IV DOMENICA DI QUARESIMA – Anno B
(2Cr 36,14-16.19-23; Sal.136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21)
Il libro delle Cronache – che non viene letto frequentemente nelle liturgie domenicali – è storia del popolo di Dio, storia di un Dio che ama in modo irrevocabile quanti, perché chiamati alla vita e resi amici dal dono della sua rivelazione e provvidenza, vengono educati gradualmente e resi capaci di reciprocità, di comprensione e di amore. Come poi dirà il pensiero teologico: “homo capax dei”, l’uomo è reso capace di accogliere Dio, attraverso la rivelazione. È una lunga storia che prepara la rivelazione piena di Gesù, di cui oggi ricaviamo un piccolo brano. Lunga storia di fatti concreti , che raggiunge il culmine sulla croce dove è il Figlio a patire e morire per dire che destinatario dell’amore di Dio è “il mondo”, anche nella sua negatività. Questo amore raggiunge tutti, non solo alcuni, ma l’umanità come concretamente esiste, ognuno di noi che, dal momento che esiste, avverte presso di sé il Figlio dato per sempre, senza ritrattazione o pentimenti. Gesù dice che la dimensione della croce raggiunge ogni spazio e ogni tempo dell’uomo.
La liturgia invita allo sguardo d’amore verso il Cristo paziente, che soffre per tutti. Non solo in senso collettivo, ma anche in senso personale; uno sguardo non rapido, o devozionale, non dominato dalla paura, ma intenso e disposto ad imparare la Sapienza che emana da Lui, come “libro” che dice fino in fondo la verità di Dio che è Amore e che invita alla “conoscenza”, alla comunione, fino ad associarsi al destino di Gesù. È quello che (nella seconda lettura che abbiamo ascoltato) Paolo dice agli Efesini – aprendo traguardi impensabili per la immaginazione e la programmazione della riflessione dell’uomo su di sé – fino a voler vivere “nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo, che è la Chiesa” , come dirà ai Colossesi (Col.1,24).
“L’amore dell’uomo – scrive s. Tomaso d’Aquino – trova la sua motivazione nella bontà di colui che viene amato; l’amore di Dio, invece, genera la bontà in colui che egli ama, e questo è l’amore che scaturisce dalla misericordia, che perciò è la radice dell’amore divino”. Nella preghiera personale, prima della confessione pasquale, non cerchiamo tanto di ricordare le nostre colpe, ma soffermiamoci sempre più a contemplare questo amore personalissimo per ciascuno di noi, amore immenso che non potremo mai ricambiare in maniera adeguata.
Nicodemo è membro importante del Sinedrio, a va da Gesù di notte. Gesù non lo respinge, ma lo educa progressivamente a diventare discepolo. È un incontro denso di contenuto, coinvolge chi ascolta con l’affermazione del dono personale e gratuito della chiamata alla fede, con il Figlio donato perché ognuno sia certo che l’amore del Padre giunge a privarsi della relazione più intima, quella che gli permette di essere non una realtà inerte ma il Dio Trinità, l’amore reciproco. È forse il punto più alto della rivelazione di Dio come amore che salva: “Non ha mandato il Figlio nel mondo, per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.
È l’amore del Figlio donato il Vangelo che dice Dio: nel vangelo di Marco il centurione riconosce in Gesù il Figlio di Dio, vedendolo morire sulla croce (Mc.15,39).
Sconcertante nella radicalità, annuncia l’intenzione di comunicarsi, come un desiderio di espansione di sé, della relazione assoluta, ed eterna della vita trinitaria. È tale la forza di questa rivelazione, che Giovanni scriverà: “chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv.4,8). La proposta vertiginosa dell’amore gratuito corre il rischio del rifiuto, in una misteriosa contrapposizione tra fascino della gratuità e timore di utopia, una guerra che si combatte nella mente e nel cuore dell’uomo, senza mai placarsi. Tutti lo sappiamo: “La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce” (Gv.3,19). È una contrapposizione che insidia costantemente la storia dell’incontro dell’uomo con Dio, a volte con oscurità lunghe e dolorose, da cui non sembrano emergere aurore e risposte.
Giovanni non dice se Nicodemo aderì al Signore, ma lo mostra come uno che compie pazientemente il cammino di adesione matura, e lo mostra mentre lo difende nel Sinedrio, che lo vuole condannare (Gv.7,50); lui che aveva cominciato di notte, come credente e amico sotto la croce, si comprometterà pubblicamente portando “una mistura di mirra e aloe” (Gv.19,39) per seppellirlo. Un cammino di crescita graduale a cui dobbiamo guardare per evitare le impazienze e le inimicizie verso noi stessi, dall’ambiguità della notte alla certezza della fede matura.
Nel cammino della quaresima, per giungere alla luce della Pasqua, dobbiamo dire “sì” al Signore, che ci chiede di sostare nel grande silenzio del venerdì santo ed ascoltare la sua parola che invita a “nascere di nuovo”, al passaggio dalla mentalità individualistica che ci contraddistingue a quella della reciprocità delle persone. Invita a riandare a quel “principio” della creazione, quando Dio creava l’uomo a sua immagine, ”maschio e femmina”. Non solo nel senso di due esseri umani, chiamati alla procreazione, ma nel senso che l’essere insieme permette di essere icone di Dio amore. Nessuno, da solo, può rivelare la natura umana come amore: occorre la reciprocità. Per questo Dio ha posto all’inizio il segno del “noi”. E per questo l’incomprensione del rapporto uomo-donna oscura la possibilità del rapporto, dell’entrata nel mistero di Dio. Qui, a Piedigrotta, si incontra regolarmente un gruppo di persone separate o divorziate: è molto difficile vivere il vangelo quando la relazione si rompe e le persone diventano incapaci di riproporsela, schiacciate come sono dal dolore. Alla luce della fede, bisogna educarci a passare in continuazione dal buio della solitudine alla luce della scoperta dell’altro, e dalla luce della presunzione di autonomia al buio del dono di sé, perché si possa giungere alla reciprocità.
Così i figli di quell’uomo che è maschio e femmina nella reciprocità dell’amore si dispongono all’incontro con Dio senza paura e possono camminare nel mondo senza sentirlo terra straniera.
Ne viene anche una conseguenza di ordine sociale.
La società, infatti – cioè non solo la famiglia, ma la scuola, la politica, la cultura – dovrebbe strutturarsi per aiutare gli individui a diventare persone: una vera “maieutica” al servizio della persona, che non è serva o suddita, ma “essere in relazione”. La nostra epoca ha dato origine a uomini in grado di conquistare dignità e libertà, ma incapaci di relazione. Jacques Maritain, filosofo francese del secolo scorso, ha mostrato la centralità della proposta di relazione, che rende l’uomo veramente tale, persona vivente e amante, non individuo isolato.
La comunità cristiana deve sentire la bellezza e la responsabilità di farsi “levatrice” della nascita nuova dell’uomo, sapendo bene che è faticoso e difficile, ma possibile se si guarda al Crocefisso, “donato” dal Padre e guardato con amore riconoscente dai suoi, per imparare a diventare uomini veri che si dona nello svuotamento d’amore che suscita la pienezza dell’altro…
“Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti … ci ha fatto rivivere”
(Seconda lettura)
Questo è il cuore del Vangelo, fonte di pace e di gioia che, nella liturgia di oggi, sembra stare stretta nell’austerità della quaresima, per esplodere fuori.
Il colloquio di Gesù con Nicodemo fa emergere il segno del Crocifisso per indurre alla contemplazione del culmine dell’amore di Dio nel Figlio dato, quanto di più caro e prezioso Dio possa donare, e lo fa sempre, senza ritrattazione e senza pentimento – come abbiamo ascoltato nella prima lettura. Amore che raggiunge ogni uomo, ogni membro di quel tutto che è la creazione. Amore che porta a compimento il creato con la confluenza nell’unità di ogni particolare di esso perché tutto sia ad immagine del Creatore.
Quando il Vangelo dice: “Dio ha tanto amato il mondo”, afferma che ad essere amato è il mondo, non solo alcuni, non la mondanità, ma l’umanità intesa come concretamente esiste, ciascuno di noi. Amati, perciò, come il “Figlio amato” che è Gesù, il primo d tanti fratelli amati. Perciò a Gesù “innalzato” sulla croce ed “elevato” alla gloria per la sua obbedienza filiale, ognuno può guardare con fiducia.
Il vangelo di Giovanni propone la fede come sguardo al Cristo in croce. Non uno sguardo rapido, che sorvola, ma uno sguardo intenso, che contempla ed assimila, un desiderio amoroso di comunione con Lui. La croce è la sostanza della fede, la carità di Dio la abita, perciò chiama alla condivisione, cuore a cuore. Il punto alto della spiritualità cristiana è proprio il desiderio di essere associati a Cristo nella quotidianità semplice, ancora avvolta dall’oscurità del suo mistero di dolore e di affidamento.
Dice Tommaso d’Aquino: “L’amore dell’uomo trova la sua motivazione nella bontà di colui che viene amato; l’amore di Dio, invece, genera la bontà in colui che egli ama, e questo è l’amore che scaturisce dalla misericordia. Per questo la misericordia è la radice dell’amore divino”. Tutto per salvare il mondo. Dio salva sempre. Siamo noi che, increduli, preferiamo le vie del giudizio e della condanna. E restiamo estranei al pensiero eterno di Dio che pone il giudizio nella misericordia, per rivelarsi come amore. Ogni azione che un credente compie può essere luce o oscurità nella misura in cui è redenzione o condanna, amore che si ripropone o paralisi della relazione.
La Quaresima chiama alla responsabilità dell’interrogarsi seriamente.
Come si può giungere a questo capovolgimento di criteri e di comportamenti?
È la domanda che ci facciamo con Nicodemo. È Gesù stesso che ci risponde con il riferimento al libro dei Numeri. Come il popolo dell’Esodo, sofferente per la fatica della permanenza nel deserto con le sue insidie, doveva guardare il serpente innalzato sull’asta per poter venire risanato dal morso dei rettili, così la vita eterna sarà donata, non solo in un futuro lontano, ma già dal presente immerso nell’oscurità, a coloro che guardando il Figlio di Dio innalzato sulla croce, immerso nelle tenebre con ogni cuore umano sofferente, crederanno. Negativo e positivo coincidono sulla croce, bruttezza e bellezza, uomo e Dio. Giovanni utilizza un verbo dal doppio significato: innalzato sulla croce e innalzato nella gloria.
Ci viene proposto un cammino. La decisone di credere o rifiutare questa rivelazione non può essere limitata ad uno o pochi momenti di luce. È il “fare la verità” che conduce “verso la luce”. Occorre la riflessione personale e l’impegno per la misericordia nelle relazioni umane. Occorre non far pace con le proprie ambiguità, questo è il cammino “verso la luce”. “Verso” significa non pretendere di poter possedere la luce in modo definitivo per crogiolarsi in essa. Il vangelo non ci dice l’esito del colloquio. Però Giovanni testimonia che Nicodemo proseguì il cammino di fede, compromettendosi nella riunione del Sinedrio (Gv.7,50-52) ed adorando il corpo del Signore nella deposizione dalla croce (Gv.19,38-42).
Credere è abbracciare la fatica di percorrere una strada non comoda, ma umile e buia; è fidarsi dell’amore anche nell’inevidenza dell’amore. È cercare in punta di piedi un Dio che non parla nella spettacolarità, nel vento, nel fuoco o nel terremoto, ma nel flebile sussurro del silenzio (1Re,19). Guardare al Cristo innalzato è venire alla luce e alla pace, pazientemente, ricominciando a cercare dopo ogni delusione. Perciò cammina chi non rinuncia, non si rassegna all’orizzonte angusto delle soluzioni facili, del solo qui ed ora, coltiva il desiderio dell’interiorità, si ferma qualche istante ogni giorno per domandarla con umiltà al Padre della luce. Come pregava Agostino:
“Signore, mio Dio, unica mia speranza, fà che stanco non smetta di cercarti, ma cerchi il tuo volto sempre con ardore.
Dammi la forza di cercare, tu che ti sei fatto incontrare e mi hai dato la speranza di sempre incontrarti.
Davanti a Te sta la mia forza e la mia debolezza: conserva quella, guarisci questa.
Davanti a Te sta la mia scienza e la mia ignoranza; dove mi hai aperto, accoglimi al mio entrare; dove mi hai chiuso, aprimi quando busso.
Fa che mi ricordi di Te, che intenda Te, che ami Te. Amen!”
(La Trinità, 15,28-51)