XV DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 55,10-11; Sal.64; Rm 8,18-23; Mt 13,1-23)
Poco prima del brano della lettera ai Romani, propostoci oggi dalla liturgia, al versetto 15, Paolo aveva scritto: “Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi, per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo ‘Abbà! Padre’ “ È quello che abbiamo contemplato domenica scorsa. Da qui nasce in Paolo la coscienza del dono straordinario fatto ai credenti: “Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze, per partecipare anche alla sua gloria” (Rm.8,17) Il brano della lettera, che la liturgia ci propone oggi, non coinvolge solo il singolo credente nella propria interiorità e dimensione individuale; l’iniziativa di Dio nel dono di Cristo morto e risorto raggiunge la totalità dell’umanità e la totalità del cosmo: tutti gli uomini sono raggiunti nell’umanità dell’uomo Cristo e tutto il creato è candidato con l’uomo ad essere “dimora”, giardino di Dio. La sofferenza legata ala vicenda dei singoli e quella cosmica che l’uomo deve rispettare nel cammino del creato verso il suo compimento e nella collaborazione paziente al suo superamento, esce dall’oscurità disperante del non senso e si veste di speranza assumendo il valore altissimo del “compimento dei patimenti di Cristo” (Col.1,24), come qualcosa che il discepolo deve portare in sé, senza attendersi di essere esentato, ma assoggettandosi alla legge della gradualità, ”aspettando la piena redenzione del nostro corpo”, come una lunga gravidanza, una “doglia del parto”. Così Paolo considera la propria vicenda personale, una strada e scuola di condivisione di Cristo con i cristiani, “perché io possa conoscere lui, la comunione alle sue sofferenze, nella speranza di giungere alla resurrezione dai morti”, egli scrive ai Filippesi (Fil.3,10-11). Ci viene detto che l’assimilazione al Figlio di Dio comporta l’accettazione di tutto quello che egli ha accettato, come la “via” per entrare nella sua esistenza eterna. Non solo nel senso spirituale di comunione nel pensiero e nel cuore, ma di adesione concreta e quotidiana, perché tutta la vita sia un “seguire Lui”, un imparare a diventare “discepoli”. Tutti siamo chiamati a questa vita “insieme con Lui”. È un programma che libera dalla schiavitù della fatica e da ogni forma di paura: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi”, dice al versetto 18. La grandezza della speranza ha in sé il potere di ridimensionare la durezza del passaggio attraverso il varco stretto della sofferenza e persino della stessa morte fisica. La contemplazione della natura parla di questa via stretta, e la liturgia di oggi con i passi di Isaia 55 e di Matteo 13, invita a considerare il tempo presente come l’inverno che la terra vive soffrendo, mentre custodisce gelosamente e con trepidazione, proprio come una madre che è felice per la vita che porta in sé e allo stesso tempo trepidante per la delicatezza del custodire. L’osservazione della natura insegna a scoprire il senso positivo della sofferenza. È la bellezza del chicco di frumento che, se tenuto solo resta integro, ma in realtà è più bello quando, messo in terra si deforma e muore dando vita alla spiga. Così l’uomo e il creato, in un’unica vocazione alla vita per sempre; anche il creato, unito all’uomo a cui è stato affidato. Si direbbe che tutto il mondo è Figlio! Da qui la coscienza del rispetto del creato. Contaminare la terra non è cosa da poco. Non è cosa da poco attentare alla dignità della terra. Perché tutto è tempio dello Spirito Santo (1Cor,6.19) Impariamo a vivere come Gesù ha vissuto la sua esistenza e la sua morte, come vigilia di vita. Così tutto diventa positivo, come un parto, che dice non il travaglio del dolore, ma la vittoria della vita e la presenza di Dio Amore.