XX DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 56,1.6-7; Sal.66; Rm 11,13-15.29-32; Mt 15,21-28)
Si può avvertire una sensazione di disagio per l’atteggiamento di durezza, che non ci si aspetterebbe da Gesù, nei riguardi della povera donna, straniera per gli ebrei, che gli grida il proprio dolore di madre angosciata e lo supplica: “Signore, aiutami!”. Bisogna uscire dalla reazioni emotive che si fermano al primo ascolto del racconto. Bisogna chiedere di poter comprendere che cosa il Signore abbia voluto insegnare con il suo comportamento inconsueto e come questo comportamento sia coerente con l’annuncio di Dio misericordioso e potente nella sua paternità, commosso e tenero nella sua maternità. E’ quello che aiuta a fare la liturgia di questa domenica, ad iniziare dalla preghiera con cui abbiamo domandato al Padre dei cieli: “Rivestici dei sentimenti (del tuo Figlio) per rendere continua testimonianza con le parole e con le opere” Il profeta Isaia, quello che gli studiosi chiamano il terzo, perché discepolo del primo, e distino dal secondo, ha scritto gli ultimi dieci capitoli del libro che la Bibbia custodisce come il libro di Isaia; invita il popolo, un po’ stanco e demotivato dopo il ritorno dall’esilio, a leggere la propria storia di umiliazione e di dolore con lo sguardo di Dio. Quello dell’esilio non è stato solo tempo lungo e penoso di deportazione, ma anche di luminosa rivelazione. Israele ha conosciuto altri popoli, altre tradizioni. Ha imparato che figli di Dio non sono soltanto gli ebrei deportati, ma i popoli stranieri, quei popoli di cui fanno parte persone che “hanno aderito al Signore per servirlo, per amare il nome del Signore”. Di queste persone che vogliono servirlo, per bocca del profeta, Dio Parla: “Li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa, che si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli”. Il profeta invita perciò a guardare la realtà con lo sguardo e il cuore di Dio, a fare proprio il suo amore “per tutti i popoli”, ma la sua esortazione non trova spazio e comportamento docile nel popolo ebreo, geloso della propria identità. Anche ai tempi di Gesù gli stranieri venivano indicati con il nome di “cani”, come appare dalla parola aspra, anche se attenuata dal diminutivo, di Gesù e dal comportamento seccato e frettoloso degli apostoli, che invitano il Signore a licenziare la donna “perché ci viene dietro gridando”. Gesù rivendica la priorità della propria missione per il popolo scelto da Dio, e vuole essere fedele al progetto del Padre che si va attuando nella storia con la gradualità di un filo d’oro che passa attraverso epoche e persone e perciò non desidera proporsi come un essere straordinario, che ha poteri persino sulla morte e tira la gente con un criterio individualistico. Perciò non vuole forzare i tempi: lo aveva detto anche a Maria e ai discepoli quando la madre gli aveva domandato a Cana di intervenire (Gv.2,4). Perciò non vuole anticipare i tempi, ma rispettare il disegno di Dio. Non vuole agire come un protagonista, ma vuole fare quello che il Padre gli propone. Questo Gesù, nel dialogo con la donna, conduce i discepoli alla scoperta che nel cuore di lei c’è “la grande fede”, lo spazio in cui nasce la preghiera, lo spazio della speranza. Gesù esulta di gioia perché quel dolore atroce di lei, incontrandosi con il proprio atteggiamento apparentemente sordo al grido di aiuto, è rivelazione della presenza di Dio nel cuore della donna. La commozione di Gesù non è soltanto per quell’angoscia, ma è l’esultanza per il fatto chele parole di Isaia si sono realizzate: il Padre è riconosciuto dai popoli. E questo appare evidente nella fede dei poveri, nel presente di quel momento con la vicenda della cananea, come era precedentemente accaduto in quella del centurione romano che Matteo racconta al capitolo 8 (/Mt.8,5-13), come accadrà a Pietro a casa di un altro centurione romano nel racconto degli Atti (Atti 10). In queste creature l’amore che si fida e si affida diventa la via semplice e diretta per l’incontro con Dio, e per tutti noi la certezza del cammino del Vangelo nel cuore dell’umanità intera. Il nostro tempo, insieme al tanto dolore per l’indebolimento della fede e per la cosiddetta, apparentemente vincente, “insignificanza di Dio”, ci dona la sempre più evidente partecipazione alla vita della Chiesa di fratelli e sorelle provenienti dai paesi del mondo di minore sviluppo e perciò bisognosi di emigrazione. La loro densità di preghiera e la loro umiltà di atteggiamento è testimonianza del’instancabilità della Parola che percorre il mondo e la storia. L’abbandono all’Amore, creduto intimamente, anche senza titoli da rivendicare, anche come “cagnolini”, è quello che sta a cuore a Gesù, e perciò Matteo ce lo trasmette e ce lo comunica, perché lo custodiamo.