XXV DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 55,6-9; Sal.144; Fil 1,20-24.27; Mt 20,1-16)
Il Vangelo di oggi è tratto dal capitolo 20 di Matteo.
Nel capitolo 19 egli aveva riportato le esigenze forti del Signore sul matrimonio considerato indissolubile, sulla necessità di non essere schiavi del danaro: erano parole forti. I discepoli avevano capito, e avevano aderito al programma impegnativo di Gesù, anche nei confronti della necessità del perdono, come abbiamo visto domenica scorsa. Matteo, allora, aveva fatto domandare a Pietro, che è sempre l’interprete delle problematiche dei discepoli, quale sarebbe stata la loro ricompensa. Gesù aveva risposto con un’affermazione ampia, ma misteriosa: avrebbero ricevuto cento volte tanto per quanto avevano lasciato e in eredità la vita eterna: l’immedesimazione con la vita della Trinità. L’intento di Gesù è rivelare che il dono di Dio all’uomo è molto superiore ad ogni logica umana di retribuzione, e non possiamo immaginarne né la consistenza né la modalità.
Per aiutarci ad entrare nella luce di questa rivelazione, la liturgia ci prepara con la lettura tratta dal capitolo 55 del libro di Isaia. Il Signore – essa ci dice – non è mai sufficientemente conosciuto dall’uomo, bisogna cercarlo con la mente e con il cuore, pregarlo con umiltà, per non correre il rischio di andare per vie che non sono di Dio, di pensare con pensieri che non sono i suoi. Per tre volte è usato il verbo “sovrastare”: è un invito all’umiltà della mente e del cuore, a mettere da parte ogni pretesa di giudicare l’agire di Dio, di dargli consigli … Nel cuore dei credenti – ammonisce Matteo – può anche abitare la recriminazione, il malanimo, quell’”occhio cattivo”, di cui parla il Deuteronomio (Dt.15,9), che è segno di un cuore indurito, della “sclerocardia” che ci insidia e non ci apre all’ascolto della Parola. Chi si sente creditore nei confronti della vita e di Dio, spesso resta prigioniero della logica della retribuzione, rischia di considerare la gratuità come un furto, un’offesa alla giustizia.
Cerchiamo di comprendere con cuore umile, sgombro da pregiudizi, che solo il Signore è buono e che non ci è permesso di giudicare. Al giovane che lo aveva chiamato “buono”, Gesù aveva risposto: “Dio solo è buono” (Mt.19,17), per farci capire che dobbiamo compiere un lungo cammino per raggiungerlo. Davanti alla mentalità del diritto, rivendicato individualmente o perché partecipi di un gruppo privilegiato, Matteo evidenzia l’infinita libertà di Dio, rivelata dal comportamento di Gesù. Il Padre accoglie tutti ed è capace di attendere l’ora propizia a ciascuno, ora diversa per ognuno di noi. La sua bontà e la sua accoglienza si manifestano con l’invito alla vita proprio nei confronti di quanti la vita non hanno saputo spenderla, perdendo i propri giorni sulla piazza. Da parte di quanti dicono: “nessuno ci ha presi a giornata” il Padrone, che ha chiamato tutti fin dall’inizio, si contenta di una risposta al tramonto – a costo di rinunciare al diritto di chi già aveva chiamato al mattino, e avrebbe potuto smentire il “nessuno ci ha chiamati”.
Matteo fa così capire ai discepoli che devono guardarsi dalla logica del merito e della retribuzione per vivere la gioia di avere un “Dio buono”, i cui pensieri ci sovrastano e si possono scoprire solo guardando il suo modo di agire nella storia. Il discepolo non è l’uomo che contesta, ma l’uomo della gioia. Con voi, maturi nella fede, posso permettermi un’espressione forte: la gioia del discepolo di Gesù non consiste nella pretesa bravura di chi ritiene di essere a posto in tutto. È la gioia di Giovanni Battista che si definisce “amico dello sposo” e dice di sé che “esulta di gioia alla voce dello sposo” (Gv.3,29). Gesù aveva detto a Pietro di perdonare 70 volte 7, così oggi ci dice di lasciare lo spazio angusto dei calcoli e dei raffronti per respirare lo spazio infinito dell’amore di Dio.
Chiediamo al Signore la grazia di essere “amici dello sposo”, non poveri manovali delle cose di Dio. Ma cominciamo dal piccolo. Nelle piazze c’è l’umanità in attesa.
Sostiamo, per scrutare i visi dei tanti che sono sulle piazze: che cosa significa quell’attesa? L’inerzia, l’anonimato, la folla, la mancanza di motivazione, l’inquietudine, l’insoddisfazione, pur tra mille soddisfazioni… Manca qualcosa o manca Qualcuno? Il discepolo, amico del Signore, deve imparare a leggere questa attesa, questa ricerca forse inconsapevole, di tanti. Bisogna pensarvi per esigenza di fraternità. Se non si pensa non si è più uomini, tanto meno cristiani. Bisogna cercare con chi cerca, umilmente, senza pregiudizi. Chiediamo con Agostino: “Fà, o Padre, che anche io ti cerchi, ma difendimi dall’errore, affinché, mentre io ti cerco, nessun’altra cosa mi venga incontro, invece di te” (Agostino, Soliloqui, 1,6).
Matteo ci invita a guardare con fiducia ai tanti che prolungano il tempo delle decisioni che contano nella vita, contemplando con riconoscenza il Signore che non si stanca di uscire e di chiamare, ad ogni ora della persona e della storia, perché tutti abbiano la possibilità di incontrarlo. Guardiamo la piazza con simpatia per l’uomo del nostro tempo, che si dibatte nella ricerca, e condividiamo la passione del Signore per l’umanità. Facciamo nostro l’umile accento di Zioviev: “Ti supplico, mio Dio, cerca di esistere, almeno un poco, per me; apri i tuoi occhi, ti supplico”.
San Paolo vuole uscire sulla piazza, ha nel cuore un fuoco che vuole comunicare all’umanità e ci dice: “Comportatevi da cittadini degni del Vangelo”. Questo toglie la cattiveria dell’occhio quando guardiamo la piazza, e invita a sostare con chi attende. Forse il Signore vuole comunicare con il fratello anche attraverso la nostra umile persona.
Per comprendere il messaggio del passo evangelico che abbiamo ascoltato è necessario per ciascuno di noi uscire dalla mentalità rivendicativa dei diritti. Il comportamento del padrone della parabola è segno solo di Dio, del suo cuore, del suo pensiero, perciò da contemplare, accogliere, guardare come ideale filiale, con fiducia ed umiltà, senza la pretesa di poterne essere imitatori perfetti. È necessario anche uscire dalla mentalità settoriale di chi si sente nel privilegio dell’anzianità della risposta, che può insidiare la gioia della fraternità. Ed uscire dalla condizione dell’ “occhio cattivo” che può ostacolare l’annuncio della paternità gratuita e della bontà di Dio, che si esprime con libertà creatrice nelle mille strade dell’amore, e viene incontro ad ogni uomo in ogni momento, anche il più imprevedibile .
Dice il libro dei Proverbi:
Colui che ha l’occhio buono sarà benedetto,
perché dividerà il suo pane con il povero”
(Pr.22,9)
e
“Non mangiare il pane di colui che ha l’occhio cattivo;
ti dirà ‘mangia e bevi’, ma il suo cuore non è con te”
(Pr.23,6-7)
L’ “occhio buono” è forse la richiesta più forte di questa pagina di Matteo: dice un atteggiamento fondamentale dell’amore del prossimo che ispira generosità nei suoi riguardi, all’opposto dell’occhio cattivo che fa pensare all’atteggiamento egoistico di chi vuole solo accaparrare e guarda fuori di sé con invidia, gelosia ed odio. Non solo in campo di prestigio sociale ed economico: la polemica di Gesù con certi pensieri religiosi e nazionalistici presenti nella Palestina del suo tempo è originata dal suo rifiutare nettamente la pretesa di ritenere il beneficio ricevuto con l’elezione e l’alleanza come un patrimonio nazionale che comportasse l’impossibilità dell’universalismo senza esclusioni.
La parabola fa comprendere concretamente il comportamento di Gesù in tutto il vangelo di Matteo, che è rivelazione del Padre di tutti: tratta con uguale bontà giudei e pagani, giusti e peccatori. E pone il segno della fine delle esclusioni religiose e sociali nella preferenza degli ultimi. Questo è il senso della chiamata a tutte le ore, con la compromissione inimmaginabile dell’uscire a cercare nuovi candidati al suo “salario” per ben cinque volte nella giornata. La linea giuridica ed economica è totalmente oltrepassata dalla linea della gratuità che rivela la premura paterna verso ciascuno. È la bontà che spinge e perciò non fa ingiustizia ad alcuno. Il lamento di chi obietta dice il limite di chi monetizza la ricompensa per la propria risposta, vanificandola nella pretesa di favori da esigere, e non si rende conto che il salario del Padre è lo stesso Padre, Dio stesso. Come al capitolo 15 del vangelo di Luca, il padre misericordioso parla con amore al figlio maggiore, chiuso nel suo diritto, dicendogli: “Tu sei sempre con me e tutto quello che è mio è tuo” (Lc.15,31), così ora Gesù cerca di convincere chi lo ascolta perché comprenda quello che batte nel cuore del Padre, uscendo dai giudizi sui comportamenti di quanti, ai nostri occhi non sempre buoni, appaiono “oziosi” nel bene. Dio è il “salario” e il suo amore è tanto grande da suscitare la vita anche alla fine della giornata.
Matteo invita alla moderazione, alla mitezza, a non far sentire a disagio i fratelli in difficoltà; e chiede d guardare con attenzione al gesto dell’amministratore che esegue l’ordine ricevuto di dare a tutti il salario, iniziando dagli ultimi, perché i primi capiscano che Dio tutti vuole adunare in sé, in una fraternità che tutti vuol raggiungere. Il salario non è premio al merito, ma dono di grazia per chi non ha meriti adeguati, e siamo tutti.
Chi è consapevole da più tempo, con gratitudine se ne dovrà sentire segno visibile. Perciò, come ci ha ricordato Giovanni Paolo II, la Chiesa non dovrà essere il luogo della ricerca del bene individuale, ma “casa e scuola di comunione”. Non è la soddisfazione per il proprio “salario” che fa il cristiano, ma il “salario” di ogni uomo nelle mani e nel cuore di ogni uomo, perché questo è il Regno di Dio, non solo nel senso definitivo dell’al di là, ma anche nel presente della comunità umana.
C’è un risvolto sociale nella parabola. Anche in un ipotetico mondo senza poveri, lo stile di vita di un discepolo di Gesù rimarrebbe la comunione dei beni, perché dice a fatti il vangelo di Dio, Padre di tutti, e l’illusione di chi tiene stretto il proprio bene, senza condividerlo, facendolo diventare un male non solo per gli altri, ma per se stesso, perché privato della relazione e della reciprocità. L’amore che non circola muore. Il gioco della Provvidenza mi ha permesso in questo periodo l’incontro con tre imprenditori: uno di loro mi diceva la sua difficoltà a mandare a casa i propri dipendenti –a motivo delle problematiche economiche del momento – perché lasciare a casa una persona significava lasciarla nella miseria. Un altro ha detto che, pur di non licenziare, aveva deciso – d’accordo con la moglie – di rinunziare al proprio stipendio.
L’attenzione del Padre che esce incessantemente alla ricerca di chi sta “ozioso” sulla piazza della vita fa pensare che le forme di miseria hanno molto a che fare con i rapporti, prima ancora che con le cose. La povertà nel mondo è segno di un malessere nei rapporti. Per di più la miseria rende “oziosi”, e questo incattivisce l’occhio di chi guarda, inducendo al giudizio sull’immeritevolezza del salario e impedendo di comprendere che demotivazione e oziosità hanno sempre a che fare con rapporti sbagliati o malati. Per questo l’occhio buono del Signore va a cercare senza stancarsi e interpella.
Tutti, penso, abbiamo – dinnanzi a questa riflessione – la necessità che la grazia del Signore purifichi il nostro occhio, rendendolo buono, ad immagine e somiglianza dell’occhio del Padre di tutti.