VI DOMENICA T.O. – Anno A
(Sir 15,16-21; Sal.118; 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37)
Nel suo vangelo, Matteo tiene a ribadire che Gesù Cristo non smentisce la Parola di Dio trasmessa dall’Antico Testamento, ma la porta a compimento, nel senso che conduce alla convinzione che l’adempimento formale ed esteriore del suo insegnamento non esaurisce la ragione per cui è dato, ma sfocia nel consenso intimo di tutta la persona identificata con il proprio cuore. È nel cuore accogliente che si attualizza e si fortifica la somiglianza con Dio Creatore ed è nel cuore che il consenso si fa esplicita amicizia, alleanza forte, appartenenza senza riserve: “Non vi chiamo più servi – dice ai discepoli Gesù, la sera prima della sua passione – perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio lo ho fatto conoscere a voi” (Gv.15,15). In questo rapporto concreto di amicizia la Parola rimane se stessa, intatta, rivelatrice dell’amore fedele di Dio. Questa è la giustizia perfetta in cui il discepolo del Vangelo si impegna.
Allora si comincia a comprendere, per restare nel brano di oggi, che il rifiuto della violenza nel comando antico “non uccidere” è invito a penetrare profondamente nel desiderio di Dio, che vuole rapporti senza ira, senza definizioni squalificanti, senza emarginazioni. Si comincia a sentire innaturale e falsa una liturgia vissuta senza fraternità, nel dissidio e nel rifiuto di riconoscere il torto fatto al fratello, senza quella riconciliazione che stiamo mettendo a fuoco in quest’anno del giubileo. I cristiani non potrebbero celebrare l’Eucaristia che è il sacramento dell’unità senza pace ritrovata e ridonata, perché la comunione con Gesù è comunione con il fratello offeso. L’unità non sta tanto nella presenza fisica, ma nella carità: Bernardo di Chiaravalle, nell’Europa del XII secolo, dilaniata dalle guerre, scriveva:
“La croce dell’uomo spirituale è la carità;
in questa croce, e quindi nel cuore dell’uomo spirituale, ogni giorno pende Cristo”
Dunque, al cuore punta Gesù. Lo fa con richieste che appaiono esagerate nell’esigenza delle formulazioni (i tagli raccapriccianti!), ma tese a ribadire che il discepolo deve domandare al proprio intimo di essere imitatore del cuore di Dio, verità senza smentite e amore senza interesse. Deve vigilare sui desideri, essere limpido nel proporsi, gratuito nel condividere i gesti: questi i segni dell’uscita dalla ambiguità. Un seguace di Gesù deve essere disposto a questa chiarezza, che non si identifica in un’esistenza asettica e paurosa dei rapporti, preoccupata del perfezionismo morale. Gli viene chiesto di puntare ad una vita vera, coerente, libera da secondi fini, anche se non palesi. Ogni esperienza di verità nel cuore passa necessariamente attraverso il sentiero stretto del rinnegamento dell’opacità, anche mentre siamo e restiamo paurosi di quanto costa sacrificio e fatica. Matteo invita al superamento delle misure formali che possono appiattire nella mediocrità. Lo fa con sei antitesi, di cui leggiamo quattro in questa liturgia.
Può nascere la domanda se è possibile all’uomo di oggi l’osservanza di insegnamenti tanto radicali.
La Parola di Dio ha in sé la risposta e ce la dona nella liturgia di oggi. Viene in aiuto alla nostra diffusa fragilità di pensiero che tende ad assolutizzare gli istinti, quasi che nei comportamenti umani non vi fosse spazio di libertà, di discernimento e di decisionalità, quasi che si dovesse affermare fatalisticamente l’inevitabilità di comportamenti di violenza e di possessività, quasi che si dovesse teorizzare una migliore realizzazione dell’individuo nel soddisfacimento di ogni istinto. Dice il Siracide: “Là dove vuoi, tendi la tua mano” (Prima lettura) , e san Paolo afferma la potenza effimera dei “dominatori di questo mondo” (Seconda lettura), che si possono identificare anche con le tante voci di persuasione occulta che fanno opinione, con l’insignificanza della saggezza ritenuta obsoleta e priva di bene vero. La qualità della vita non cresce attraverso la quantità, che, al contrario, porta il desiderio alla sfrenatezza e alla violenza, con la conseguenza di un cammino in discesa che fa essere costantemente insoddisfatti e senza senso sul piano psicologico, impoveriti e feriti su quello fisiologico – come è evidente nel dramma della droga e in quello della infertilità e della impotenza sessuale. L’umanità, perciò, appare sempre più povera.
La fatica della interiorizzazione, di scelte e di comportamenti che sono radicati “nel cuore” prima che manifestati all’esterno, conduce alla libertà, alla creatività, all’abilità, come ammiriamo nel corpo bello di un acrobata o di una ballerina classica. Una fatica che introduce in spazi grandi di libertà perché ci si è dominati.
La Parola di Dio, anche se non nel testo liturgico di oggi, dice con il profeta Ezechiele:
“Vi darò un cuore nuovo,
toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne”
(Ez.36,25)
È il dono che Dio fa di sé all’umanità, nelle nostre povere persone a cui è affidata la gioia e la responsabilità della Parola.