XXXI DOMENICA T.O. – Anno A
(Ml 1,14- 2,2.8-10; Sal.130; 1Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12)
Lo stile di questa invettiva di Gesù, che troviamo solo nel Vangelo di Matteo, ci sorprende: mai egli è stato così deciso nell’affrontare i farisei. Per averne la chiave di lettura dobbiamo leggere tutto il capitolo 23, dedicato allo scontro con gli scribi e i farisei nel cortile del tempio: cosa che forse ci sarà possibile in questo giorno festivo. Il capitolo si conclude così; “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto” (v.37).
L’invettiva è dunque l’espressione accorata dell’amore deluso di Dio.
Il racconto di questo episodio, avvenuto alla vigilia della passione di Gesù, permette a Matteo di ricordare che le sue parole non sono rivolte solo ai responsabili religiosi e civili del popolo ebreo, ma anche “alle folle e ai suoi discepoli” (v.1) e perciò a tutta la Chiesa, a ciascuno di noi.
La ragione del giudizio negativo del Signore è nell’espressione: “dicono e non fanno”, che stigmatizza l’incoerenza dei suoi oppositori. Quello che essi dicono è valido, perché viene da Dio. Perciò Gesù esorta: “quello che dicono fatelo e osservatelo”. Ma fra quanto dicono e quanto fanno c’è una profonda dicotomia; perciò egli soggiunge: “non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno”. Al termine del Discorso della Montagna, Matteo aveva già rimproverato l’incoerenza dei discepoli che dicono: “Signore, Signore”, ma non fanno quello che Dio desidera da loro (Mt.7,21). Ma ora egli dice che per coloro che hanno incarichi di insegnamento e di guida l’incoerenza è più grave. È intollerabile insegnare e poi non assoggettarsi nella vita concreta a quello che la dottrina comporta. Matteo ha davanti agli occhi e propone ai lettori l’immagine di Gesù che invita a prendere il suo “giogo”, dopo che egli lo ha assunto nell’obbedienza umile.
Da qui nasce la condanna di una spiritualità esteriore, esibizionistica, dove la accuratezza organizzativa, e la perfezione culturale e liturgica tende a supplire il vuoto di interiorità, pur impressionando la gente e suscitando consensi emotivi e superficiali. Perfino l’elemosina, se fatta per esibizionismo, può diventare insulsa e blasfema (Mt.6,1-4). Nel nostro incontro personale con il Signore dobbiamo sempre domandarci quali sono le vere motivazioni della nostra vita, se magari ci accostiamo a lui solo per apparire o per sentirci realizzati.
Ma il discorso di Gesù ha anche un aspetto positivo: considerare come deve essere, invece, la relazione tra i discepoli. “Ma voi…”. Dall’invettiva nasce un insegnamento costruttivo, che certamente è quello che sta più a cuore a Matteo: egli scrive perché i cristiani si sentano messi in guardia e imparino. Per tre volte è detto: ”Non fatevi chiamare … non chiamate” ed è ripetuto “Uno solo …”. È un’esigenza profonda anche per l’oggi: la relazione giusta per i discepoli è la fraternità. I credenti dovranno alimentarsi della verità illuminante dell’unico Padre, che dona ad ogni uomo la dignità di figlio. Quando recitiamo il Padre Nostro cadono le differenze tra gli uomini! Tutti devono radicarsi nell’esemplarità dell’unico maestro che è Gesù Cristo, servo di tutti. Egli sarà con i suoi nella misura in cui essi si guarderanno tra loro come fratelli, pronti a dare la propria vita gli uni per gli altri, assumendo come legge l’amore reciproco. Senza questa tensione il cristianesimo sarebbe un’associazione religiosa, un club di approfondimento culturale, ma non una fede. Solo se, guidati dallo Spirito, i cristiani assumeranno questo atteggiamento di incontro fraterno potranno annunciare al mondo il dono liberante del Vangelo.
In questo passo Matteo sembra spingersi a ridimensionare il principio di autorità, che pur aveva indicato, nel capitolo 16, con l’incarico di guida dato a Pietro. Egli lo fa perché non vuole che si verifichino abusi. I titoli che possono porre problemi all’interno della fraternità comunitaria, vanno lasciati cadere perché intimidiscono la semplicità della relazione. Tanto più le rivendicazioni di superiorità e di potere tra i membri della chiesa. La comunità di fede non è come una società di questo mondo, dove le gerarchie umane contano: così ha detto Gesù a Giacomo e Giovanni, desiderosi di prestigio. In essa i più grandi sono gli ultimi, l’unico primato che conta è quello dell’abbassamento e il servizio. Ogni titolo, sembra dire Matteo, contiene in sé il rischio di una pretesa di diritto di controllo o dominio degli uni sugli altri. Perciò: “Non così dovrà essere tra voi” (Mt.20,25-26). Dire “Maestro mio” al tempo di Gesù, dire “monsignore” o “eccellenza” nel tempo della chiesa, nel nostro tempo, può essere di intralcio al primato della fraternità.
Valgono per noi oggi le parole di Gregorio Magno:
“È meno povero chi è senza vestito che chi è senza umiltà…
I santi, quando sono incaricati di governare, non guardano in sé il potere di ordine, ma l’uguaglianza di condizione e non godono nel fare da superiori, ma nel fare del bene agli altri”
(Commento a Giobbe, 21)
“Il più grande tra voi sia vostro servo”.
Questa è l’immagine di Chiesa che Matteo ci consegna, chiamandoci tutti a convertirci a questo ideale che rende credibile il Vangelo: la fraternità ad ogni costo, una Chiesa di uguali, guidata dallo Spirito, che seguono Gesù, fratello dell’umanità.