DOMENICA DELLE PALME – Anno B
(Is 50,4-7; Sal.21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47)
Domenica delle Palme: spunti per una meditazione della Passione del Signore. Abbiamo ascoltato le parole con cui Marco, nel suo Vangelo, ci racconta la Passione del Signore. Poniamoci di fronte alla sofferenza di Gesù, per coglierne la fecondità. Di fronte alla sofferenza se ne può avere ripugnanza e addormentarsi, come i discepoli al Getsèmani. Se ne può avere paura e limitarsi a guardare da lontano. Come le donne, che avevano accompagnato Gesù lungo il suo cammino. La paura non permette di entrare nella fecondità del dolore. Si può entrare nel dolore, costretti, come l’uomo di Cirene. Ma l’essere costretti, il sentirsi costretti, non permette di entrare nella fecondità del dolore. Marco ci dice la totale solitudine di Gesù in ogni momento della sua passione: i discepoli lo tradiscono, lo rinnegano, lo lasciano solo. Anche il Padre suo lo abbandona. Ma è proprio nella solitudine del vivere il dolore per amore che ha origine la sua fecondità. Ognuno di noi è chiamato a fare esperienza della solitudine di una sofferenza vissuta per amore: è la strada per donare la propria vita. Il centurione ha riconosciuto in Gesù, che moriva sulla croce nell’abbandono totale, il Figlio di Dio. Lo ha riconosciuto prima di vederlo risorto. Possiamo trovare qui elementi per la nostra Pasqua personale.
Preghiera dei fedeli: – domandiamo il dono di cogliere il legame stretto tra chiasso e processo sommario alla verità di Dio, con onestà di mente e di cuore. – domandiamo il dono di saper far discernimento, nel coraggio di tirarsi fuori dal chiasso, per saper riconoscere i germi di verità nella complessità culturale, religiosa, sociale e politica del nostro tempo. – domandiamo la fiducia che, quando il chiasso si fa silenzio, la verità di Dio e dell’uomo si manifesta ai cuori. – domandiamo il dono e la forza per collaborare di persona, come Simone di Cirene, a quanto facilita il cammino faticoso della logica dell’amore, nella prontezza ad accogliere e valorizzare gli aspetti più crudi della vita di relazione. – domandiamo la libertà e la dignità dei credenti in Dio, per porre, come Giuseppe di Arimatea, gesti di responsabilità, a costo della solitudine e delle critiche, per vivere nella fedeltà il rapporto con il Signore. – domandiamo il dono della pietà, reso evidente dalle donne che seguivano Gesù, perchè ci faccia costantemente attenti e premurosi per i mille e mille volti della sofferenza umana nell’oggi del mondo, nella nostra città, nella nostra comunità. – domandiamo che il nostro modo di vivere e di morire diventi visibilità, nella debolezza, dell’invisibilità di Dio, perché Lui si possa dire al mondo nelle nostre persone, come è stato per il centurione nel modo di morire di Cristo. E che, contemplando il silenzio di Maria, poniamo la nostra fiducia nell’autenticità dei gesti semplici, non nell’illusione di quelli prestigiosi.
È il culmine del vangelo di Marco, il primo a raccontare la passione. All’inizio del ministero, Gesù aveva guarito un uomo dalla mano inerte (Mc.3), perché il suo interesse è “fare il bene”, “salvare la vita”. Ora porta fino in fondo questa tensione, a costo della propria vita. Le forze che lo combattono non possono vincere in lui la decisione per quello che Dio gli domanda. Alcuni accenni, quali spunti per una riflessione personale. L’unzione a Betania, gesto di amore di una donna anonima, vaso di alabastro che va in pezzi, profezia dello spezzarsi del corpo del Signore. All’inizio della passione l’amore di una donna, alla fine tre donne che osservano nel silenzio della fede che medita. “In verità”, Amen, Gesù pronuncia la parola solenne: dovunque arriverà il vangelo si ricorderà il segno dell’amore sovrabbondante di Lui in croce nei gesti di questa donna che pongono al primo posto l’amore concreto, non il pensiero di sé. Resterà per sempre che chi ama è più vicino alla verità di Dio. Su questo fondamento Marco propone il progredire della passione con la scansione delle 3 ore: le 9 del mattino, il mezzogiorno, le 3 del pomeriggio. È un progredire di solitudine, con la previsione del rinnegamento di Pietro e della fuga degli altri; con l’esperienza lancinante dell’abbandonarsi al Padre, mentre tutto lo faceva sentire abbandonato da Lui, con lo spezzarsi del fisico che gli fa vivere quanto aveva annunciato la sera prima nella cena , come a dire: “nella morte sono spezzato per voi, perché voi non siate fermati nel vostro cammino” (Anselm Grun). È l’immagine dell’amore che si offre. Questo nostro mangiare e bere dell’Eucaristia ha la sua radice nello spezzarsi del Signore in croce. L’incomprensione dei discepoli. Quello che riguarda direttamente Gesù che seguono sembra non interessarli, quasi in un’incapacità a capire quello che avviene. Forse Marco ha in mente, e ci consegna, l’immagine dei cristiani che spesso non vegliano sul presente, che si addormentano, che pronunciano parole e preghiere “stanche”, che fuggono nudi lasciando i panni della fede vissuta nel momento in cui si viene individuati come discepoli Forse Marco vuol dire a quanti conoscono la ferita del tradimento dell’amore che possono vivere in comunione profonda con la ferita più profonda do Gesù? E a quanti, come Pietro, tentano di mescolarsi agli avversari e, mimetizzandosi ed omologandosi, prendono le distanze da Gesù, che c’è una fecondità per l’ora del pianto amoroso, che conduce alla libertà. Gesù muore perché noi abbiamo la libertà dal male che compiamo. Il fatto che l’oscurità che avvolgeva la terra durante l’agonia, arretri nel momento della morte, è il segno cosmico della vittoria sulle tenebre, sulla sfiducia, sulla negatività. L’aver pregato il salmo 22 che, oltre l’angoscia dell’abbandono, sfocia nell’affidamento a Dio, è la chiave per l’altro grido, finale, che appare come un grido di nascita. Dove c’è la più grande oscurità, nelle situazioni come nei cuori, Gesù è presente e patisce per donare lo Spirito, nasce nel mondo con il suo Spirito. Così tutti gli uomini possono accedere liberamente a Dio, ogni separazione è tolta come il velo del tempio che si squarcia: ognuno che è toccato da questo amore che si spezza è già nella luce e nella pace del tempio. Così è per i discepoli fuggiti, così è per le donne. Così per il centurione pagano che “vistolo spirare in quel modo”, si esprime nella professione di fede. A lui Marco affida il segreto che ha tenuto stretto per tutto il vangelo. Gesù è il Figlio di Dio, e tutti noi lo siamo con Lui che è morto per noi. Quando il suo corpo viene affidato alla cura di Giuseppe di Arimatea e le donne guardano con amore intenso la scena, sia pur da lontano, comprendiamo che con la morte di Gesù il suo corpo è stato consegnato a tutti noi, perché sia presenza costante nei nostri cuori, come Paolo scriverà: ”Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal. 3,20).
“Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e a una morte di croce” Ogni anno la liturgia della domenica “di passione” ripropone le parole di san Paolo ai Filippesi perché restino impresse nella mente e nel cuore dei credenti. Nel racconto del vangelo di Marco si coglie l’invito a contemplare il dono che il Signore fa di sé in modo radicale, per sempre. La morte in croce è per Gesù una scelta libera e consapevole, anche se all’esterno appare dipendente dalle circostanze della cattura, del processo e della condanna. Nell’intimo è atto di pienissima sottomissione al Padre del cielo, ma è Lui che decide di dare la vita (Gv.10,18) in modo da portare a compimento, nella propria responsabilità, la rivelazione del Dio che perdona l’umanità in ciascun uomo, a cominciare dai più poveri e peccatori. Nella sua scelta, la fedeltà al Padre è unita intimamente all’amore per l’umanità. Tutto per testimoniare la misericordia di Lui, la chiamata dell’uomo ad essere figlio di Lui. Perciò la croce è il libro spiegato della rivelazione dell’essere di Gesù, Figlio di Dio e fratello di ogni uomo. Figlio e fratello! Al limite dell’annientamento di sé nella fedeltà a Dio e nella solidarietà con gli uomini, ai quali si identifica assumendo ogni miseria ed ogni peccato, il Crocifisso è la massima espressione della sofferenza, in senso oggettivo per quanto avviene e in senso soggettivo per quanto Gesù sente. Marco esprime questa sofferenza massima con il grido dell’abbandono. Meditiamolo un attimo. Condannato come un impostore e un bestemmiatore, fuori della porta della città simbolo del popolo di Dio, come era prescritto per chi si macchiasse dei più gravi delitti contro la comunità e perciò espulso, ritenuto “maledetto da Dio” (Dt.21,22), è giustiziato “fuori delle mura”. Questa la situazione del Signore Crocifisso. Una pena che nell’intimo avverte come lontananza di Dio: “Dio lo trattò come peccato in nostro favore” (Gal.3,13) e come abbandono dei discepoli. Gesù muore nella tragica esperienza del non intervento di Dio a suo favore, del più completo fallimento, e può viverla fino in fondo soltanto come un affidamento, oscuro ma senza riserve, all’amore del Padre, creduto pur nel buio più totale. Sprofondare nell’abisso del disumano, lasciarsi spogliare di ogni difesa, cadere nudo nell’orrore del peccato, vivere solo il legame con Dio solo, questa è la fede di Gesù Crocifisso, che nel nostro tempo ha fatto dire a Chiara Lubich: “Gesù Abbandonato è la fede”. Un’affermazione di evidente attualità per i nostri fallimenti e interrogativi. Attraverso il racconto di Marco, Gesù dice che il silenzio di Dio e su Dio può essere vissuto nella fede, difficile e arida, ripetendo con umiltà e perseveranza : “Padre, nelle tue mani consegno lo spirito mio” (Lc.23,45); così l’incontro duro con il rifiuto e la derisione, seguendo il Signore nella sua invocazione: “Perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc.23,34). Marco, che abbiamo imparato a conoscere nel suo stile asciutto, conciso, legato all’essenzialità dei fatti, qui invece indugia nei particolari perché chi lo legge possa sentirsi coinvolto, quasi somigliante ad uno dei tanti volti della vicenda, in qualsiasi situazione oggettiva o soggettiva si trovi. Per l’evangelista tutto è degno di nota, i numerosi personaggi con il loro nome, i luoghi e le ore, sono citati con precisione, le situazioni più contrastanti si incontrano nelle braccia dell’Abbandonato e si trasformano in luoghi di salvezza perché Lui prega per il perdono e lo ottiene. Così le grida e gli insulti che accrescono la solitudine, la fuga dei discepoli che pure lo avevano amato, la fatica del passante Simone di Cirene che diviene seguace per imposizione militare, l’incomprensione e gli scherni di chi aveva la possibilità di capire e non lo aveva fatto. Ma anche qualcosa che nasce, come il velo del tempio che si squarcia perché ogni discriminazione religiosa o etnica finisca e tutti possano accedere al Dio non più nascosto, Giuseppe di Arimatea segno della luce che, come un raggio sottile, entra nel Sinedrio, le lacrime delle donne che “osservavano da lontano”, intimorite ma ricche di tenerezza, Maria di Magdala e Maria, la madre, la peccatrice e la santa. La Chiesa dovrà essere sempre riconoscente a queste donne perché non si sono arrese alla morte e l’hanno condivisa nel pianto composto, senza grida. Sempre dalle donne viene ai credenti la forza di non arrendersi alla evidenza del male. Forse, proprio da quelle lacrime salate di dolore sarà scaturita la scintilla che condusse il soldato pagano alla professione di fede nel “vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio”.