III DOMENICA DI QUARESIMA – Anno B
(Es 20,1-17; Sal.18; 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25)
Ci troviamo oggi di fronte alla terza tappa del cammino quaresimale: la Chiesa ci invita a riflettere sui fondamenti della nostra fede.
L’azione di Gesù nella purificazione del recinto del tempio, comune ai vangeli di Giovanni e dei sinottici, appare come una protesta simile a quella dei profeti antichi contro la profanazione della casa di Dio e come segno della purificazione promossa con il Messia:
“Il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli” (Is.56,7)
“Forse è una spelonca di ladri, questo tempio che prende il nome da me?” (Ger.7,11)
“Egli è come il fuoco del fonditore e come e come la liscivia dei lavandai … purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’oblazione secondo giustizia” (Mal.3,3)
Facciamo attenzione a questo momento di meditazione. Questo episodio si trova al secondo capitolo del Vangelo, all’inizio della vita pubblica di Gesù, per dire quale sarà il principio che animerà la sua predicazione. Il racconto di Giovanni si distingue per la veemenza impetuosa, talmente forte ed evidente da fargli dire che i discepoli, forse già in quel momento e certo dopo la resurrezione, vi trovarono realizzate le espressioni del Salmo:
“Mi consuma lo zelo per la tua casa,
ricadono su di me gli oltraggi di chi ti insulta” (Sal.49,9)
Per Giovanni quel “mi consuma” non si riferisce solo all’intensità dello zelo per la santità del tempio e la limpidezza del culto, non si concentra solo sull’episodio di Gerusalemme. Giovanni, che sempre racconta i fatti con l’intenzione di coglierne il senso profondo, il valore teologico, vuol dire che Gesù sarà consumato, verrà distrutto, da questo zelo, che lo divora, zelo per la verità e la santità di Dio. Perciò racconta l’episodio all’inizio della vita pubblica, a differenza dai Sinottici che lo collocano alla fine, e nel “mi consuma” – espressione ricchissima – allude alla sofferenza della croce, quando il dolore fisico si fa trasparenza della consumazione per lo zelo che lo ha guidato e la rivela con l’espressione : “Ho sete!” (Gv.19,28). All’inizio c’è “qualcosa che mi consuma”, alla fine: “Ho sete”. Sono parole che interpellano la nostra mediocrità, che crede di poter vivere la fede al calduccio della propria comodità: Gesù si fa consumare fino alla croce.
Da questa realtà nascerà, come dal seme marcito la vita nuova, la novità del tempio spirituale, che Gesù indicò alla Samaritana:
“Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Gv.4,23)
Così la riflessione cristiana viene condotta alla scoperta che: il tempio cristiano è il singolo credente, nell’intimo della sua coscienza, come dice Paolo:
“Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?” (1Cor.3,16)
Nella prima lettura abbiamo ascoltato l’annuncio delle 10 parole, che danno visibilità al desiderio sincero del popolo di vivere l’Alleanza con Dio che le propone. Devo domandarmi che posto essi hanno nella mia vita:
Il tempio cristiano si manifesta nella Chiesa, corpo mistico di Cristo:
“Insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef.2.21)
Per i cristiani non può esistere la fede intimistica: quando essa nasce e brucia nel cuore, diventa comunità. Essere presi dal fascino dell’intimismo, del “Dio privato”, non è un bene.
Il tempio cristiano ha la sua ultima pienezza nell’eternità:
“Non vidi alcun tempio nella città, perché il Signore Dio, l’Onnipotente, l’Agnello sono il suo tempio” (Ap.21,22)
Sono come diverse sfaccettature di un’unica realtà mai sufficientemente contemplata e perciò riproposta nel cammino di Quaresima.
Il corpo di Gesù Cristo risorto per essersi lasciato consumare dall’ardore per la verità e la santità di Dio tra gli uomini, la sua realtà viva, è il mistero, il destino e l’impegno del singolo credente, che ad esso si deve conformare, ed è la Chiesa nel suo mistero di corpo mistico, che si deve sempre aggregare nell’unità, che il Risorto ha operato e continua a realizzare fino alla fine del tempo. Si può capire perché Gesù aveva detto, invitando ad andare oltre il rispetto del tempio materiale, e riferendosi a se stesso:
“Ora io vi dico che qui c’è qualcosa di più grande del tempio” (Mt.12,6)
È la fine della religione dello scenario, l’inizio del “l’uomo nascosto in fondo al cuore”(1Pt.3,4). E si può capire, nella concretezza del cammino quaresimale, come la vita di un credente è la vita che ha scoperto il Dio vicino nella persona di Gesù Risorto che rimane, per eliminare la vecchia separatezza, e perciò trova la propria sorgente nella comunione con Lui che dona i sacramenti e aiuta a passare da una religione delle negazioni a quella dell’affermazione della verità e santità di Dio.
Il credente diventa anche lui un “consumato” dallo zelo, non nel senso dell’esasperazione operativa, ma nella tensione, personale e con i fratelli, a diventare “sacramento” della presenza del Signore nel mondo.
Così la vita quotidiana diventa tempio del Signore, là dove quello che si è celebrato nella liturgia dei sacramenti, diventa lavoro, servizio, relazione in cui, incontrando la vicenda umana, si può incontrare il Signore, nella scuola come nell’ospedale, nel parlamento come nella fabbrica.
Domandiamo il dono di poter essere, almeno un po’, strumenti di questo incontro.
Che in ciascuno di noi, e in noi insieme, finisca il tempo dello scenario, come profezia del Dio senza tempio, e inizi il tempo del cuore consumato dallo zelo.
Domenica scorsa abbiamo contemplato il radicalismo filiale, con il racconto che Marco fa dell’episodio della trasfigurazione; oggi lo vediamo vissuto da Gesù nel brano di Giovanni. È quasi una dichiarazione di intenti e questo ci fa capire perché il quarto vangelo ponga l’episodio all’inizio della vita pubblica, diversamente dai sinottici. Gesù sembra voler evidenziare profeticamente la “gelosia di Dio” verso un culto inteso come esteriorità, venalità, interesse, prestigio, voluto apparentemente per zelo e fervore, in realtà lontano dall’interiorità della preghiera, altro da quel culto dello Spirito che Gesù ribadirà alla donna di Samaria al capitolo 4 (Gv.4,24).
La liturgia, addentrandosi nel cammino della quaresima, già dai primi secoli – quando si iniziavano gli “scrutini” per i catecumeni, che ricevevano il battesimo in età adulta – è invito ad interrogarsi sul modo di vivere l’adorazione, perché il luogo dove Dio si manifesta ed è riconosciuto non può essere solo quello dei segni e delle cose sacre. Adorazione “nello Spirito e nella verità” significa tensione alla verità di Dio nei vari campi della sua manifestazione, con cuore attento e sincero. Perciò la purezza della fede si esprime nell’osservanza dei comandamenti, che Mosè aveva ricevuto da Dio e che accogliamo in maniera solenne nella celebrazione di oggi. Essi ci chiamano a conversione: da questa osservanza dipende la libertà del cuore per vivere in trasparenza di Dio, nel servizio dei fratelli.
I comandamenti, per conseguenza, non sono divieti, non sono proclamazione del “non fare”, ma indicazioni forti e profonde di positività. Significano riconoscenza, per la creazione e per ogni dono della Provvidenza, rispetto e amore per la vita, per la famiglia, per i beni altrui, per la verità, la giustizia, la carità. Il loro dire “non” è per introdurre alla “libertà da”, da ogni forma di idolatria, che conduce alla “libertà di” amare e rispettare la vita. Sono perciò un’imitazione reale dell’amore di Gesù, Figlio di Dio, geloso della sua gloria e verità, che spazza via non solo l’ambiguità del danaro, ma anche l’offerta di pecore e buoi per proclamare che ora è il tempo del sacrificio non nelle cose, ma nell’offerta della propria vita. I comandamenti – dice Gesù – liberano per farci di Dio. Come tutte le vere liberazioni costano fatica e spostamento di logiche ed interessi immediati ed individualistici. Per questo non possono essere percepiti ed insegnati come una mera morale precettistica – lo dico in particolare ai genitori ed ai catechisti – destinata a non essere amata, ad apparire insopportabile, ad indurre alla idolatria della libertà. Devono essere visti e vissuti come li ha visti e vissuti Gesù, “positivi” nel loro essere finalizzati al bene dell’uomo, devono essere “accolti” nella docilità del cuore, secondo le parole del Salmo, con cui oggi la liturgia ci ha invitati a pregare: “I precetti del Signore sono retti, – fanno gioire il cuore… – più preziosi dell’oro, – di molto oro fino …”.
Perciò il grande segno dell’adorazione sarà il Cristo morto e risorto, obbediente fino alla morte, segno della vita oltre la fatica, dell’uomo vivente per sempre. Perciò si può adorare solo nell’unità con il tempio vivo ed autentico, che è la persona di Gesù, con l’entrare nel suo sacrificio, che consiste nella sua carità fino all’estremo, fino alla misura del dono di sé nell’ “amore più grande” (Gv.15,13). Ne è espressione il segno tradizionale del grano, da far crescere nell’ombra delle nostre case.
Al tempo della riflessione patristica, nel VI secolo, Cesario di Arles scriveva:
“Quel Dio che, senza alcuna fatica, ha creato il cielo e la terra, con la potenza del suo Verbo, si è degnato porre in te la sua dimora;
perciò devi comportarti in modo da non offendere un così grande ospite.
Mai il Signore trovi in te, cioè nel suo tempio, qualcosa di sordido, di oscuro o di superbo”.
È naturale pensare che, dopo l‘intervento appassionato del Signore, i venditori siano rientrati sollecitamente ai loro banchi, come gli ambulanti nelle nostre città, dopo il passaggio dei vigili. E questo non solo nella Gerusalemme al tempo di Gesù. La purezza del culto è preoccupazione della Chiesa d ogni tempo ed è passione sofferta in ogni epoca per il rumore dei soldi che la contraddice e l’effimero che la circonda. Tutti avvertiamo il disagio per certe celebrazioni che sembrano impedire la consapevolezza della interiorità del rapporto con Dio e il significato profondo di quello che si celebra – come sovente nella celebrazione dei matrimoni, che non manifesta il senso profondo dell’incontro sponsale di Dio con l’umanità, o nella strumentalizzazione del dolore, della memoria e venerazione dei defunti. Il ripresentarsi del chiasso, dei costi, che contribuisce ad accrescere l’incomprensione ed il rifiuto di giovani e non, deve renderci pensosi e responsabili.
Tutti personalmente e tutti insieme, nella nostra unità, siamo il tempio di Dio perché siamo il corpo di Cristo, animato dal suo Spirito. Questo è il tempio di Dio che Gesù inaugura. Esso, perché presente nel mondo e nella storia, è condizionato dalla carnalità che la insidia e che può prevaricare. Di qui l’impegno costante di vigilanza e di preghiera perché, nella pazienza della fede e nel pagare di persona, in unione con Cristo, si possa raggiungere quella purificazione dei cuori, che è il cammino della fede.
Quando tutto sarà purificato dallo Spirito, allora il corpo di Cristo sarà la stabile casa di Dio: tutto il resto è destinato al fuoco, è la cenere con cui è iniziato il cammino quaresimale.
A Gesù, che “conosceva quello che c’è nell’uomo” domandiamo la religione dell’interiorità, la fedeltà alla sua via, che è la religione del cuore.
L’episodio del secondo capitolo del vangelo di Giovanni racconta il gesto di Gesù che non tollera il rumore del danaro, come tipico dei mercati, nel luogo che definisce “la casa del Padre mio”, un rumore che alimenta la mentalità contrattuale del culto vissuto dando qualcosa per ottenere qualcosa. La vera vita di fede non sta nei segni e nelle cose, ma nell’adesione sincera a Chi mostra in se stesso e nella propria obbedienza che cosa significa vivere da figli la comunione d’amore con il Padre che, nel battesimo e nella Trasfigurazione, lo ha chiamato pubblicamente “Figlio amato”. Gesù vuole dire che la fede si fa vita nell’obbedienza che libera il cuore e opera la liberazione dal male che opprime l’umanità.
Questa liturgia di quaresima vuole invitare le comunità che vivono l’Eucarestia ad esaminarsi sull’autenticità della fede, che consiste nel riconoscimento di Dio, nell’accoglienza grata del suo amore, nell’impegno della reciprocità vissuta nei rapporti con il prossimo che è segno di Dio. La liturgia, per aiutarci, ci dona la proclamazione dei comandamenti. Decalogo significa dieci parole, dieci volte la Parola che Dio pronuncia. In profondità, sono tutti positivi, anche se con formulazioni che non appaiono tali perché espresse in termini di divieto. Quasi rivendicando le ragioni dell’amore che lo spinge a parlare, la prima espressione è come un’auto definizione: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dalla condizione servile”. La certezza di Dio, della sua esistenza e del suo amore è perciò derivata dalla storia che Israele ha vissuto. Se il linguaggio dei fatti valeva per il popolo che aveva sperimentato il prodigio della liberazione dalla schiavitù al tempo di Mosè, quanto più eloquente per noi è il gesto di Gesù “divorato dallo zelo” per la verità di Dio e dell’uomo. Quel gesto dice a quanti hanno aderito alla fede che Dio si è svelato come Padre nel dono del Figlio ed ha inviato il suo Spirito che trasforma il cuore e chiama all’imitazione di Gesù, per essere in relazione con l’uomo. Il significato del’auto definizione in cui si manifesta come Amore, da sempre e per sempre, è stato recepito dall’ebraismo e poi dal cristianesimo come dirsi: “Io sono Colui che è qui, con voi e per voi”, “Colui che è, che era e che sarà”. Il nome di Dio rivelato appare come una promessa che si realizza nella storia, e l’Apocalisse vede questa realizzazione pienamente presente in Gesù: “Colui che era, che è e che viene” (Ap.1,4). Questo suo continuo venire fa esclamare al salmista: “Piega i cieli e scendi” (Sal,144,6) e all’autore dell’Apocalisse: “Se qualcuno mi ascolta… apre… verrò… cenerò con lui ed egli con me” (Ap.3,20)
Riflettiamo insieme, nella fede, perché l’osservanza dei comandamenti sia motivata anche razionalmente. C’è un pensiero di Dio dall’eternità, un pensiero che dura da sempre e per sempre, di amore che si prende cura, si comunica ad ogni realtà creata, un pensiero che è progetto per ognuna di esse. Questo pensiero eterno è il Logos, il Verbo: “Egli era nel principio presso Dio, tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv.1,3). Quando il pensiero eterno entra nella storia facendosi uomo per spiegarsi con le parole dell’uomo ed entrando nei cuori, dice ad ognuno quello che sta nel cuore del Padre, la verità di ognuno. Ogni creatura, in Gesù, scopre di essere viva per essere in relazione con Dio e dono al prossimo. Così è immagine e vive a somiglianza di Lui che, attraverso il creato si dice relazione. Nel cuore dell’uomo che incontra Gesù l’iniziativa di Dio diventa alleanza, patto, in cui le parole sono norme, binari che conducono alla verità di se stessi, come è scritta nel pensiero eterno, perciò dono di sé. Le dieci parole del patto con l’uomo, che Gesù sintetizza nel suo comandamento, sono il dono che riceviamo da Dio per la nostra verità, per la nostra realizzazione. E l’uomo è chiamato a vivere quello che Dio ha già vissuto in suo favore, chiamato ad un’unione sempre più intima con Gesù che è la Parola del Padre per ciascuno, perché tutti siano figli come Lui è Figlio primogenito: “Avvicinandovi a Lui, pietra viva, quali pietre vive – scriveva Pietro ai primi cristiani – siete costruiti anche voi come edificio spirituale”(1Pt.2,5). Ecco che cosa Gesù vuol dire con il gesto del tempio.
Essere parole di Dio, da Lui pensate e pronunciate con il dono della vita, è questo il dover essere di un credente maturo. Permettere, con il proprio consenso, l’incontro dell’iniziativa di Dio nel suo movimento dall’alto verso il basso, con quello di risposta umana dal basso verso l’alto. Una risposta che si concretizza nelle dieci parole, accolte in sé giorno per giorno e fatte proprie, non per pedanteria perfezionistica, oppure per perbenismo moralistico, ma per amore del Padre, per rispondere con la vita a Lui che ci ama e ci domanda di essere segni di Lui nella relazione fraterna. Questo è il tempio che Gesù inaugura, l’ambiente che rende possibile l’incontro delle due polarità e più vicino il momento del brillare della luce del giorno “senza tramonto”.
Se i comandamenti non sono sentiti così, appaiono lesivi dell’io libero dell’uomo e perciò non condivisibili. Bisogna, almeno un po’, sperimentare che la libertà nasce dall’esistenza vissuta nella confidenza in Dio che ci ama da sempre e per sempre, da Persona eterna a persone create, per incontrarsi.
È l’esperienza dei santi, che hanno creduto e sono donne e uomini non della solitudine ma della comunione, non della schiavitù, ma della libertà, perché figli nel Figlio.