X DOMENICA T.O. – Anno A
(Os 6,3-6; Sal.49; Rm 4,18-25; Mt 9,9-13)
“Vide un uomo … gli disse: ‘seguimi!’ ”
L’uomo che Gesù chiama è Matteo: la stessa persona che Marco (2,14) e Luca (5,27) indicano con il nome di Levi. È uno del primo gruppo degli Apostoli, i soli di cui il Vangelo indica la chiamata diretta di Gesù, omettendo le altre, quasi ad indicare che ogni cristiano è un chiamato e deve specchiarsi nella loro vicenda. Essi sono il fondamento della fede e della fedeltà della Chiesa in ogni tempo.
Matteo era un appaltatore delle imposte, perciò persona invisa e considerata “impura”, perché il danaro distoglie dalla vita spirituale, ma anche perché trafficava con gli invasori romani. Ma Gesù invita proprio lui ad entrare nel gruppo, con la stessa parola semplice ed autorevole rivolta agli altri: “Seguimi!” e Matteo risponde subito, alzandosi e seguendo il Signore. Per celebrare questa nuova stagione della sua vita egli invita gli amici a casa, ad un banchetto: sono pubblicani e peccatori come lui e Gesù non teme di associarsi a loro.
Questa scena è una delle pagine più luminose del Nuovo Testamento e la chiesa dei primi secoli la ricorderà frequentemente per combattere le tendenze puritane, sempre in agguato in ogni ambiente religioso. Il Vangelo ci insegna che l’iniziativa di Dio si attua nell’incontro con l’uomo nella sua storia e Dio non può escludere nessuno per la sua professione, per la qualità della sua presenza nel mondo, perché ai suoi occhi la persona vale per se stessa, non per le sue scelte o per i suoi comportamenti. Se escludesse qualcuno, contraddirebbe la sua paternità universale.
Gesù corregge la mentalità del formalismo ritualistico, che discrimina le persone. Gesù non discrimina e lo fa con un atteggiamento chiaro e semplice, non per polemica, ma per donare con la vita la rivelazione del Padre. È seduto in mezzo al gruppo, non manifesta disagi, non fa rimproveri, condivide l’atmosfera di amicizia di un pranzo. Ma non si tratta solo di questo episodio: la sua scelta è così chiara e continua da fargli dire più avanti – al capitolo 11 – di avvertire intorno a sé un mormorio pettegolo e bigotto: “È venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e hanno detto: Ha un demonio. È venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori” (Mt.11,18-19). Meglio essere chiacchierato come tale, che rinunciare a rivelare l’amore del Padre.
Gesù giustifica il proprio comportamento con un proverbio: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” (v.12) e con la citazione di Osea: “Misericordia io voglio e non sacrificio” (Os.6,6). Fa poi una vera dichiarazione di intenti: “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (v.13). La rivelazione del Padre misericordioso lo spinge alla attenzione premurosa per quanti vivono in situazioni moralmente ambigue, e non corrispondenti ala verità di Dio sull’uomo. Sono persone bisognose di sostegno, anche se non avvertono questo bisogno, anche se non vogliono incontrare Dio. Proprio come i malati che hanno bisogno del medico.
La citazione del profeta Osea sottolinea che la grazia e la misericordia sono la linea di Dio e certamente hanno un valore più grande di quanto non abbiano le prescrizioni rituali che sono valide solo se, guidate dalla misericordia, predispongono alla carità, che ha il primato su tutto. Gesù arriva a dare l’impressione di anteporre la misericordia allo stesso dare onore a Dio: Dio è onorato se c’è il primato della misericordia. Ce lo dice anche Luca nella parabola del Samaritano: il sacerdote e il levita non sono giustificati, perché antepongono il tempio al prossimo (Lc.10,19). L’uomo è importante quanto o più di Dio: “Dio può attendere, il prossimo no” (Ortensio da Spinetoli). Gesù è amico di quanti sono in difficoltà morale: nel discorso del monte, invita a lasciare l’offerta davanti all’altare per andare a cercare il fratello offeso (Mt.5,24). Paolo scriverà che occorre prima di tutto onorare il tempio di Dio che è l’uomo (1Cor.3,16-17; 2Cor.6,16)
La pagina di Matteo invita ad essere coscienti della condizione di insufficienza in cui tutti viviamo davanti a Dio e all’umanità. Se non c’è questa coscienza il rischio grave è quello della indisponibilità alla misericordia ricevuta e donata. Perciò sentirsi giusti mette in una situazione più grave di quelli che vivono da “pubblicani e peccatori”.
“Seguimi”. La parola già detta ad Andrea e a Simone, a Giacomo e a Giovanni, continua ad essere detta ogni giorno, nelle situazioni più diverse. È invito personale anche a me, a voi, stamattina. Ci chiama a stare con lui in un rapporto profondo (Mc.3,13). Gesù non è frenato dal limite, il suo sguardo non è bloccato dai difetti personali che ci caratterizzano tutti, ma invita a nuove possibilità: passate dall’interesse alla pesca a diventare pescatori di uomini, dalle reti ai cuori, dall’interesse per i soldi agli interessi del Regno. Lo fa con proposte personali e con la forza di attuarle, come si vede in Matteo, che “si alzò e lo seguì”.
Gesù ci dice: “Andate ed imparate”, andate verso le forme sempre nuove del male, che attanaglia il cuore degli uomini, cercate di avere rapporti con chi soffre e imparate che voglio la misericordia e non il ritualismo . Andate dove gli uomini sono soli, dai bambini, dai figli dei divorziati … Uscite dalle considerazioni astratte, immergetevi nella folla, imparate dalla vita.
Ricordiamo che l’ultima icona, il culmine di questa attenzione di Gesù verso la sofferenza umana è sulla croce là dove, ricordano i quattro Vangeli:
“Insieme con lui furono crocefissi due ladroni,
uno a destra e uno a sinistra”
(Mt.27,38)
Seguire Gesù nella gratuità: allora gli uomini e le donne di questo mondo ci apparteranno tutti.
Il racconto della propria chiamata, della trasformazione operata in sé dalla potenza della parola di Gesù – descritto come colui che, mentre passa per le vie dell’umanità, “vede” le persone, nel loro io più intimo e invita a seguirlo, vede le persone nella loro capacità di essere costruttori del Regno e le invita a collaborare – è strutturato in modo da evidenziare non Matteo come soggetto, ma Gesù che chiama: Gesù è il protagonista, Lui che prosegue il suo cammino, instancabilmente. Perciò non c’è compiacimento autobiografico, ma gioia di poter testimoniare la libertà del Signore, che può raggiungere anche un appaltatore di imposte, anche una persona definita “seduta”, identificata con il proprio lavoro. Oltre tutto un lavoro talmente inviso alla gente da apparire vissuto in solitudine, lui seduto e il tavolino con i soldi della dogana, come in una prigione. Forse questo passo è un invito a interrogarci sul nostro personale rapporto con il lavoro, a domandarci se, seduti al nostro tavolo siamo o meno capaci di vedere altro.
Gesù guarda Matteo – Marco e Luca lo indicano con il nome di Le
vi – con l’occhio di Dio che non si ferma al fare esterno, lo invita nel gruppo dei suoi più vicini, lo conduce ad una mensa in cui non è il pasto a venire in evidenza, ma la condivisione amichevole tra discepoli e colleghi di lavoro dai quali è chiamato a separarsi, certamente stupiti. La scena è fra le maggiormente rivelatrici del Nuovo Testamento: è il superamento pratico della mentalità etica e ritualistica dell’ebraismo, timorosa di mancare di rispetto alla santità di Dio e perciò preoccupata di evitare ogni comunicazione con chi non vive questa etica, malfamati, impuri, pubblicani. Proprio quello che ufficialmente viene criticato è l’adempimento di quello che a Dio sta a cuore: Gesù vive le antitesi del discorso del monte: “Avete udito … ma io vi dico…” (Mt.5,20-48).
Gesù vive il passaggio tra la legge antica e la nuova, Matteo lo testimonia con la propria vicenda personale: lui era impuro, ma il Signore è venuto a chiamarlo. Egli ricorda alla comunità ed al lettore singolo che occorrerà sempre combattere con la tendenza moralistica, che tenterà di prevalere nella mentalità di molti ed abita in ciascuno di noi. La chiesa dei primi secoli ha ricordato frequentemente la vocazione di Matteo con la contestazione delle persone religiose, per combattere le tendenze puritane e segregazioniste che si manifestavano al suo interno. È un insegnamento di grande attualità anche oggi, in un momento in cui è sempre più frequente sottolineare la diversità tra puro e impuro, tra degno e indegno. Questa distinzione era fatta propria dall’Antico Testamento soprattutto per motivi di prudenza a difesa dall’idolatria, ma non può avere un valore assoluto.
Gesù cita la profezia di Osea – vissuto sette secoli prima di lui – e condivide la mensa di pubblicani e peccatori, per far capire che il cuore di Dio è l’amore che risana: egli non respinge i diversi e getta a mare solo i demoni, perché gli uomini sono tutti suoi figli, fra loro fratelli. Il Padre è misericordioso prima che esigente.
Il discepolo, perciò, dovrà guardare non all’esattezza materiale del culto, ma a quella carità che ha il primato su tutto, fino ad imitare Gesù, che mostra di anteporre la carità allo stesso onore di Dio. S. Paolo poi scriverà che l’uomo è il tempio di Dio da onorare prima di tutto (1Cor. 3,16), come Gesù aveva detto del fratello con cui riconciliarsi prima di andare all’altare (Mt.5,25). Quasi a dire che Dio può attendere, l’uomo no. Non comprendere questo rende a loro volta ammalati quanti sono prigionieri degli schematismi e perciò tutti siamo bisognosi di discernimento dei pensieri, delle parole, degli atteggiamenti, siamo chiamati a scoprire lo sguardo misericordioso del Signore che ci invita alla vita sua e alla libertà che ne deriva. Giovanni Paolo II affermando che “l’uomo è la via di Dio” riecheggia il pensiero di Agostino e dei Padri dei primi secoli: se si vuole onorare Dio bisogna amare l’uomo.
Domandiamo, nella sincerità della preghiera del cuore, la purificazione della mente, l’individuazione dei motivi veri che ci animano nei rapporti, dei pungoli che ci oppongono ai diversi, che, come in questi giorni, possono ricondursi a ragioni personali o politiche.
È la persona di Gesù la ragione del discepolo, al quale viene detto con amore esigente: “seguimi”: Gesù è la causa e lo scopo del seguire, non la sicurezza sociale. Matteo si è convertito perché ha visto Gesù convertito alla sua persona concreta, guardare alla sua vita, entrare nella sua solitudine. Questa cosa gli fa sperimentare la libertà da se stesso, fa crescere in lui non tanto l’esigenza d una penitenza rituale quanto la gioia di comunicare con amicizia e gesto umano di convivialità il dono ricevuto da quello sguardo che lo ha cercato nella solitudine.
Non è la mortificazione – pur necessaria ad ogni uomo che voglia essere protagonista del proprio vivere nelle scelte e nei rapporti -. non è la penitenza rituale che da lode al Signore, ma la vita condivisa, nella comprensione che egli ci guarisce non perché noi digiuniamo, ma perché egli mangia con noi.
Domandiamo la comprensione del cuore “più grande” in cui immergere il nostro piccolo cuore con le sue meschine valutazioni e misure, con le sue diffidenze e precauzioni, con le sue sottili invidie del bene che brilla in chi non avremmo pensato mai capace di bene, con la tristezza che è in agguato quando ci sentiamo obbligati ad essere buoni, onesti e fedeli. Pensiamo, tornando a casa: “Ero solo ed il Signore è venuto a svelarmi il bisogno di misericordia e a donarmela”. Il cuore di Dio è più grande del nostro.
Crediamo alla potenza dell’amore, che ci assicura:
“Vi darò un cuore nuovo,
metterò dentro di voi uno spirito nuovo,
toglierò da voi il cuore di pietra
e vi darò un cuore di carne”
(Ez. 36,26 )