XXVII DOMENICA T.O. – Anno A
(Is 5,1-7; Sal.79; Fil 4,6-9; Mt 21,33-43)
Abbiamo domandato a Maria, nella preghiera, di benedire i frutti del nostro lavoro. I frutti della vita di Maria – che noi meditiamo come “misteri”, quando recitiamo il Rosario – si riferiscono all’interezza della sua vita di donna alla sua psicologia, alla sua spiritualità. Che ella ci guidi ora in questa nostra meditazione, ci aiuti a non essere per Dio una delusione. Ma invece, almeno in parte, la sua gioia.
La parabola che abbiamo ascoltato è inserita nel capitolo 21 del Vangelo di Matteo ed è come una sintesi dell’agire di Dio con l’uomo, che, nella liturgia di oggi, è sottolineato anche dal passo di Isaia e dal Salmo. Tante volte indichiamo questo agire come “storia della salvezza”, dalla fase iniziale dei patriarchi alla Chiesa, dai profeti a Gesù, da Gesù a noi. All’inizio c’è un amore forte, gratuito e longanime, fedele e paziente, descritto da Isaia e da Matteo nei particolari di attenzione che il padrone ha per la vigna, attenzione non usuale nei lavori agricoli. Ma la vigna del Signore è il suo popolo e Matteo ne parla non come una parabola, bensì come un’allegoria in cui ogni particolare rimanda ad un’altra realtà, più grande, che è nel cuore di chi parla.
La “vigna” richiama il popolo che il Signore ha scelto ad essere segno e modello per gli altri popoli. Così ogni gesto del padrone verso la vigna richiama l’intenzione di Dio, che ha seguito personalmente Israele, perché sia preparato a questo compito: “Io, il Signore, vi ho separati dagli altri popoli” (Lev.20,24).
Facciamo attenzione ai verbi usati da Matteo: la vigna non è “affittata”, ma “affidata” a persone, i “vignaioli”, che sono state rese idonee alla missione attraverso un patto, un’alleanza, fondata sulla confidenza e sulla fiducia. Nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni – parlando ai discepoli in un lungo discorso, carico di emozioni e di sentimenti forti, che rivela il suo colloquio eterno nella vita trinitaria – Gesù dirà loro: “non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre lo ho fatto conoscere a voi”(Gv.15,15). L’affidamento è questa confidenza profonda di Gesù, che rivela il mistero del suo parlare con il Padre, perché i discepoli vi restino costantemente immersi se vorranno portare frutti veri e duraturi (Gv.15,16). Nella solitudine della fede i discepoli dovranno sapere che per dare frutti dovranno essere immersi in questa confidenza: io che vi parlo, la coppia che dialoga al suo interno e con i figli, ogni uomo al suo posto di lavoro, dobbiamo ascoltare prima quello che il Padre dice al Figlio in noi, “nell’uomo interiore in cui abita” (Ag.), e solo poi pronunciare le nostre parole umane. Qui nasce l’urgenza del momento contemplativo nella vita di ogni credente. La vigna ci è affidata e ci è chiesto di essere fedeli a chi ce la affida.
Veniamo ora ad un secondo punto, la longanimità del padrone, che si ritrae, “se ne andò” dice Matteo, per mettere in evidenza la responsabilità, lo spirito di collaborazione, il consenso creativo di quanti sono da lui chiamati con fiducia. Il padrone non è impaziente, ha rispetto per la libertà e per i tempi di ciascuno, e tuttavia continua a seguire l’andamento delle cose, non apparendo, ma inviando dei servi. La constatazione ripetuta dell’infedeltà non scoraggia il suo amore fedele che, anzi, crea nove iniziative fino all’invio del figlio. L’allegoria rimanda al Figlio eterno, a Gesù, incarnato perché finalmente venga compreso che l’insistenza di Dio non nasce da possessività né da interesse egoistico, ma dall’urgenza del cuore del Padre, che vuole comunicare la propria esistenza a tutta l’umanità, vuol farne “la vigna”. Il dramma del rifiuto nell’uccisione del figlio dice con chiarezza quanto ogni pretesa di chiusura, di privilegio di un popolo su altri popoli sia radicalmente contro l’intenzione di Dio sull’umanità e sulla storia.
Quanto avvenne non riguarda solo il popolo ebreo e i suoi capi al tempo di Gesù, come una certa interpretazione ha indotto a credere, quasi giustificando un antisemitismo cristiano. Riguarda la Chiesa stessa e tutta l’umanità. Ogni particolarismo che si impossessi della verità a scapito dell’uomo, ogni vittoria del più potente conquistata con la forza è contro il disegno di Dio.
L’invito forte che viene dal Signore è pensare il “fare frutto” nella luce del crocefisso risorto. “La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri”: sono le parole del Salmo vissute da Gesù. Lui scartato è quello cui è consegnata la vigna per sempre, Lui Dio ha posto come fondamento. Pietro lo ripete al Sinedrio dopo la resurrezione (Atti 4, 14). Non c’è strada cristiana diversa da questa. Accogliendola noi siamo gli amici di Gesù, quelli che nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni egli chiama fratelli ed ama profondamente Allora la vigna diventa la Sposa.
Comprendiamo così che la vigna non è frutto di operazioni di mercato, ma di dono. Il Signore ci chiede di essere i suoi vignaioli, non con mentalità di possesso, ma di dono, aderendo alla pietra che Dio ha posto a fondamento della sua opera, la Chiesa, perché sia “la famiglia umana riconciliata nella pace”. L’incontro forte con il crocefisso risorto fa di noi suoi consanguinei, della Chiesa la Sposa: “la vigna mia, proprio mia, mi sta davanti” (Ct.8,12), l’umanità senza chiusure. Allora si comprende la vigna come una realtà in cui si scopre non uno che vuole possedere l’altro, ma uno che desidera appartenere all’altro e attende che l’altro gli appartenga.
La tradizione cristiana ha visto Maria come l’esempio della vigna.
Nel IV secolo S.Efrem Siro così scriveva:
La vergine vite ha dato un grappolo il cui vino è dolce
E per esso furono consolati dalle afflizioni
Eva ed Adamo che erano nel pianto;
gustarono il farmaco di vita e con esso furono consolati dalle loro afflizioni”.
Chiediamo a Maria di essere portatori del frutto della vite, che è Gesù benedetto
La “vigna” è un’allegoria – un’immagine che conduce ad una realtà più grande. Non indica l’Israele storico, le persone di un certo periodo, ma una realtà permanente, che ci riguarda tutti: è viva come progetto nel cuore di Dio ed in continua attuazione. È quello che Matteo e tutti noi che leggiamo chiamiamo “il Regno”. È perciò la proprietà di Jahve, a cui sono legate tutte le promesse con il culmine del dono del Figlio, che è l’espressione massima del suo amore per l’uomo. Dopo il Figlio non può donare più nulla. È la Parola completamente detta, l’amore completamente speso.
Da questo Padre che manifesta pienamente se stesso come dono incessante, viene la rivelazione di un’attesa di reciprocità, di “frutti”, che Matteo evidenzia con la citazione del capitolo 5 del libro di Isaia, dove il profeta esplicita che l’attesa è collocata nei frutti di giustizia. Il Regno – questo è un pensiero costante in Matteo – si instaura e si espande non per l’appartenenza etnica o per la tradizione religiosa: non nell’avere “per padre Abramo”, come viene detto al versetto 9 del capitolo 3, ma per le opere di giustizia, buone e concrete. La loro mancanza è motivo di “delusione” nel cuore di Dio. La delusione è un’esperienza che appartiene alle nostre vite: quante situazioni, quante persone care vengono meno alle nostre attese, alla nostra speranza di stabilità e profondità nell’affetto…
La liturgia propone con chiarezza questi termini, che la meditazione della Parola accoglie con sorpresa perché siamo abituati, nei discorsi e nello studio, a pensare Dio in modo astratto, lontano dalla storia e dalla vita quotidiana, impassibile e irraggiungibile. Ma Matteo ci invita ad andare oltre il nostro modo di concepire Dio.
I termini della Scrittura non sono solo degli antropomorfismi, esempi per farci comprendere meglio, ma annunciano un cuore, come centro dell’essere in cui abita l’amore irriducibile, che soffre per il mistero di un cuore che non si rende disponibile al suo proporsi. La delusione è anche nel cuore di Dio, immenso e potente.
“Che dovevo fare ancora per la mia vigna, che non abbia fatto? Perché?”: è un interrogativo che dice passione, dolore intimo. Ma Dio non si lascia paralizzare dalla delusione: “Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: ‘Avranno rispetto per mio figlio!’ ”.
Quale è l’oggetto della delusione? Forse si può fare riferimento all’episodio raccontato dalla Bibbia nel libro dei Numeri, dove si racconta che Mosè mandò, in esplorazione della terra in cui stavano per entrare, due giovani e che questi tornarono con un enorme grappolo d’uva su una stanga portata da entrambi, segno dell’avveramento del dono della terra e della fecondità (cfr.Num.13,23). Così Isaia ci stupisce parlando della delusione di Dio non per mancanza di reciprocità affettiva – come quando soffriamo per la freddezza di qualcuno che amiamo – ma a motivo della fiducia tradita per il clima sociale di ingiustizia, oppressione, violenza. Così Matteo aveva riportato le parole di Gesù nel discorso del monte con l’invito a guardare l’esempio perfetto del Padre, per dire che occorre considerare il rapporto con Dio non solo come fatto religioso, devozionale, sentimentale, ma come il più dell’attenzione ai fratelli. È così che si diventa “figli del Padre vostro celeste” (Mt.5,43)
Possiamo trarne la conclusione che quel grappolo è il segno che Dio attende dall’umanità vigna-regno, il “di più” del vangelo.
E l’insistenza del padrone della vigna, la sua decisione a non rinunciare, l’affermazione di fare del Figlio obbediente la “pietra d’angolo”, conduce al discernimento delle resistenze che ritardano il cammino del regno. Delusione di Dio, dice Matteo, in tutto il suo scritto, è l’ascolto superficiale della Parola, l’atteggiamento epidermico di chi pensa la fede limitatamente ad una ritualità che invoca e non opera nei fatti. Delusione di Dio è il non rispondere all’invito di prendere posizione tra Dio e il danaro. Il Signore chiede all’umanità di essere libera dall’idolatria del danaro: l’oppressione, l’affanno, l’angoscia, l’ansia, l’agitazione, sono il segno del pagano, la serenità quello del discepolo (Mt.6,24-26). Delusione è la riluttanza ad entrare nella misura superiore della giustizia che è il perdono, ad imitazione del Padre, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni (Mt.5,45). Non si può essere figli di Dio, abitanti della vigna, se non si pensa che il sole è per tutti, e che sulla nostra terra c’è posto per tutti.
Le espressioni forti ed accorate di Isaia evidenziano gli ambiti in cui la Parola non è entrata a germogliare i suoi frutti. E le drammatiche vicende del nostro tempo invitano abbondantemente ad immettere in quegli ambiti le radici del pensiero di Dio su di essi. Il frutto che Dio attende è una storia che non generi grappoli rossi di sangue o amari di lacrime.
Il brano richiama la sofferenza atroce dell’amore non corrisposto; ha una valenza non solo collettiva, di popolo, di comunità di fede, ma ha anche valore individuale, personale: quali sono i miei frutti? Ognuno di noi è la vigna, destinataria di un amore personale, come la fidanzata del cantico, di cui lo Sposo dice: “La mia vigna, proprio mia, mi sta davanti” (Ct.8,12).
Questo amore attende di poter cogliere frutti di donazione, nell’attenzione ad evitare l’errore dei vignaioli tesi a prendere per sé i frutti, anziché preoccupati di far nascere e maturare la vita per la fame e la gioia dei fratelli. C’è sempre il rischio di pensarsi più vendemmiatori che servitori, più fruitori che costruttori della vita.
E Matteo oggi ce lo ricorda.