III DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 8,23-9,3; Sal.26; 1Cor 1,10-13.17; Mt 4,12-23)
Il passo del Vangelo di Matteo, che abbiamo ascoltato è molto denso. Ne indicherò alcune espressioni, ma poi vi propongo di riflettervi durante la settimana, perché lo Spirito Santo illumini ognuno secondo quello che è il disegno di Dio su di lui.
Fin dai primi capitoli – che abbiamo ascoltato nel tempo di Natale – Matteo ci educa ad una lettura di fede della storia: l’iniziativa è di Dio – Provvidenza, che si prende cura dell’uomo. “Giovanni era stato consegnato”. “Consegnato” è il termine che nel v.2 del cap.26 del Vangelo di Matteo, Gesù userà per predire la sua passione e che troviamo anche nel Vangelo di Giovanni. È un termine che indica insieme la responsabilità umana e il compiersi del disegno di Dio. Il suo senso teologico è che il credente non è mai colto di sorpresa dagli avvenimenti, perché tutto è nel cuore del Padre, nelle sue mani, nella sua provvidenza. È un motivo che sarà poi approfondito da Matteo nel cap.6. È proprio l’imprigionamento di Giovanni che dà inizio all’azione missionaria di Gesù. Per prudenza egli non comincia, come i profeti, la sua predicazione da Gerusalemme, ma va al Nord, a Cafarnao. Un’occasione negativa diventa possibilità positiva. Più tardi, negli Atti, Luca dirà che la persecuzione contro i cristiani a Gerusalemme fu l’occasione perché avesse inizio l’opera di evangelizzazione nel mondo. Matteo vede tutto come il compiersi del disegno di Dio. L’esigenza immediata per Gesù di tenersi lontano da Gerusalemme è l’occasione perché egli possa rivolgersi ad un destinatario più vasto, nella “Galilea dei popoli”. Terra di confine, la Galilea era abitata da genti diverse, che avevano stemperato la tradizione ebraica: perciò gli ebrei osservanti la evitavano. Essa era invece nel cuore di Dio, in cui sono i popoli tutti. Da lì inizierà la predicazione del Vangelo. Da lì avanzerà.
“Da allora – dice Matteo – Gesù incominciò a predicare”. “Da allora”: ogni giorno è, può essere un inizio per ciascuno di noi, oggi come allora, perché ogni giorno Gesù ci invita: “Convertitevi, perché il Regno dei cieli è vicino”. Chiamando alla conversione Gesù non chiede solo di modificare atteggiamenti moralmente sbagliati, ma di dare un orientamento nuovo alla nostra esistenza, liberandoci dai nostri schemi razionali e perfino religiosi, per poter realmente aderire all’iniziativa di Dio, che ci chiama. “Il regno dei cieli è vicino”. Il regno è l’incontro dell’umano con il divino, che permette di dire: “Qui c’è la vita di Dio con l’uomo”. Non è una dimensione solo interiore, ma una realtà in cui Dio penetra con la sua vita. Non è un recinto sacro, perché esso si trova dovunque gli uomini vivono. Il Dio di Gesù non è circoscritto: Gesù cammina per tutta la Galilea, percorre le strade dell’umanità. Ieri sera abbiamo avuto un incontro-dibattito molto interessante sul tema: “Famiglia e territorio”. I rappresentanti di istituzioni laiche, medici, psicologi, presidi di scuole medie, hanno indicato l’insufficienza della società civile, la necessità di un incontro vitale con il Vangelo. Gesù cammina ovunque gli uomini vivono e lavorano, ovunque hanno relazioni.
Non solo Dio va incontro, ma chiama. Chiama come uno che abbia bisogno di collaboratori, dall’eternità. Dice Agostino: “Dio che ti ha creato senza di te, non salverà te, senza di te”. Né te, né i fratelli. Gesù si fa interprete di questo pensiero eterno, con la chiamata rivolta ai singoli che incontra. Ma Gesù non chiama a caso: vede, guarda e poi chiama. Il Vangelo ripete due volte: “Chiamò”. “Chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui” ci dice Marco (Mc.3,13). Gesù è colui che chiama personalmente, ma è anche colui per il quale si è chiamati. Nell’incontro con il giovane, Marco aggiunge: “Guardandolo lo amò” (Mc.10,21). Gesù chiama in maniera stupefacente anche persone che sembrano inadeguate. Come Levi – Matteo che sedeva al banco delle imposte, un pubblicano, ritenuto impuro, perché collaborava con gli invasori romani. Come Maria di Magdala, “dalla quale – come dice Luca – erano usciti sette demoni” (Lc.8,2). Così anche la storia personale, per quanto attraversata da esperienze negative, può trasformarsi in storia di Dio, per il dono di sé che egli fa alla creatura. “Quello a cui si perdona poco, ama poco” (Lc.7,47). La storia della Chiesa, di tanti di noi, è esperienza prolungata di quello che Dio opera nel nostro cuore, trasformando il passato negativo in presente positivo. Nessuno può sottrarsi al Signore per la propria indegnità.
“Seguitemi”: la perentorietà dell’invito è al presente, domanda il “subito” della risposta, che comporta il posporre tutto quello che non è il Regno, il distacco da beni e affetti per seguire nella fede colui che ha chiamato. Domanda di essere a sevizio dell’umanità, perché in tutti emerga la dignità umana. Dignità calpestata nel giovane di venti anni, ucciso qui, a Fuorigrotta, dal sangue sparso per la violenza di quanti usano la pistola, ma anche di quelli che portano i guanti. La chiamata di Cristo è un appello perché nella nostra vita tormentata emerga la vita di Dio. È un appello rivolto a tutti. È la “regalità” che Matteo domanda, a nome di Gesù.
Il Vangelo conosce bene la debolezza della fede di coloro che sono chiamati, il condizionamento del giovane che non comprese lo sguardo di amore personale di Gesù, perché preoccupato dei suoi beni, e “se ne andò triste”, come riportano i tre Sinottici. Per esperienza personale vi dico che a volte colgo in me la tristezza del cuore, per la lentezza del mio sì. La mia esperienza di sacerdote mi ha permesso di cogliere questa tristezza in chi non se la è sentita di pronunciare un sì pieno, o si è stancato durante il camino, o ha visto venir meno la propria fedeltà. Ma lo sguardo di amore del Signore non si stanca! Lo vediamo con Pietro, dopo la Passione. La chiamata rimane, al di là delle nostre risposte, per la fedeltà del Signore, ed invita a ricominciare sempre. Il discepolo maturo, il santo, è colui che crede all’amore fedele e ricomincia. L’abbinamento delle chiamate, Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, ci dice, forse, che, rispondendo, non si va incontro all’isolamento, ma all’esperienza forte e dolce di una nuova famiglia, la comunità dei discepoli. A questa comunità, dirà Matteo nel cap.18,2, Gesù assicura la sua presenza costante, presenza fra i discepoli uniti nel suo nome, nella sua persona. Da questa presenza, non dalla nostra fragilità, viene la fecondità della missione.
Oggi vogliamo dire al Signore, che ci guarda con occhio di amore e ci chiama, personalmente, alla vita di discepoli suoi, la riconoscenza profonda di essere chiamati, scelti. Nella coscienza profonda e umile di non essere autori di questo dono, ma “scelti”. Diciamogli che, davanti a lui, sentiamo la responsabilità verso l’umanità di essere portatori del pane della vita.
I primi passi della vita pubblica di Gesù.
Giovanni Battista era stato arrestato, più esattamente “consegnato” – come Matteo dirà di Gesù quando Giuda lo metterà nelle mani dei sommi sacerdoti (Mt.26,2.15). È un passivo che esprime la convinzione di fede nel Dio che conduce la storia e fa delle circostanze negative l’occasione per il progresso della sua azione di amore.
I primi passi sono di prudenza. Gesù si ritirò in Galilea, come se non giudicasse opportuno restare dove Giovanni era stato arrestato, esporsi al rischio di essere coinvolto, ma non fino al punto di nascondersi a Nazareth: sceglie Cafarnao, sulla strada che conduce dalla Siria al mar Mediterraneo, e Matteo lo nota, come è sua abitudine, vedendo in questo il compimento della profezia di Isaia – che oggi abbiamo ascoltato nella prima lettura – e l’indicazione che la missione di Gesù punta alle genti, a persone non di stretta fede ebraica, ai popoli dell’Europa e del mondo.
Primi passi. Quasi rilevando il testimone da Giovanni Battista, Gesù, come lui, domanda la conversione ed annuncia il Regno. Prime parole che ci permetteranno di avvicinarci al discorso della montagna.
La parola “conversione” non ha solo un carattere etico, è cambiamento del modo di pensare e di agire, assunzione di un atteggiamento nuovo, soprattutto nei riguardi di Dio. Perciò non solo distacco da idolatrie di fatto e convinzioni intellettuali errate, ma anche rinuncia alla propria visione religiosa quando questa si rivela troppo dipendente o eccessivamente condizionata dalla soggettività, come Gesù stesso dovrà dire a Pietro, che voleva dissuaderlo dal cammino verso la croce: “non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mt.16,23). Per seguire Gesù e vivere la sua proposta di ottica e di vita, anche a chi compie il cammino di fede occorre una continua conversione, una disponibilità concreta, fino alla drammaticità, a vincere in se stessi la spinta centrifuga della paura di Dio e all’accoglienza di Lui al centro di sé. Nel libro dell’Apocalisse alla Chiesa di Efeso, che pur era una comunità cristiana consolidata, viene detto: “Se non ti ravvederai, verrò a te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto” (Ap.2,5).
“Il regno dei cieli è vicino”
La regalità di Dio, nei singoli cuori, in mezzo al popolo e nel mondo, è il centro della predicazione di Gesù nel Vangelo di Matteo. Essa si realizza nella riconoscenza e nell’amore fiducioso: perciò non attraverso trionfi nazionalistici o la conversione forzata di popoli, ma con uno stile spirituale concretamente incarnato, che nel discorso del monte Gesù dirà di chiedere al Padre: “venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà” (Mt,6,10). Questa è, per Matteo, l’azione di Dio in Gesù “figlio dell’uomo” e “servo”. Una regalità che non si propone nelle grandi manifestazioni ed ha inizi umili, misteriosi, apparentemente contraddittori, si va sviluppando solo lentamente sulla terra, mediante la Chiesa, comunità di poveri e condizionata dal mondo, che ha bisogno ogni giorno di perdono, come me, come ciascuno di noi. Un regno cui si può accedere solo con l’umiltà e la fedeltà, facendo spazio a Dio per accoglierlo nella nostra vita.
Un regno, perciò, che si manifesterà completo solo alla fine del tempo, in cui si entra nel presente solo accogliendo la grazia della fede, in umiltà di mente e di cuore, con l’abito nuziale dell’esistenza nel battesimo, nella vigilanza per cogliere il ritmo silenzioso dei passi del Signore, del suo venire. Questo, rapidamente, il modo con cui Matteo presenta il Regno nel suo vangelo. E sottolineandone la concretezza: il Regno, dice, è la compenetrazione del divino e dell’umano, regno dei cieli nella realtà della terra, possibilità del “come in cielo così in terra”.
Il Regno dovrà essere costantemente testimoniato ed annunciato: “Gesù percorreva tutta la Galilea…”. Così Matteo mostra Gesù in cammino: non aspetta, come il Battista, persone che vengano a visitarlo, ma va incontro all’uomo nella vita quotidiana, cercando collaboratori e chiamando al discepolato non in un recinto sacro e separato, ma nell’ordinarietà della esistenza e ovunque, perché Dio non è circoscritto in un luogo o in un altro.
Un Gesù che non considera gli uomini in senso generico, ma come persone ben individuate, come evidenzia il ripetuto “vide” e l’iniziativa “chiamò”. Un Gesù che è soggetto che chiama e ragione per cui si è chiamati. Siamo chiamati alla fede non solo da Gesù, ma per Lui. Quanti avranno la ventura di incontrarlo ed ascoltarlo, si scopriranno chiamati ad incamminarsi con Lui, al suo fianco, al suo seguito, subito, per il servizio degli uomini nella verità e nel dono di sé, in una linea di sacrificio e di abnegazione. Esperti del mestiere della pesca, i primi discepoli dovranno sapere che l’annuncio e la testimonianza del vangelo non garantisce successi, perché gli uomini a cui si dovranno dedicare sanno essere più sfuggenti dei pesci! Il loro servizio, tuttavia, non è finalizzato alla pace interiore, o all’elevazione spirituale, ma sarà il dono prezioso all’umanità per rivelare all’uomo la propria dignità, la chiamata alla pienezza di vita di tutta la comunità, nella condizione di figli di Dio.
Servire l’umanità, concretamente servire la città, nel suo oggi: Matteo ricorderà che Gesù “si mise a rimproverare le città… perché non si erano convertite” (Mt.11,20). È un invito a riflettere sul modo in cui viviamo la “laicità” nel mondo dell’informazione, dei servizi, della medicina, dell’accompagnamento nell’educazione, dell’istruzione. Nell’oggi della nostra città, in momenti come questi, la timidezza potrebbe diventare latitanza per chi è chiamato all’impegno personale e sociale, quando c’è separazione fra la volontà di seguire il Signore e il servizio nella città. Giorgio La Pira, nel 1954 diceva: “Le città hanno una loro anima e un loro destino; non sono cumuli occasionali di pietre, sono misteriose abitazioni di uomini e più ancora, in certo modo, misteriose abitazioni di Dio”.
Se la città attende la rivelazione significa che c’è il Vangelo per ogni miseria, per ogni immondizia. Per questo Vangelo siamo chiamati e mandati.
L’inizio del ministero è segnato dal “camminare” di Gesù nella zona più settentrionale della Palestina, là dove si erano insediate le tribù di Zàbulon e di Nèftali al tempo della divisione della terra; le due tribù si erano dissolte per le vicende storiche, soprattutto per l’occupazione del territorio da parte degli Assiri nell’ottavo secolo a. C. e per la contaminazione della tradizione religiosa, al punto che la Galilea veniva chiamata “delle genti”, cioè “pagana”. Il camminare è accompagnato dall’invito alla conversione, perché nella persona di Gesù il Regno si è fatto vicino ma è colto nella sua preziosità solo se il cuore ben disposto si assoggetta al cambiamento profondo che la luce del vangelo esige intimamente e testimonia.
L‘imprigionamento di Giovanni è l’occasione per la decisione di Gesù: lasciare il nascondimento di Nazareth, poco accessibile e sconosciuta, andare ad abitare a Cafarnao, città di traffici e vicina al mare che gli permette di diffondere il suo annuncio. Questa scelta per Matteo è l’“adempimento” di quanto aveva profetizzato Isaia, e Matteo lo cita perché ama mostrare il presente legato al passato dal “filo d’oro” della parola di Dio nella Scrittura.
Dopo il servizio di Giovanni al Giordano, Gesù con la sua scelta indica che il suo compito sarà il cammino costante per un uditorio più vasto. Perciò l’inizio della predicazione è accompagnato in contemporaneità dalla chiamata di alcuni alla condivisione piena del suo ministero, nella conformità al suo pensiero e al suo stile. È interessante, soprattutto per i laici, che ad essi non venga richiesto di cambiar mestiere, di allontanarsi dal mondo, di dedicarsi al culto; il dono gratuito della chiamata è entrare in una qualità infinitamente più alta dell’essere, continuare il proprio lavoro con impegno e competenza diventare “pescatori di uomini” nella quotidianità del proprio lavoro. Sarà questo salto di qualità ad abilitarli come rappresentanti di Lui, che è il centro, ad annunciare giustizia e salvezza al mondo. Non potranno perciò appartenere solo alle loro reti, alle loro barche e alle loro famiglie in maniera esclusiva, ma dovranno avere coscienza che la loro esistenza dovrà dire, a fatti, di essere portatori di una dimensione nuova, che Cristo inaugura, quella dell’unità di tutto il genere umano. “Pescatori di uomini”, non nel senso di ricerca di interessi terreni o di prestigio, ma nel senso che il Risorto, nel racconto di Matteo, proclamerà solennemente ancora in Galilea, prima di sottrarsi alla loro vista: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli” (Mt.28,19). “Pescatori”, capaci di porsi, con la pazienza del pescatore, senza intransigenza o atteggiamenti ultimativi, davanti al mistero dell’uomo, della sua dignità e della sua libertà, l’uomo che può rifiutare l’invito, sfuggire all’incontro. A questi discepoli verrà domandato, nei secoli, di essere presenti nella storia con il desiderio di contagiarla di vangelo, con l’umiltà e la fedeltà dei rapporti personali, senza rimasugli di attaccamenti e di rimpianti di qualcosa, anche di buono e di bello, che non sia il regno nel presente. L’unica sicurezza di colui che è chiamato non è in qualche garanzia, perché ogni suo desiderio approda nella delusione, ma nella parola del Signore, non perché sia verificabile, ma perché è del Signore.
Nella testimonianza del vangelo, proprio perché affidata alla povertà dei discepoli, abita il pericolo della disunità, ci ammonisce la liturgia con la parola di Paolo: a Corinto come a Gerusalemme – come si legge negli Atti degli Apostoli ai capitoli 6 e 11 – come sempre nella Chiesa, per la tentazione dell’individualismo, si nasconde il tarlo del senso errato dell’appartenenza a un particolare luogo, o stile, o tradizione. Paolo dice “Io di Cristo!”. E fa capire che il Signore non può essere accaparrato come diritto esclusivo di una parte, che la coscienza di essere eredi di una tradizione gloriosa e strumenti fedeli di comunicazione di essa, non può significare sentirsi proprietari o possessori della verità in esclusiva. Nessuno che voglia essere discepolo di Gesù, può sentirsi battezzato nel nome di Paolo, di Pietro o di qualcun altro. Ma lo si è solo in Cristo.
Nel corso dei secoli, pur dicendoci discepoli di Gesù e sua Chiesa, ci siamo fatti tanto male fino a spargere il sangue gli uni degli altri, riducendo il Vangelo ad un ritualismo vuoto di incontro con Dio e alla presunzione di poterlo imporre nel nome di una verità senza ricerca, ma solo appresa dalla tradizione umana: in questi atteggiamenti Gesù non si riconosce e non ci riconosce.
Oggi preghiamo per l’unità dei cristiani, ricordandola nella descrizione degli Atti degli Apostoli: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera” (Atti2,42).
Sono sempre attuali le annotazioni di Dietrich Bonhoeffer:
“Non è l’atto religioso a fare il cristiano, ma il prendere parte alla sofferenza di Dio nella vita del mondo. Questa è la conversione: non pensare innanzitutto alla propria tribolazione, ai propri problemi, ai propri peccati, alle proprie angosce, ma lasciarsi trascinare con Gesù Cristo sulla sua strada nell’evento del servo di Dio che dona la vita nel presente!”. Da qui ‘Credete all’evangelo’” (18 luglio 1944).