II DOMENICA DI QUARESIMA – Anno B
(Gen 22,1-2.9.10-13.15-18; Sal.115; Rm 8,31-34; Mc 9,2-10)
Ogni anno la liturgia della Quaresima propone la lettura e la meditazione di questo episodio straordinario di rivelazione del mistero di Gesù Cristo, un momento di estasi e di anticipazione in cui ai discepoli viene fatta conoscere la sua natura divina. Come nel capitolo 24 del libro dell’Esodo Dio si rivelò parlando a Mosè dalla nube, così ora la nube rivela la presenza misteriosa del Signore. Non molte domeniche fa abbiamo ascoltato la lettura del battesimo di Gesù nel Giordano, all’inizio del suo ministero pubblico (Mc.1,9-11). Al “Tu sei il Figlio mio prediletto” che dava un’investitura personale al giovane Gesù, corrisponde ora il “Questo è”. Il Padre parla per annunciare che egli è il Figlio prediletto e per esortare i discepoli ad ascoltarlo: è come una intronizzazione di Gesù nel suo compito di Messia, perciò lo splendore della scena che i discepoli dovranno ricordare e testimoniare. “Ascoltatelo!”. L’obbedienza alla parola che egli sta proclamando è una conseguenza e sembra essere sollecitata in modo particolare perché i discepoli sono rimasti sconcertati e interdetti di fronte alla previsione della passione, svelata sei giorni prima (Mc.8,31-33). Essi cercavano il successo facile e Gesù li invita a seguirlo sulla via della croce.
Qui siamo chiamati tutti alla fede: quest’uomo incamminato verso la crocifissione è in realtà il Signore risorto e glorioso. L’appello dall’alto ad ascoltare la sua voce ci riguarda. L’alto monte indica un luogo di preghiera (in Palestina non vi sono monti alti), la gloria intravista appartiene ad un altro mondo che non può essere valutato con la logica mondana. È una gloria che il discepolo deve imparare ad attendere e a sperare senza lasciarsi distogliere dalla fedeltà di seguire il Signore crocifisso. Non può dire : “È troppo difficile, non ce la faccio”.
L’errore di Pietro che cerca di fermare il momento in cui vede Gesù trasfigurato, di eternizzarlo nella sua chiarezza e beatitudine, simboleggia la resistenza e la protesta di tutti noi, dei cristiani, contro la sofferenza che ci viene addosso senza alcuna amabilità, senza che noi riusciamo a pensarla come qualcosa che contiene e dona la vita. La vita di fede non è fermare il momento, neanche per fermare la gioia: l’appello all’ascolto di Gesù ha valore di attualità per tutti noi.
Nel cammino di fede la Provvidenza non ci fa mancare momenti di chiarezza e di gioia, all’interno della fatica del vivere con fedeltà. Un amico, molto provato dalla sofferenza, mi ha raccontato di un’esperienza che gli ha permesso di uscire dalla paura: nel momento della massima angoscia, ha visto, nel corridoio dell’ospedale una persona che portava l’Eucarestia, per distribuirla ed ha capito di non essere solo: l’importante è capire che il Signore è con noi. Bisogna accogliere questi momenti ed essere riconoscenti, ma senza dimenticare che il loro carattere è la provvisorietà, perché la strada è quella della fedeltà alla croce. Perciò al di là della gioia che conferma, rassicura e alimenta la speranza, al di là di ogni pur possibile straordinarietà, resta l’imperativo: “Ascoltatelo!”. E questo è fatto serio.
Tutta la storia sacra è una lunga azione pedagogica del Signore per rivelarsi progressivamente all’uomo e farlo entrare in comunione con sé. Una pedagogia che suscita nel cuore umano il desiderio profondo che è anima di ogni preghiera, come è riferito di Mosè. Nel momento in cui sentì maggiormente il peso della responsabilità, salì anche lui sul monte della preghiera e chiese: “Fammi vedere la tua gloria!” (Es.33,18). Così tutto diventa possibile. Nel momento della trasfigurazione, la presenza di Mosè dice che la preghiera al Dio invisibile, che domanda di vedere il suo volto, trova risposta nella visibilità del volto di Cristo.
“Chi vede me vede il Padre” (Gv.14,8). In Gesù, uomo Dio, l’umano è talmente compenetrato del divino da dirlo, non esiste più separatamente e quando si vede l’umano si vede anche il divino. Il divino traspare nell’umano.
Vorrei consegnarvi bene questo: il tempo della fede, nella vita personale e in quello liturgico della comunità, deve guardare costantemente il volto di Cristo, per riceverne la vocazione alla conformità e il sostegno per attuarla nelle mille sfaccettature del reale. Chi vede il discepolo di Gesù, non dico dovrebbe, ma deve poter vedere Lui e in Lui il Padre. Questo non annulla la legge della progressività perché l’uomo deve aprirsi liberamente e personalmente ai doni di Dio, gratuiti e non programmabili: questa è la vocazione dei discepoli di Gesù ed è resa possibile dalla contemplazione del volto umano-divino di Lui.
Guardare il volto di Gesù per farci restituire il nostro volto, tante volte perduto a noi stessi, uomini e donne senza volto. L’espressione agostiniana : ”Noverim te ut noverim me”, cioè: “Che io ti conosca, per conoscermi” è antica, ma di drammatica attualità, per il sempre più frequente sentirsi sconosciuti a noi stessi, per il non accettarci con pace, per il sogno angoscioso del trapianto del volto.
Contempliamo il volto del trasfigurato: ha tutta la luce del divino che penetra e illumina lo spasimo della croce.
Non è un fatto estetico non occorre il Cristo di Guido Reni: ci parla anche il Cristo della nostra chiesa parrocchiale. Contempliamo il suo volto nel silenzio delle nostre parole e delle nostre emozioni. È un rapporto che non può essere insegnato né condiviso, è un’avventura personalissima, è la vocazione alla verginità del cuore, che riguarda ogni credente, è un io-tu, un faccia a faccia del discepolo con il Maestro. Mostrami il tuo volto, Signore, il tuo volto io cerco. In quella solitudine scorgiamo l’alba del capovolgimento della realtà.
“Questa voce noi la abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt.1,18).
È la luce della vittoria dell’amore sul non amore, del sì sul no. È la scoperta che Gesù Cristo crocifisso è la vittoria.
Ogni anno la liturgia, alla seconda domenica di quaresima, propone il racconto del momento particolare di luce che vide Gesù protagonista alla presenza di Pietro, Giacomo e Giovanni, quasi al termine del cammino verso Gerusalemme, nell’imminenza della passione. Esso è presente nei tre sinottici ed è momento di conforto per lo sgomento, di rassicurazione sull’identità del Signore, di coinvolgimento della memoria per un’esperienza da non dimenticare ma da testimoniare in seguito. La liturgia è invito ad entrare nella luce, a lasciarsi avvolgere dal clima di contemplazione, perché non siamo sopraffatti dallo scandalo della croce che ci raggiunge tutti nel momento della prova, come appare drammaticamente nella vicenda di Abramo.
Forse le espressioni del racconto possono aiutarci:
“alto monte” è definito il luogo dell’incontro con Dio, come era avvenuto per Mosè sul Sinai, nella luce che irradiava dal suo volto (Es.34,29), e per Elia all’Oreb, “nel sussurro di una brezza leggera” (1Re19, 13)
“in disparte, loro soli”. Quello della solitudine per accogliere la parola di Dio e discernere quanto gli sta a cuore, è un atteggiamento che Marco propone più volte, come per sottolineare sia la necessità di distinguersi dagli umori della folla, emotiva e condizionata dagli avvenimenti, sia la personalizzazione della chiamata alla fede, che può domandare di non appoggiarsi alla fede degli altri, per paura di solitudine: la fede è scelta libera del soggetto, certezza nel Dio unico e personale. Gesù – che Marco, dopo questo episodio, mostra dedito alla formazione dei dodici – si pone come “maestro”, “magister”, colui che dona il “magis”, il “di più” di maturità, e di dono di sé, perciò come colui che domanda a chi voglia seguirlo di non avere altri maestri. Gesù è geloso di questa sua prerogativa: “voi non fatevi chiamare rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli” (Mt.23,8). Questa unicità del Cristo, come compimento dell’alleanza antica e di quanto annunciato dai profeti, trova conferma nella testimonianza di Mosè ed Elia, che parlano “del suo esodo”, cioè della sua passione prossima, come riferisce Luca al capitolo 9 del vangelo.
“Questo è il Figlio mio, l’amato, ascoltatelo!” Solo nella sottomissione all’unico Maestro si prende coscienza della Parola, solo nel clima di preghiera e di responsabilità personale, che permette di vivere il primato di Dio nella propria esistenza, si può ascoltare la sua parola dalla nube. I discepoli dovranno ricordare di aver ricevuto il dono di un momento di illuminazione, per andare oltre l’istintivo rifiuto della sofferenza, che li spaventa nel suo mistero inspiegabile. Marco non rifiuta lo spavento, lo giustifica: Pietro “non sapeva che cosa dire, perché erano spaventati”, ma spinge a restare nel silenzio contemplativo, nell’ambiente di preghiera che permette di udire la voce che mostra nel sofferente “il Figlio amato”.
“Improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro”. Al termine del racconto resta questa esperienza di relazione profonda con l’unico Maestro e di conforto per la vita di fede. Pietro si riferirà esplicitamente ad essa per “confermare” i fratelli (Lc.22,32): nella seconda lettera riferirà: “questa voce noi la abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con Lui sul santo monte” (2Pt., 1,18). Un’esperienza personale, ieri, mi ha permesso di comprendere meglio il significato di non vedere più nessuno, “se non Gesù solo”. Ero all’ospedale Cardarelli, in terapia di urgenza, accanto ad un amico, che si trova tra la vita e la morte: c’era una disciplina rigida, che non permetteva a nessuno di restare accanto ai malati. Ma c’era Gesù, solo: quando sono andato via, dopo aver dato all’amico l’Unzione degli infermi, egli continuava a mormorare “Padre nostro, Padre nostro…”. La solitudine, che tante volte ci angoscia, può essere superata da Gesù solo, accanto a noi.
Che cosa ci viene detto?
Marco non assicura il superamento definitivo dell’incertezza di fede nei discepoli-testimoni; anzi, perché nessuno si faccia illusioni sulle proprie capacità, ribadisce che essi “tennero per sé la cosa, domandandosi, che volesse dire risorgere dai morti”. Il cammino di fede è inevitabilmente soggetto alla sproporzione tra mistero di Dio e capacità di comprensione umana, allo sgomento per esigenze che appaiono superare la possibilità umana di adesione. La liturgia ci mette davanti a uno di questi momenti nel racconto di Abramo, che ascoltiamo sempre con trepidazione.
Impariamo che l’adesione alla fede non è l’ultima pagina di un libro, dove tutto appare consequenziale come causa ed effetto, né l’ultima parola di un ragionamento sapiente, ma il frutto della adorazione, che può esigere l’accantonamento dei libri, salvo poi a riprenderli quando tutto l’essere ha fatto di Dio la vera radice del proprio vivere. La comunità cristiana custodisce questa esperienza di pienezza di luce nel vuoto dell’io, cosciente della infinita distanza della creatura dal Creatore; esperienza tanto più forte e significativa quanto più si assolutizza la fiducia nella capacità umana di raggiungere la verità. Non c’è vita di fede se non ci si arrende alla verità, nell’umiltà della mente. Così prega s. Agostino: “Signore, che io cercandoti ti trovi e, trovatoti, ti cerchi ancora”. La storia cristiana è accompagnata dai volti luminosi di Benedetto, di Francesco di Assisi, di Vincenzo dei Paoli e del Cottolengo, di Teresa di Calcutta e di Chiara Lubich. Non si tratta di fondamentalismo, purtroppo sempre in agguato anche all’interno della Chiesa, ma della radicalità dell’amore. Perché il Dio, scelto radicalmente come guida e pedagogo, non fa altro che consegnare la propria verità al servizio dell’umanità. Ieri i tre del racconto di Marco furono inviati ai Dodici e a tutti. Oggi la scelta di fede, il credere non tanto alla propria capacità di comprensione e di convincimento, ma alla Parola del Dio che si dice per amore, diventa attuazione dell’invito di s.Paolo ad agire e a parlare “secondo verità nella carità” (Ef.4,15), assumendo la fatica dello studio personale e del dialogo che cerca “semi della Parola” in quanti, nelle diverse culture, con fiducia e passione camminano incontro alla Verità, che è per l’umanità intera.
Ad essi il nostro cammino di fede deve guardare con riconoscenza e fraternità.
“Questi è il Figlio mio, l’amato, ascoltatelo!”
Una parola che risuona dall’alto, come al Giordano, l’annuncio che viene ai tre testimoni scelti tra i dodici in un momento di crisi, sconcertati come erano per la prospettiva della passione imminente e per le frasi esigenti del Signore a coloro che intendono essere suoi discepoli, frasi pronunciate subito dopo la professione di fede di Pietro, che Marco riferisce al capitolo 8.
Il momento di luce straordinaria della Trasfigurazione è perciò un attimo di conferma e di conforto. Conferma nella presenza di Elia, il profeta precursore, e di Mosè, il portatore dell’alleanza che impegna Dio in prima persona. Testimoniano che Egli è l’atteso e l’annunciato dalle Scritture. Conforto per chi è chiamato ad accettare nella fede che la gloria finale debba ancora restare nascosta, almeno abitualmente, e che il tempo di gustarla dovrà ancora essere atteso, oltre la vicenda della passione e della morte. Ora è il tempo dell’ascolto della Parola, tempo di obbedienza nella fede.
Ai tre e a noi che ne condividiamo lo sgomento e vorremmo fermare i lampi di luce, viene detto: “Ascoltatelo!”, indicando nel Gesù che, dopo la visione, resta solo davanti ai loro occhi, l’unicità della strada da seguire: “Non videro più nessuno, se non Gesù, solo con loro”. Sul monte, perciò, il Signore si trasfigura per sostenere la fede e il cammino dei discepoli, non per dispensarli dal fare l’esperienza dell’umanità sofferente che dovrà essere condivisa.
Gesù sa che ognuno di noi rimane scandalizzato da questa prospettiva di vita, ma egli stesso ne svela la ineluttabilità, si rivela svelandola e la svela rivelandosi gradualmente fino al culmine della croce; perciò chiede di non parlare della luce straordinaria di cui sono stati testimoni “se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti”.
Il ritardo della gloria, l’oscurità del male che impedisce lo splendore della verità delle “vesti bianchissime”, la debolezza sgomentante del bene, sono tratti della pedagogia di Dio che aiuta l’uomo a fare proprio il suo pensiero e non quello della mondanità. È la fatica della fede, che appare nel testo drammatico della prima lettura con la sottomissione adorante di Abramo, chiamato a perdere nella fede il figlio, la ragione della propria vita. La luce della Trasfigurazione è la luce della verità che resta per sempre. Così il monte diventa per i discepoli quello che il deserto era stato per Gesù, l’occasione di scegliere la strada di Dio, la strada dell’umiltà.
Ora, sia pure per un momento, la condizione di Figlio di Dio diventa, per così dire, visibile anche nella sua pelle, nella sua umanità che sta per entrare nella fatica della passione e nella trasfigurazione per sempre della resurrezione.
Per gli apostoli è l’esperienza della bontà che è bellezza: difatti esclamano: “È bello!”, una bellezza che è lo spazio della relazione di Dio in se stesso. Sono tirati dentro questo spazio e vorrebbero catturarlo per metterlo in tende, perché non avevano ancora compreso che “la tenda più grande e più perfetta” (Eb.9,11) è Gesù stesso nel suo corpo umano, che sulla croce diventerà il passaggio perché gli uomini possano entrare nella bellezza di Dio. Di loro, dopo che ebbero compreso, Agostino dirà:
“Questi amano Cristo in apparenza deforme e incomparabilmente bello.
Tale apparve sulla croce, tale si mostrò coronato di spine, deforme e senza bellezza, come per aver perduto la potenza, quasi non Figlio di Dio.
Quale sarebbe l’attrattiva per cui sarebbe amato, se non fosse bello?
È il più bello tra i figli degli uomini”
(Discorso 138,6)
Il Cristo che resta, solo, con loro, il Cristo che noi incontriamo nella celebrazione dell’Eucarestia, è vivo nel suo corpo dato, nel suo sangue versato. È la presenza sua tra noi che ci conferma nella sua strada e ci conforta nella fatica. Ci mostra la sua bellezza divina nella sua umanità disfatta per amore.
Benedetto XVI, nella “Esortazione sull’Eucarestia” del 2007, ha scritto che “la vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente rivelato a noi nella morte e resurrezione di Gesù”. Così lo splendore del bianco delle sue vesti nella trasfigurazione è lo stesso di quelle degli angeli al mattino di Pasqua presso il sepolcro vuoto. Marco con il superlativo e il raffronto con il lavandaio, vuole indicare il “più” divino, l’oltre la possibilità umana, da cui nasce la bellezza dell’uomo rinnovato , quella bellezza che costringe a dire: “È bello!”. È una bellezza che supera il bello inteso in senso soltanto estetico, che oltrepassa il bello solo sensibilmente gradevole e amabile, che nasce dal perdere per amore la propria espressione originaria e si svuota di sé lasciandosi trasformare per amore in quella che noi chiamiamo bruttezza, non amabilità. È un modo più alto, più profondo e completo di considerare l’estetica.
Questa è la bellezza del Crocefisso, che incarna in sé l’espressione del salmo messianico: “Il più bello tra i figli dell’uomo”.
È la bellezza del Risorto che i discepoli di Emmaus sperimenteranno “nello spezzare il pane” e che l’Eucarestia ci permette di riconoscere e, se assimilata, fatta carne nelle nostre persone, ci da la possibilità di condividere.
Domandiamo il dono di grazia di entrare in modo più pieno nella obbedienza di Gesù.