XVII DOMENICA T.O. – Anno A
(1Re 3,5.7-12; Sal.118; Rm 8,28-30; Mt 13,44-52)
Ancora pochi versetti dalla lettera ai cristiani di Roma, come un essere presi per mano da Paolo, che invita a non preoccuparsi per il peso della debolezza personale e per il gemito di sofferenza della creazione, che sembra ritardare l’avveramento della promessa di Dio, fino a vanificarla come si trattasse di una chimera. Paolo esorta a non lasciarsi derubare della speranza, perché lo Spirito fa suo il gemito e lo trasforma in potenza di vita: “Tutto concorre al bene”.
Tutto è parola che dice pienezza, non significa “quasi tutto”. Nulla perciò è escluso, neppure quello che appare incomprensibile, disumano, non conciliabile con la santità e l’amore di Dio. Tutto quello che entra nella storia e ne rallenta il cammino, sul piano personale e su quello socio-politico, i fallimenti e le colpe che si pongono come negatività, fonte di sfiducia, è orientato al bene. Alcuni manoscritti pongono, nella parola di Paolo, Dio come soggetto di questo orientamento, altri intendono che le cose stesse, nella loro apparente negatività, hanno una misteriosa capacità di orientare a Dio “quelli che lo amano”. Parole che sanno di definizione: i credenti sono quelli che credono all’amore e, credendo, vengono resi capaci di amare a loro volta chi li ha amati.
Commentando queste parole sant’Agostino dirà: “A favore di chi sia, Dio lo ha dimostrato. Dio è per noi nel predestinarci; Dio è per noi nel chiamarci; Dio è per noi nel giustificarci; Dio è per noi nel glorificarci … Che daremo in cambio allora? A lui la gloria. Perché non esistevamo quando siamo stati predestinati, perché eravamo lontani quando ci ha chiamati; perché eravamo peccatori quando siamo stati giustificati. Rendiamo grazie a Dio per non essere ingrati” (Discorso 158,1,3).
Il progetto di ogni vita è perciò nel cuore di Dio. Per realizzarlo, chiama. Chiamando riempie d’amore il cuore della creatura, e, riempiendola d’amore le permette di vivere per amore verso di Sé e nella reciprocità della relazione umana.
Paolo ci porta alla vocazione altissima dell’uomo nella fede cristiana. Dirà che Dio ha scelto l’uomo “prima della creazione del mondo” (Ef.1,3), facendone come un “tu” da cui essere amato e rendendolo capace di amare con la sua iniziativa di “Io” che ama per primo.
Vocazione dell’uomo ad essere “immagine” del suo Creatore, vocazione a conformarsi a Cristo che ne è la visibilità umana. Progetto per ogni singolo uomo, ma progetto per l’umanità, che perciò non può essere accolto in atteggiamento individualistico. Il credente nel Vangelo non può pensarsi come membro di una porzione privilegiata di umanità, elitaria e distinta dal resto, ma come porzione consacrata, messa a parte nella coscienza di fede che genera la responsabilità, come mostra la preghiera del giovane Salomone nella prima lettura della liturgia di oggi, o la radicalità dei protagonisti delle parabole di Matteo: di essi sono dette le espressioni “pieno di gioia” e l’altra, (ripetuta due volte) “va, vende tutti i suoi averi”.
Il loro è lo scoprire con gioia il bene a cui tutta la vita ha concorso, il bene più grande che domanda il primato nell’esistenza umana, il bene della fraternità che è la passione del cuore di Dio.
La fraternità di Cristo con ogni uomo interpella il credente.
Forse c’è poca gioia nell’esistenza di tanti credenti perché manca la passione del farsi carico di quello che a Cristo sta a cuore. Forse ci si contenta di una appartenenza generica, che non si domanda di rispondere con i fatti all’Amore eterno che ci ha “covati” in cuore “prima della creazione del mondo”.
Può accadere di non avere gioia dentro perché demotivati e senza entusiasmo, senza coraggio di considerare qualcosa come “tesoro”.
Può accadere di sentirsi costretti da un’etica oppressiva, perché non abbastanza liberi, di quella libertà che deriva dal sentirsi amati e capaci di amare.
È quello che lo Spirito oggi ci propone di pensare e sperimentare, tenendo gli occhi nel volto dei fratelli affamati di pane e di amore nella tragedia della carestia in Africa.