III DOMENICA DI AVVENTO – Anno B
(Is 61,1-2.10-11; Lc 1; 1Ts 5,16-24; Gv 1,6-8.19-28)
Prima di iniziare la nostra riflessione forse può essere utile ricordare che nel Nuovo Testamento i Giovanni sono due: il Battista e l’Evangelista. Il primo è il figlio di Zaccaria e di Elisabetta, la cui nascita fu rivelata dall’Angelo a Maria… Di qualche mese più grande di Gesù, ne annunciò l’arrivo, lo battezzò nel Giordano, imprigionato da Erode, fu decapitato. Il secondo è l’autore del Vangelo che abbiamo letto: fu discepolo prediletto di Gesù, autore del IV Vangelo, di tre lettere e del libro dell’Apocalisse. Forse l’unico degli Apostoli a non essere martirizzato, morì, vecchio, nell’isola di Patmos. Oggi li ricordiamo entrambi.
“Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui”. Il IV Vangelo ci presenta Giovanni, il Battista, come il testimone, l’annunciatore, che indica la presenza di Cristo. Egli fu testimone con tutta la sua persona, con il nome stesso, che l’Angelo indicò a Zaccaria e che significa: “Dio è misericordioso”. Il suo ministero si svolse sul Giordano, vicino Betania, località il cui nome vuole dire: “casa della testimonianza”. Giovanni è luogo e casa di testimonianza, come dovrebbe essere ciascuno di noi.
Che cos’è la testimonianza? L’Evangelista definisce Giovanni dicendo: “Egli venne come testimone, per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui”. A chi gli chiede la sua identità, Giovanni risponde rinviando a Cristo. Di sé dice solo: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore …”La sua identità è nel riferirsi ad uno più grande, uno in cui non ha neanche una sicurezza totalmente appagante, perché, come per ognuno di noi, la sua fede è attraversata dal dubbio: Mentre era in carcere mandò i suoi discepoli da Gesù a chiedergli se era veramente il Messia promesso. La sua non è una certezza intellettuale, ma la fiducia in Dio, nell’Altro che gli ordina di annunciare . Di sé Giovanni dice solo “Io non sono …, non sono Elia, … non sono il profeta”. La fonte del mio essere non sono io, ma colui che mi ha mandato, io sono solo voce. Egli rifiuta ogni protagonismo, rifiuta di definirsi profeta, perché sa di essere solo uno strumento: la sua identità è unicamente il testimoniare per un altro. Lui, l’Altro, è la Parola, Giovanni solo la voce che lo annuncia e gli prepara la strada. Oggi egli direbbe a ciascuno di noi: “Se volete capire chi siete, guardate Gesù, riconoscetelo luce e trovate in lui la vostra luce”.
Giovanni è un campione della fede: Gesù dirà di lui che non è una canna sbattuta dal vento, ma più di un profeta. Egli è come una roccia, la voce forte che indica Gesù ai contemporanei e non ha paura di confessare che il suo servizio è solo in funzione di fare incontrare Gesù. Allo stesso modo non solo io, ma la Chiesa tutta sarebbe inutile se non fosse finalizzata a fare incontrare Gesù.
La fede è una fatica, il renderci conto che, anche se siamo credenti, non conosciamo ancora Gesù: “In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete …” Assoggettiamoci alla fatica della ricerca: conoscendo sempre meglio Gesù saremo aiutati a conoscere noi stessi, a trovare la nostra identità. Oggi il problema della identità personale è grave: tanti non hanno certezza di sé, del proprio ruolo. Sono tanti gli interrogativi anche a livello culturale. L’uomo cerca di ripensare se stesso: ma senza certezza di sé non è possibile la relazione, non è possibile la comunicazione. È un problema che ci riguarda tutti. Lasciamoci dire chi siamo da Gesù: egli è oltre di noi e ce lo dice, attraverso la fatica della nostra fede, della nostra ricerca di lui, che non posiamo mai pretendere di conoscere totalmente. Questo cammino di ricerca di lui è insieme il cammino della riscoperta di noi stessi. Gesù è comunque più grande di tutte le realtà umane. Oggi sono tante le conquiste della scienza e della tecnica. Grande è anche il cammino che si sta percorrendo verso l’Europa unita. Ma tutto è piccolo di fronte all’interrogativo: “Ed io, chi sono?”.
L’incontro progressivo con Gesù, indicatoci dal Battista, deve essere una tensione a uscire dalla mediocrità della vita, del nostro professarci cristiani, senza essere capaci di incidere sulla società, tensione a divenire capaci di testimoniare, di farci eco della voce stessa del Signore. L’immagine del Natale è la mangiatoia. La Parola si fa carne in un ambiente dove gli animali mangiano. Incontrare Gesù, giorno dopo giorno, è il nostro mangiare la Parola, alimentarci di Dio che è vita. È l’esperienza di cui parlano sia il profeta Ezechiele che l’apostolo Giovanni nell’Apocalisse: mangiare il Libro. Esso in un primo momento appare amaro, perché nutrirsi della Parola è duro, implica la rottura delle nostre chiusure; ma poi ci accorgiamo che il suo sapore è dolce, perché cambia la nostra vita e ne fa una cosa nuova.
Facciamo nostra la preghiera di Agostino. O Dio da cui deriva la legge, da cui allontanarsi è cadere, o Dio, voltarsi verso di te è risorgere, rimanere in te è avere sicurezza, perché in te è la vita: guarisci i miei occhi e fa che io possa vederti e cogliere i tuoi cenni. Aumenta in me la fede, accresci la speranza e la carità, tu, bontà ammirevole e singolare.
Domenica scorsa abbiamo meditato come Gesù Cristo, non sia solo memoria da celebrare, ma realtà da accogliere e vivere nel presente, con vigilanza, trepidazione e riconoscenza, ma anche con la certezza che il futuro è gravido di grazia, di amore, di misericordia, di espressioni sempre nuove del suo venire.
Oggi la liturgia sottolinea come il continuo venire del Signore sia legato alla testimonianza di quelli che Egli ha scelto. Il Vangelo di Giovanni indica come l’elemento che qualifica la persona e il compito del Battista sia proprio il suo testimoniare, il suo parlare: lo indica con parole nette, come per ammonire a non fermarsi a lui, alla sua vita così coerente e affascinante: “egli non era la luce ma doveva rendere testimonianza alla luce”. Lo stesso Battista lo ribadisce negando decisamente di essere il Messia. Quale vero testimone egli indica il Signore, ma subito si tira da parte nel timore di rubare spazio a Lui.
La testimonianza ha grande rilievo nella spiritualità biblica e cristiana. Gesù stesso la ha domandata ai discepoli nel momento dell’Ascensione: “mi sarete testimoni … fino agli estremi confini della terra” (At. 1,8). La testimonianza ha sempre come oggetto la persona di Gesù, come scopo la fede in Lui. La testimonianza è sempre necessaria: l’incontro di Cristo con il mondo è sempre conflittuale in ogni epoca, l’incredulità può divenire rifiuto, ma l’oscurità della mente e del cuore può essere vinta con l’aiuto della luce dei testimoni. Giovanni Battista indica il Messia come presente, ma ancora sconosciuto, dice che occorre scoprirlo, che non tutti lo vedono, e perciò occorre che il testimone lo additi. Questo, in ogni tempo, è il servizio profetico della Chiesa, che è autentica quando non ha paura di confessare la relatività del suo servizio religioso: esso resterebbe inutile senza l’incontro con quel Gesù, che bisogna cercare, perché non è conosciuto. Battista si rivolge ad un gruppo di credenti suoi contemporanei dicendo:“in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete”. Lo dice a noi per aiutarci a riconoscere i passi del Signore nel nostro tempo.
Che significa per noi cristiani conoscere Gesù? In questa liturgia di Avvento, oggi, le parole di Battista possono significare che, pur sentendoci sinceramente credenti e desiderosi di vivere da discepoli di Gesù, possiamo non conoscerlo perché la conoscenza precedente si deve rinnovare nell’incontro con Lui, nella novità di Dio, che si è fatto carne in Gesù. La religiosità che si rivolge ad un dio astratto e disincarnato deve essere superata. Nel Vangelo di Giovanni Gesù si rivolge a persone che già credono in Dio, ma la sua richiesta di fede riguarda proprio questa cosa nuova che è il suo venire nel mondo, il suo parlare in nome di Dio, il suo essere “una cosa sola con il Padre”. Tutto il Vangelo di Giovanni punta a questo: “Questi segni sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo il Figlio di Dio e perché , credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv.20,31). Conoscere Gesù non è religiosità devota e pia, non è avere buoni sentimenti, ma credere a lui e vivere nel suo nome.
Conoscere Cristo. I Padri della Chiesa che hanno riflettuto a lungo, non hanno pensato all’Incarnazione come un episodio storico, qualcosa di circoscritto nel tempo come la nascita di Cesare Augusto o di Napoleone. Hanno preferito dire che Cristo non è tanto una svolta, ma la fine dei tempi: Egli è per tutto il tempo, anche per quello che lo ha preceduto. Tutto il tempo ha il suo fine e il suo senso in Gesù. Ci conferma questo Ratzinger, che, quando era Cardinale a Monaco, questo diceva, parlando agli studenti universitari.
Oggi guardiamo al mondo in modo più completo, grazie ai progressi della conoscenza scientifica. Non lo vediamo come un tutt’uno compatto, in cui ogni cosa è fissa al suo posto, ma come un unico, grande divenire che si svolge passo dopo paso. In questo lungo cammino ci è dato di intuire che a un certo momento, per la prima volta, si è risvegliato lo spirito, è sorta la coscienza, l’uomo capace di rendersi conto di non essere autosufficiente e quindi di guardare in alto, di cercare Dio. Ma l’uomo è restato in solitudine, perché nessuno, da solo, può raggiungere Dio, può dare un senso pieno alla propria esistenza.
Quando il Battista ci dice: “c’è uno in mezzo a voi che voi non conoscete”, ci invita a guardare ad un secondo punto forte del divenire del mondo, il momento in cui Dio si è fatto uomo. Non più solo il passaggio dalla natura allo spirito, ma il passaggio dal Creatore alla creatura: è il momento in cui Dio e il mondo sono diventati una cosa sola. Da questo momento, guardando la realtà con gli occhi della fede, capiamo che Gesù è il destino di ogni uomo, che l’uomo è realizzato pienamente se incontra Gesù. Il senso del divenire è solo quello di aiutare il mondo ad entrare in questa unione e di trovare la piena realizzazione di sé nell’essere una sola cosa con il suo Creatore.
“A quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”, dice il prologo del Quarto Vangelo. Conoscere Gesù significa dire sì a questo movimento di unità tra Creatore e creatura, mettersi al servizio di questa proposta esaltante . Non si è cristiani per se stessi, ma per il tutto, per gli altri, per tutti, in consapevolezza e libertà.
In grande gioia, come oggi dice Paolo, perché l’unità in Dio è la grande gioia della creazione.
“Dare testimonianza alla luce” per dire che “Dio è luce e in Lui non i sono tenebre” (Gv.1,1,5). Così si può sintetizzare l’annuncio della liturgia in questa terza domenica di Avvento. A causa di questo annuncio viviamo nella certezza che il mondo si regge su di un principio di armonia e di bellezza, più forte della negatività di quanto cerca di contraddirlo.
Essere testimone di questa certezza è l‘identità di Giovanni Battista, ed è la consegna che viene a noi da lui. Come se volesse dire a quanti intendono seguire Gesù quello che conta nella vita di un credente. Allo stesso modo, Paolo scriveva ai Tessalonicesi: “Non spegnete lo Spirito” nelle situazioni in cui siete chiamati a vivere. Giovanni Battista, passandoci la sua testimonianza, ci chiede oggi: “Che cosa conta nella vita di un credente?”. Guardiamo il suo comportamento. A chi lo interroga con insistenza sulla sua identità, egli risponde: “io non sono”, non sono quello che si vede in apparenza, non sono quello che gli altri dicono di me, non sono il prestigio del mio ruolo e neppure l’umiliazione della mia inadeguatezza. Al “Tu chi sei?” non può rispondere che con le parole di Isaia, il profeta antico, vissuto 700 anni prima: “Voce”. Nel testo di Isaia 40 il verbo non c’è, come per sottolineare in lui l’assenza di ogni protagonismo, di ogni desiderio di potere, che causa tante difficoltà nella convivenza, ad ogni livello, anche ecclesiale. Giovanni Battista si definisce ”Voce” di un Altro, che è la Parola stessa da accogliere e comunicare.
La testimonianza di Giovanni si collega strettamente con quella del profeta: “Lo Spirito del Signore è su di me”. Lo Spirito, l’Altro che gli parla dentro e lo “unge”, cioè lo consacra ad essere voce di un messaggio, che è Lui stesso. Perciò testimonianza è innanzitutto appartenenza senza riserve, nella fedeltà alla Parola ricevuta in dono, cioè consacrazione alla verità di Dio, da cui dipende la possibilità di svolgere un compito, l’annuncio della verità, vivendola e testimoniandola.
“Portare il lieto annunzio ai miseri”, Isaia ai deportati in Babilonia, Giovanni a quanti sentono nella coscienza il bisogno di un rinnovamento profondo. La Chiesa, nella liturgia, riscopre come eredità-consegna, che le appartiene in ogni tempo, il compito irrinunciabile del “lieto annuncio ai miseri”, quella parte immensa dell’umanità, la cui esistenza è segnata dalla privazione delle risorse materiali indispensabili, della dignità sociale, della vita politica. E non solo. Quanta umanità è oppressa da problemi morali, dalle ferite che condannano alla solitudine: è l’immensa folla dei “miseri”, patrimonio e destino della Chiesa. L’ampiezza delle cifre che parla di numeri che raggiungono il miliardo di persone in sofferenza per la fame, come ci è stato ricordato in questi giorni, quest’ampiezza si aggancia e si salda con la realtà vicina, nella quale viviamo. Celebrare l’Eucarestia significa portarne il peso immenso, sentirsene responsabili. Il Bambino di cui ricordiamo la nascita a Natale è il Dio dell’Esodo che udì “il grido del suo popolo” e scese “per liberarlo” (Es.3,8). Se la Chiesa è “casa di comunione”, come disse Giovanni Paolo II, questo fa comprendere quanto sia provvidenziale, dono dello Spirito, l’essere posta nel cuore di una storia che appare come un immenso processo a Gesù, il “tu chi sei?”, processo alla verità che egli porta su Dio e sull’uomo, un processo in cui i cristiani sono interpellati come testimoni e spesso, di fronte ai problemi dei miseri, imputati come testimoni inaffidabili dai nostri fratelli “laici”. Azione dello Spirito, perché il processo del mondo costringe la comunità ad interrogarsi sulla fedeltà al vangelo.
Perciò la pagina di Isaia è importante, particolarmente nell’oggi della contestazione del pensiero cristiano, contestazione che è anche rivelazione dell’attesa di vedere quel pensiero realizzato. È lo Spirito – quello che ha “unto” il profeta, poi Giovanni, poi Gesù – che è donato alla Chiesa per renderla capace di parlare di Dio con le opere, con il “manto della giustizia” da indossare per “portare il lieto annuncio ai miseri, … fasciare le piaghe dei cuori spezzati, … proclamare la libertà agli schiavi”.
A 60 anni dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, a 40 dalla “Populorum progressio” di Paolo VI, a 20 dalla “Sollicitudo rei socialis” di Giovanni Paolo II, il compito della profezia della liberazione rimane in tutta la sua drammaticità, che interpella la comunità cristiana nel mondo e in ogni territorio particolare. Lo Spirito ci fa provare il morso della inadeguatezza ogni giorno. Qui, da noi, ogni giovedì mattina, il parroco distribuisce l’elemosina a più di cento persone che la domandano, due, tre, cinque euro, e un grande disagio accompagna la generosità della sua fatica, l’inadeguatezza per quello che si da e l’umiliazione della dignità umana in chi riceve.
Un povero è morto di freddo, in questi giorni, alla stazione centrale di Napoli. Non può essere un paragrafo nel libro dei mali della città. Ha detto il nostro Vescovo: “Quando un povero muore, è una sconfitta di tutti. Anche la Chiesa si sente chiamata in causa, non solo perché essa stessa diventa più povera, ma per il fatto che le mani della sua solidarietà non sono state così pronte come il suo cuore, dove gli ultimi e gli emarginati hanno il loro posto privilegiato.” (“Avvenire”, 11 dicembre).
Quel povero non aveva un nome. Però il povero è il più autentico tra i marchi di riconoscimento cristiano, come dicevano i primi: “Hai visto il povero, hai visto il Signore”.
Viene la domanda personale:
- Cosa posso fare per i poveri?
- Cosa devo fare per i poveri?
- Cosa voglio fare per i poveri?
“Egli venne per dare testimonianza alla luce”
La liturgia ritorna sulla persona di Giovanni, il testimone della luce.
Il quarto vangelo lo mostra maturo, pienamente convinto della propria identità: essere solo in funzione di un Altro, che è il Signore; vivere per Lui come un sacramento, un segno visibile di Lui presente tra gli uomini, senza ambiguità, con l’adesione incondizionata e cordiale che ha raggiunto nel suo rapporto con lo Spirito.
Questa l’identità del Battista.
E la liturgia di Avvento la propone non come un insegnamento teologico astratto, ma come modello per ogni donna e uomo che vogliano, come lui e con lui, indicare all’umanità Gesù presente tra la gente nella verità del suo essere il dono che viene dall’alto, dinanzi al quale l’atteggiamento conseguente è quello di dargli priorità ed accoglienza. La testimonianza di Giovanni non è, quindi, questione di magistero intellettuale, ma di concretezza, strada accessibile per chiunque cerchi un approccio con il Vangelo. Così comprendiamo che i cristiani sono “relativi” a Cristo, sacramento e manifestazione di Lui, non spiegazione di Lui, ma espressione di Lui.
Scriverà Tommaso d’Aquino: “egli era un testimone idoneo della luce perché partecipe della luce perfetta; e, del resto, è qualcosa di infuocato che manifesta più plausibilmente il fuoco, così come sono le cose colorate a diffondere il colore” (commento al Vangelo di Giovanni).
La testimonianza è possibile solo dov’è la connaturalità. Solo un credente è credibile. Giovanni ci propone di essere voce, ma più ancora di essere segni di concretezza convincente. È lì che abita la prova della fedeltà di Dio. Paolo VI diceva in una famosissima espressione: “L’uomo di oggi non crede tanto ai maestri quanto ai testimoni. E in tanto crede ai maestri in quanto sono testimoni” (E.N.41-1975). Da questa considerazione scaturisce l’impegno tenace e la pazienza umile nel custodire in cuore la Parola che sta all’inizio di ogni esistenza, come il fondamento, la sorgente, che irrori le radici da cui far nascere e rafforzare il proprio essere più autentico, nella fedeltà e nella gioia.
È la gioia dell’umile ancella che abbiamo scoperto in Maria immacolata e che Paolo raccomanda ai cristiani di Tessalonica, nel primo scritto del Nuovo Testamento. Gioia radicata nella certezza del Dio “degno di fede” che “farà tutto questo”. Gioia difficile a custodire per la constatazione che ogni credente sperimenta di non essere sempre all’altezza delle situazioni, di non essere in grado di rispondere ad ogni costo a tutti, a rimanere in pace quando non si possono prendere iniziative che la sensibilità personale richiederebbe, per privilegiare la collaborazione con l’iniziativa di altri, perché la Parola dice che è meglio il meno perfetto insieme del più perfetto da soli! È il “diminuire” di Giovanni Battista, necessario perché Cristo possa crescere (v. Gv.3.30). Non a caso la liturgia ha fissato il Natale di Gesù dopo il solstizio d’inverno, quando la luce ricomincia a crescere, e quello di Giovani il 24 giugno, dopo il solstizio d’estate, quando comincia a decrescere!
È la testimonianza dell’amore fraterno che introduce al Vangelo, al Cristo che chiede di essere presente, Parola e Amore, in ogni ambito del vivere umano. È il fermarsi accanto al più debole, che permette al Signore di sussurrargli le espressioni della sua presenza, il “non temere, sono con te”. È lo sforzo di coinvolgimento nella ricerca del bene comune, in ambito sociale e politico, che lievita la società, non come folla di individualità ma come popolo che Dio guida e città che abita. È la sdrammatizzazione del “si deve fare ad ogni costo”, che testimonia la libertà dell’avere Dio come Padre.
Ma è ancora di più, perché la “via comune” che abbiamo visto come “via di Maria”, è quella della famiglia, l’ambito più immediato ed accessibile della testimonianza. La famiglia appare come l’icona a cui la Bibbia ricorre per spiegare la fedeltà e la gratuità, la radicalità e l’universalità dell’amore di Dio. Come se il Creatore non avesse trovato un’immagine più significativa della propria essenza, alla coppia domanda di amarsi reciprocamente, di essere feconda, di custodire il creato. Questa l’identità della donna e dell’uomo: “amo, ergo sum”, come Emanuel Mounier ha scritto, oltrepassando il “cogito ergo sum” di Cartesio. Un’identità possibile nella testimonianza quotidiana, quella del poter vivere solo nei rapporti.
Dunque, c’è un intreccio indissolubile tra questa primissima relazione umana e la vita stessa di Dio, Uno e Trino. Un intreccio che riguarda ogni relazione tra gli uomini, creati “ad immagine di Dio”. Ma è nella famiglia che la reciprocità tra i suoi membri è icona, sacramento di quel Noi divino che perciò ne è il modello. Lo testimonia e lo traspare. In famiglia la testimonianza di Gesù è incessante e domanda di essere vissuta ogni giorno in tutte le sfumature della relazione di coppia, della genitorialità, dell’accoglienza, del dono di sé alla comunità più ampia della Chiesa e dell’umanità.
Ringraziamo il Signore per la vocazione a testimoniare il Vangelo chiediamogli di essere pronti a cogliere le opportunità e la gioia di viverla.