SACRA FAMIGLIA – Anno B
(Gen 15,1-6; 21,1-3; Sal.104; Eb 11,8.11-12.17-19; Lc 2,22-40)
Anche noi, qui riuniti, siamo una famiglia nel nome del Signore, Padre, Figlio, Spirito Santo, nella comunione fraterna che ci unisce, che non è solo tensione della mente, ma anche affetto del cuore.
La festa di oggi è posta fra Natale e l’Epifania, quando la Chiesa è tutta presa dalla contemplazione di Dio che si è fatto uomo e perciò è come una provocazione di fronte alla situazione della nostra società: Dio si è manifestato come “Dio con noi” e allora tutto è possibile. Oggi la famiglia, realtà antica e sempre nuova, che nella storia ha subito tanti condizionamenti, attraversa una crisi di identità anche fra i cristiani: fragilità affettive, difficoltà economiche, problema del controllo delle nascite, sofferenza dei divorziati risposati … A volte possiamo essere indotti al pessimismo.
Perciò, fraternamente, come cristiani accogliamo come dono la luce della Parola.
Guardiamo innanzitutto ad Abramo, nostro padre nella fede. Dio lo ha chiamato ad andare verso un luogo a lui sconosciuto, a compiere un cammino, difficile anche nel suo rapporto con Sara, così diversa da lui. È un cammino di fede che darà vita anche al suo corpo ormai vecchio, col dono di un figlio. Un cammino che gli permetterà di rendersi libero anche nei confronti del figlio, comprendendo che non può considerarlo suo possesso esclusivo: l’obbedienza al Signore gli permetterà di ritrovare la verità del figlio in Dio, che può resuscitare anche i morti. In Abramo, nella sua fiducia in Dio, nell’accoglienza della moglie, nella conquista di un amore libero, non possessivo, verso il figlio, è la sorgente della vita familiare.
In tutta la sua esistenza l’uomo è chiamato a vivere per l’altro, a donarsi all’altro, sia esso sposo o figlio, a spossessarsi di sé, nella rinuncia ad ogni diritto su di loro. Come Abramo.
Maria e Giuseppe realizzano questa vocazione: credere innanzitutto e soprattutto in Dio, nell’abbandono totale alla sua Parola. La fede permette loro di rinunciare totalmente al proprio progetto, per assumere quello dell’altro, senza riserve, abbandonandosi totalmente al disegno di Dio. Giuseppe non è una figura scialba: il suo è un ruolo di protagonista. Egli assume liberamente la responsabilità di quanto Maria gli propone: essere padre di un Bambino non suo, dargli il suo nome, inserendolo così nella discendenza davidica, farsi carico di queste due vite, accompagnandole e sostenendole, nella rinuncia ai propri desideri e ai propri progetti. Egli vive così in pienezza la vita matrimoniale: il Bambino “cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”, non cresceva per Maria e Giuseppe, ma per l’umanità.
Anche se la vocazione di Maria e Giuseppe è particolarissima, essi sono luce per quanti vogliono vivere il matrimonio nella fede: guardare all’altro, al coniuge, al figlio, come dono e non come problema. Ognuno è protagonista di un incontro con Dio personalissimo e l’altro non può entrarvi: deve solo accoglierlo come mistero, rispettarlo ed accompagnarlo con l’affetto. Fidarsi di quanto Dio sta facendo nell’altro che amiamo, senza fatalismo, condividendo l’interiorità di Maria e di Giuseppe, che si stupivano di Gesù, giorno per giorno, nell’esperienza della quotidianità della vita.
Nella famiglia assai spesso i genitori sono delusi, perché il figlio non ha il loro marchio di qualità, vorrebbero che egli fosse un loro clone, non ne accolgono la diversità. Anche nella vita religiosa tante delusioni nascono dalla aspettativa che il confratello più giovane sia il nostro clone. La famiglia radicata nella fede deve accogliere la diversità dell’altro nella gioia, accoglierla come una novità che arricchisce. Dove c’è la musoneria significa che qualcosa non funziona, che manca la fede, manca l’amore radicato in Dio.
In Gesù che vive nella famiglia ci viene svelato che la radice della vita familiare è relazione tra persone e quindi è immagine della vita trinitaria. Il calore del rapporto interpersonale nella famiglia è scuola di vita trinitaria, scuola di amore vero. I valori della famiglia di Nazaret ci riguardano tutti: perdono, premura per l’altro, dedizione senza riserve al suo progetto, anche se ci resta estraneo. Tutti gli aiuti psicologici, sociali e politici nei confronti della famiglia sono importanti, ma i cristiani non possono rinunciare alla contemplazione della casa di Nazaret per capire quale è la strada della famiglia.
Fidiamoci dell’aiuto di Dio, che è presente in mezzo a noi, nel Figlio fattosi uomo, che ci dona la sua vita nell’Eucarestia.
Nella previsione della nascita di un bambino di stirpe reale, il profeta Isaia aveva cantato:
”… ogni calzatura di soldato nella mischia
e ogni mantello macchiato di sangue
sarà bruciato …”
(Is.9,4)
A due giorni di distanza dal Natale, nella stessa terra in cui nacque Cristo, è scorso sangue in maniera tanto drammatica. Nel vivere la festività della Santa Famiglia evitiamo il rischio di farne una celebrazione retorica e devozionale, assumendo le nostre responsabilità: attraverso i rapporti di amore, all’interno della famiglia, si pongono le radici della pace. Senza rapporti non c’è pace. Pensiamo ai nostri fratelli di Gaza, a tutte le vittime della carneficina.
La liturgia dedicata alla Santa Famiglia è un invito ad indugiare nella contemplazione della lunga convivenza in cui “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”, e ad attualizzare quanto contempliamo alla luce della necessità che sperimentiamo di rapporti più veri e profondi: è un’esigenza che tutti avvertiamo. Domandiamo al Signore la grazia di capire che cosa significhi per Maria e Giuseppe salire al tempio “per la loro purificazione”, perché, alla loro luce, i nostri rapporti siano purificati.
“portarono il bambino al tempio”
Il primo pensiero è per il loro legame nel consenso reciproco, la loro unità profonda, la consapevolezza di non poter stare davanti a Dio se non come coppia che resta fedele nel tempo a quello che è stato loro domandato nei giorni della chiamata. Appare da tutto il contesto del racconto di Luca che essi non sono preoccupati dell’osservanza rituale, ma piuttosto attenti a porsi come coppia nell’attuazione di quanto Dio si attende da loro: questo è il fondamento della loro fisionomia interiore, che in Maria è espresso nel suo “si faccia di me quello che hai detto” e in Giuseppe nel suo essere “uomo giusto”. È un’attuazione che richiede il tempo lungo della vigilanza su quanto accade e l’ascolto perseverante che rischiara l’intimo e aiuta nel cammino ma non si sostituisce alla responsabilità personale e alla riflessione. Vanno insieme al tempio: da soli non capirebbero neppure se stessi. Dio li ha chiamati insieme e perciò la loro fedeltà personale al Signore è legata alla fedeltà al loro rapporto reciproco. Su questo ci fermiamo un momento, fidandoci del fatto che proprio Maria e Giuseppe , in questa pagina di Luca, ci dicono la possibilità di educarsi al rapporto nella fede e nell’amore, sapendo che fede e amore sono dono di Dio, ma anche il frutto bello del cuore umano, pronto a consentire con l’altro amato la disponibilità a quanto viene domandato; perciò disponibilità a riflettere, a pregare, ad interpellarsi, senza lasciarsi sgomentare dagli interrogativi che irrompono – “il padre e la madre di Gesù si stupivano della cose che si dicevano di lui” (Lc.2,33), annota l’evangelista -, dall’oscurità che sembra suscitare un’incomprensione tra di loro, un’ombra nel loro essere uniti, senza rimpianti di individualità. Quando a dodici anni Gesù adolescente si allontanò da loro, per parlare con i dottori del tempio, e ne spiegò loro la ragione, essi “non compresero le sue parole” (Lc.2,50), non si compresero neanche tra loro.
Nel vivere la chiamata e la responsabilità del matrimonio cristiano, non si è forse sufficientemente attenti al “porsi insieme” davanti a Dio, come atteggiamento costante, per avere in dono il “senso” della propria vita. La parola “senso”, lo ricordava il Papa qualche giorno fa, è il termine con cui si può tradurre la parola greca “logos”, e quella latina “verbo”, per dire che la Parola che da significato alla vita matrimoniale e la Sapienza che la immerge nella verità di Dio, quello che da “senso”, è Gesù stesso tra gli sposi, un Dio che non è legge o consuetudine o fredda attribuzione e assunzione di compiti, ma una Persona che ama. È Lui che gli sposi devono domandare come dono, è in Lui il loro mettersi insieme davanti a Dio. Allora ci si accorge che Dio parla sempre al presente, ed è alimento e medicina per la fatica del rapporto che, a volte, blocca nella protesta, intima o esteriore. La reciprocità senza riserve dell’essere insieme nel matrimonio non tollera di essere ritenuta scontata, non si arrende alla difficoltà di comunicazione che la complessità del vivere quotidiano sembra accrescere sempre di più, non cede all’apparente semplificazione del separare la responsabilità comune, a motivo delle diverse sensibilità – affidando, ad esempio, la cura dei figli solo all’uno o all’altro genitore.
Nella forza e nella pazienza la reciprocità dei due prepara il consenso, attende che la presenza della vita in mezzo a loro, magari attraverso un bambino – come Gesù tra Maria e Giuseppe –, si spieghi da sola, dando ragione di se stessa, del suo “giogo dolce e leggero”. Così, scrisse in modo bellissimo Giovanni Paolo II, “gli sposi sono il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla croce, sono l’uno per l’altra, e per i figli, i testimoni della salvezza, di cui il sacramento del matrimonio li rende partecipi” (Fam. Cons.13)
Beato chi incontra degli sposi così!
Simeone ed Anna, attesa dell’umanità, speranza dei poveri, tutti e due mossi dallo Spirito, riconoscono in quella coppia che si presenta a Dio il segno della salvezza donata nel Bambino che porta. L’attesa di tutti i giusti che hanno custodito la speranza si placa: adesso, Signore, puoi slegarmi dalla paura e dalla stessa vita, perché ho visto l’amore sulla terra, in questi due ragazzi.
Così Anna vede riempirsi di amore presente la sua vita di solitudine con un Dio che ora finalmente le parla. Quanto aiuta il cammino di fedeltà la consapevolezza di dover rispondere all’attesa e alla speranza di tanti!
“A molti uomini, ed in qualche modo a noi tutti, questo sembra troppo bello per essere vero!” (Benedetto XVI)
La fatica dei rapporti, letta come impossibilità di viverli, può indurre anche i credenti alla sfiducia del “troppo bello per essere vero”. Riempiamoci gli occhi della mente e del cuore con la luce di Nazaret per essere sicuri della bellezza della verità.