contemplazione della croce ci dice che l’amore di Dio è superiore alla forza del male e della morte, che la storia è nelle sue mani. Il credere all’amore, nell’obbedienza della fede, introduce alla vita stessa di Dio: “Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome, che è al di sopra di ogni altro nome”.
I primi cristiani hanno capito che Gesù risiede in noi, che egli è il “Signore”, Kyrios”, primogenito, battistrada dell’umanità. Facciamo nostra l’intuizione dei primi cristiani. Adoriamo il crocefisso: l‘adorazione rivolta a Gesù non è idolatria, né devozione. L’uomo Cristo Gesù, il figlio di Maria di Nazaret, il crocefisso, è stato introdotto in Dio, è Dio, è la luce della nostra vita, la chiave di ogni interrogativo, il sentiero di ogni cammino. È luce per tutti gli uomini di ogni lingua, popolo, nazione. Così appare profetica la determinazione di Pilato di porre sulla croce l’iscrizione con il motivo della condanna – Gesù Nazareno Re dei Giudei – nelle tre lingue che a Gerusalemme rappresentavano la mondialità: l’ebraico, il greco e il latino. Nel nostro mondo, che ritrova la tentazione di separazioni e campanilismi, Gesù ci dice che, sulla croce, egli e il Dio di ogni lingua.
Riconoscendolo come il “Signore”, i credenti compiono un atto di fede nella forza con cui egli, il Risorto, mediante lo Spirito, agisce nei cuori delle donne e degli uomini, si fa alleato delle nostre scelte, delle nostre azioni e delle nostre relazioni. Molto spesso le nostre sono possibilità modeste e povere, ma se il Risorto le anima, abitando tra noi, queste povere cose portano in sé la presenza del divino, il segno dell’Amore che tutto vince, della vita eternamente feconda.
E la nostra piccola vita può diventare idonea ad essere spesa a “gloria di Dio Padre” con Gesù, in Gesù!
Nel secolo XII un uomo, Guerrico di Igny, così scriveva:
“Quanto mi riterrei perfetto, quanto mi crederei arrivato alla sapienza, se mi scoprissi anche solo un docile ascoltatore del Crocefisso, il quale per opera di Dio è divenuto per noi non solo sapienza, ma anche giustizia, santificazione e redenzione.
Veramente se sei stato inchiodato alla croce con Cristo, sei sapiente, sei giusto, sei santo, sei libero.”
Il vangelo del dolore del Signore è il vangelo del nostro dolore:
In questa Pasqua il dolore di Dio per il sangue versato di Abele si rinnova nel dolore per i nostri fratelli del Tibet perseguitati ed uccisi. L’umanità sembra gridare il “Dio mio!” di Gesù, e sembra spinta a cercare nel suo dolore muto la chiave della concordia, del dialogo, della pace.
In questi stessi giorni tanti cristiani e non cristiani accompagnano la partenza di Chiara Lubich che ha amato con tanta intensità la croce. Ascoltiamo alcune sue parole:
“Ci sarebbe da morire se non guardassimo a Te, che tramuti, come per incanto, ogni amarezza in dolcezza; a Te, sulla croce nel tuo grido, nella più alta sospensione, nella inattività assoluta, nella morte viva, quando, fatto freddo, buttasti tutto il tuo fuoco sulla terra, e, fatto stasi infinita, gettasti la tua vita infinita a noi, che ora la viviamo nell’ebbrezza.
Ci basta vederci simili a Te, almeno un poco, e unire il nostro dolore al tuo e offrirlo al Padre.
Perché avessimo la luce, ti venne meno la vista.
Perché avessimo l’unione, provasti la separazione dal Padre.
Perché possedessimo la sapienza, ti facesti “ignoranza”.
Perché ci rivestissimo dell’innocenza, ti facesti “peccato”.
Perché Dio fosse in noi, lo provasti lontano da Te”
(Chiara Lubich, Scritti sp.1)