PASQUA DI RESURREZIONE – Anno A
(At 10,34a.37-43; Sal.117; Col 3,1-4; Gv 20,1-9)
“Perché cercate tra i morti colui che è vivo?
Non è più qui, è resuscitato” (Lc.24,5-6)
Così Luca ci annunzia la certezza donata dall’alto, cui i discepoli devono rendersi disponibili, per passare dalla constatazione della tomba vuota all’incontro con il Risorto. Non cercare tra i morti significa, ci dice Giovanni, non contentarsi di guardare la realtà cercando in essa qualcosa che è stato nel passato ed ora è perduto, come accade a Maria di Magdala e al discepolo giovane: bloccati dalla paura dalla perplessità si fermano alla pura esteriorità. Il verbo che Giovanni usa per Pietro, invece, non indica tanto, come per i primi due, un vedere soltanto, ma un “guardare sostando e contemplando”, nel raccoglimento dell’animo e della mente. È questo atteggiamento che permette di “entrare”, “vedere” e “credere”, verbi che si accompagnano a “correre”, ripetuto più volte per tutti i protagonisti. Sembra quasi che così si voglia sottolineare che il cammino di fede, in cui riconosciamo il Signore, ha una primaria dimensione interiore, ma va accompagnato dalla sollecitudine, dalla premura di tutta la persona, come vediamo in Maria quando si affretta a visitare Elisabetta, dopo l’annuncio dell’Angelo. Correre per “sostare e contemplare”, significa darsi delle priorità, darsi del tempo, non vivere di scontatezze, non rassegnarsi al linguaggio dell’esteriorità.
“Quando era ancora buio”, la tomba vuota è buio, la pietra ribaltata è buio, le bende per terra sono buio: allora il trafugamento della salma sembra ovvio. Ma la fede amante va oltre l’ovvietà e scopre che c’è un giorno dopo il sabato, dopo quel sabato della sepoltura e del silenzio, della “dolorosa dolcezza”, dell’arrendersi all’ineluttabilità della morte. La fede amante capisce che il sabato non era ancora il compimento. Quel corpo sepolto era abitato dallo Spirito che lo aveva concepito in Maria e lo aveva abitato nella morte. La morte vissuta per amore, l’amore “fino alla fine” del giovedì santo, l’amore che si fida, pur sentendosi abbandonato, e che spira il soffio di Dio, l’amore del venerdì santo: questo è quel corpo. La sua vita è più forte della morte e la tomba non ha potuto trattenerlo. Dopo quel sabato viene un altro giorno, primo giorno di un tempo altro, di una creazione nuova, di una vita nuova nata dalla croce e dalla tomba. Questo giorno si chiama “giorno del Signore”, “il Signore dei giorni”, e ancora, sempre più chiaramente, si chiama “il Signore”, “il Risorto”. Come dice Agostino: Gesù è quel giorno.
Impariamo che occorre vivere questo tempo del correre del sostare, dell’amore senza clamore, del custodire i segni brevi e fugaci della vita oltre la morte, per ascoltare la voce dall’alto che dice: “Non è qui, è risorto”. Cristiano è chi dice con la vita che Gesù è veramente risorto, non chi dice solo, con un vago sentimento religioso, che c’è un Dio buono o chi afferma, sotto la spinta di un’esigenza etica, che dobbiamo volerci bene. La resurrezione di Gesù sta al centro della fede. Come dice Paolo: “Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il cuore che Dio lo ha resuscitato dai morti, sarai salvo” (Rm.10,9).
Come testimoniare il Risorto? Subito i discepoli hanno capito che il loro compito era la testimonianza e questa certezza li spingeva a contemplare il Crocefisso, a riflettere sul significato del dolore e della croce, a coglierne i frutti di vita. Croce e resurrezione sono apparsi subito come due aspetti, che non possono essere separati, dell’unico amore di Dio in Cristo. I discepoli, allora, hanno capito di dover cercare il Risorto, di doverlo cercare insieme, per averlo tra loro, per darlo, insieme, all’umanità. Celebrando l’Eucaristia hanno compreso sempre meglio che Gesù si rende presente nel pane e nel vino, nei frutti della terra, domandando loro di mangiarli: “fate questo in memoria di me”. Comunicare con il mondo mangiandone i frutti semplici, significa incontrare il Risorto che li ha voluti abitare e avere comunione con Dio. Si riscopre così il sogno originario di Dio. Mangiare i frutti della terra, lavorare per migliorarla, era stata la richiesta del Padre nel primo giorno della creazione. La terra poteva essere “paradiso”, giardino, luogo dell’incontro con Dio. Per vivere con il Risorto occorreva, dunque, comunione con il mondo, per il quale il Risorto era morto, lavorare, impegnarsi, per rendere nuovamente questo mondo paradiso in cui Dio possa essere accolto e riconosciuto.
Siamo chiamati a vivere questo mistero, ad incontrare il Risorto nell’umanità, che trova morte lì dove aveva sperato di incontrare la vita, diventando sempre più prigioniera della morte. Non possiamo celebrare la Pasqua, questa Pasqua, dimenticando di essere a Napoli, questa Napoli dei nostri giorni, facendo finta che la sua violenza, la sua volgarità, non ci appartengono, chiudendo le orecchie al monito di Isaia: “Non distogliere gli occhi da quelli della tua carne” (Is,58,7). Non possiamo celebrare la Pasqua senza raccogliere l’invito del Risorto a Maria di Magdala. ”Và dai miei fratelli!” (Gv.20,17). Ognuno che crede nel Risorto non può rammaricarsi o vergognarsi di essere napoletano! Questa città è la carne crocefissa del Risorto.
“Pasqua immacolata, Pasqua grande, Pasqua dei fedeli, Pasqua che ci ha aperto la porta del paradiso, Pasqua che santifica tutti i fedeli …” (liturgia greca, sticheri di Pasqua).
“Il primo giorno della settimana Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattina, quando era ancora buio”
Nel testo greco del vangelo di Giovanni non è scritto “primo giorno”, ma giorno “uno”, il giorno in cui per noi tutto trova compimento, il giorno del Paradiso.
Al “buio” – espressione frequente nel quarto vangelo, che indica una atmosfera di incredulità, incapace di concepire l’oltre di Dio – Maria pensa ad un oltraggio al corpo sepolto e corre a portare un annuncio dettato dall’emotività incapace di sperare, pur lontanamente soltanto, nella possibile azione di Dio, che pur Gesù aveva predetto più volte. “Hanno rubato”, “non sappiamo” sono le parole sue, ma il plurale fa pensare anche alle altre donne e agli stessi discepoli. La sua è una fede di riconoscenza grande verso il Signore, che la aveva liberata dai “sette demoni”, dalla sua vita disordinata. Ma la riconoscenza non è sufficiente per raggiungere la verità. Maria è “incredula”, perchè guarda la realtà con occhio solo umano: anche quelli che hanno incontrato Gesù possono essere attaccati dal “buio”.
Quello di Maria è perciò il correre affannato di chi va a dare una notizia di un avvenimento negativo, tragedia nella tragedia. Così accade a noi quando siamo aggrediti dalla cronaca e ci “scarichiamo” parlandone con altri. È l’atteggiamento che genera più grande avvilimento, istinto di chiusura nel proprio guscio, rinuncia ad attendere una luce di rivelazione, un atteggiamento che può assalire anche la vita di un credente.
Ma Giovanni racconta una svolta.
Pietro e l’altro discepolo, che forse è Giovanni stesso – iniziano un itinerario di ritorno al sepolcro:
“Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro”
Voltano le spalle alla situazione di incredulità da cui si erano lasciati avvolgere con gli altri, pur nella consapevolezza di essere stati chiamati. Anche se erano stati increduli, ora decidono e corrono. È un correre diverso da quello di Maria, non pensano all’azione di operatori di un trafugamento, ma all’azione di Dio, alla potenza del suo amore fedele. Decidono e corrono.
Sono due, due figure diverse, fondamenti della fede nel quarto vangelo. Pietro, la “roccia”, prende l’iniziativa: deve correre dove Dio opera, per farlo proprio nella certezza del credente, per confermare i fratelli, come Gesù gli aveva ordinato di fare durante l’Ultima Cena, secondo il racconto di Luca (Lc.22,32). È con lui il discepolo che si era sentito amato più particolarmente: egli mostra un’urgenza più impellente di conoscere tutta la verità riguardo a chi gli ha voluto bene, perciò corre più velocemente e arriva per primo. L’amore ricevuto batte dentro i passi della corsa e spinge ad amare a sua volta. Giovanni insegna alla Chiesa, a noi, che il cuore non capace di lasciarsi amare, non può capire la resurrezione. Così i due discepoli più importanti nel racconto di Giovanni, sono, sì, toccati dall’incredulità, ma se ne staccano e giungono, sia pure in modo diverso e provvisorio, alla certezza della fede.
La morte è sconfitta, la tomba è vuota, i teli sono ancora lì, il sudario è ripiegato. Non sono segni di devastazione, ma dell’azione di Dio. I due discepoli, però, all’interno di una certezza devono maturare ancora. Così come è raccontato nei primi capitoli del vangelo di Giovanni, di quelli che incontravano Gesù – da Cana a Nicodemo alla samaritana – Pietro e Giovanni dovranno avanzare ancora, nonostante il dono di luce, nella comprensione della verità della resurrezione. Dovranno ancora comprendere la Scrittura.
Giovanni e Pietro, come tanti altri, hanno cercato, perchè il Signore deve essere cercato, ma – come dice il vangelo – se ne tornarono a casa, cioè nella loro situazione di debolezza, custodendo il certo nel non-ancora
Giovanni, nel suo stile, ci consegna l’esemplarità del discepolo che Gesù amava. Sembra dirci che egli corre perchè si sente amato e vuole vivere la reciprocità dell’amore. Una fede senza il calore del cuore è buia e non vede il Signore. E, perciò, il discepolo che corre vede e crede. Lo stesso apostolo Pietro, che avrà l’autorità nella comunità di fede, dovrà seguire questa esemplarità e non stancarsi di proporla. La chiesa istituzionale deve seguire la chiesa dei profeti, di quelli che amano di più: essa ci dice che lasciarsi amare è il luogo, lo spazio della rivelazione di Dio. Il discepolo dell’amore passivo, quello che accetta veramente di essere stato amato, corre più in fretta, arriva per primo alla fede, perchè, come dicevano i nostri antichi fratelli di fede: “i giusti camminano, i sapienti corrono, ma gli innamorati volano”.
Facciamo Pasqua con la certezza della verità del Risorto. Ma torniamo a casa, dove ci aspetta ogni giorno l’oscurità della incredulità, sapendo che davanti a noi c’è la luce della Scrittura a cui essere fedeli ed il coraggio della decisione dell’amore, perchè chi ama vede.