V DOMENICA DI PASQUA – Anno B
(At 9,26-31; Sal.21; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8)
In questa domenica e nella prossima, la liturgia ci invita a riflettere sul perché della vita, della morte e della resurrezione di Gesù, attraverso la lettura del capitolo 15 del Vangelo di Giovanni.
Centro del messaggio odierno sono le parole di Gesù: “Rimanete in me ed io in voi” (Gv.15,4). Guardiamo con attenzione e riconoscenza al cammino di liberazione che Giovanni ci propone in tappe successive, per indicarci il rapporto fra discepolo e Maestro. Nel capitolo quarto, nel suo incontro con la Samaritana Gesù ha trasformato la sua stessa sete in cammino di liberazione per tutti noi, ha scoperto nella donna un desiderio profondo di vita. Chi ha sete deve bere della sua acqua viva. “… chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv.4,14). E poco dopo, durante la grande festa delle Capanne, proclamerà alla folla: “Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno” (Gv.7,37-38). L’acqua che ci disseta è lui, Cristo. Dopo la moltiplicazione dei pani, nel lungo discorso che rivolge alla folla, egli concluderà dicendo: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno …” (Gv.6,51). Il pane che ci nutre è la sua carne donata per la vita del mondo. Attraverso le immagini del bere e del mangiare, Gesù punta sull’interiorità, non episodica, ma duratura e costante. Non ci invita agli atti di una religiosità esteriore, ma alla fede, che trasforma dall’interno tutto il nostro essere. Ci chiede di rimanere stabilmente in lui, per vivere della sua stessa vita di amore e portare molto frutto.
Gesù si definisce vita vera. Gli dobbiamo riconoscenza infinita per il dono dell’Incarnazione, che immerge nella nostra storia il Verbo di Dio, la sua Parola vivente. I Padri della Chiesa considerano l’Incarnazione come il prodigio che mette Dio dalla parte dell’uomo, fa di Gesù la vigna di cui noi siamo i tralci. Bisogna pensare al mondo agricolo per capire che cosa è una vigna, l’amore che porta per essa il contadino che è riuscito a comprarla con i risparmi di una vita di lavoro. “La mia vignetta”, egli dice con immenso amore. Con lei egli esprime il suo amore per la creazione e può lasciare anche ai figli qualcosa di concreto, capace di dare frutto. La vigna dà molto lavoro, perché è necessario d’inverno tagliare i rami secchi, in primavera potarla dai rami che non hanno grappoli, ma solo foglie superflue. È un’immagine viva della fede che ci unisce a Dio e che richiede un impegno serio di attenzione e di amore, per non diventare tralci secchi. Dobbiamo sapere che anche se siamo operosi e attivi, il vignaiolo ci poterà da quanto in noi non è per il suo Regno. “Rimanete in me ed io in voi … senza di me non potete far nulla”. Quello che conta è il rapporto profondo con Gesù, perché solo inseriti nel suo amore potremo dare frutto, opere di vita per l’eternità.
Ma quali sono queste opere? Ci risponde, oggi, lo stesso Giovanni nella sua prima lettera: “Questo è il comandamento … di Dio …: che crediamo nel Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri …”. Giovanni ha imparato tutto questo dalla sua lunga familiarità con Gesù. Nel Vangelo egli ricorda il suo primo incontro con il Signore: ricorda anche l’ora, erano le quattro del pomeriggio. “Andarono, dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui …” (Gv.1,39). Tutta la vita di Giovanni è stata all’insegna di questo fermarsi a casa di Gesù, di questo rimanere con lui. Nel capitolo 21 i discepoli incontrano Gesù risorto sul lago di Tiberiade. Pietro, dopo il suo lungo colloquio con il Signore, si preoccupa di Giovanni (nel suo Vangelo Giovanni non si indica mai con il proprio nome, ma quasi sempre con l’espressione “il discepolo che Gesù amava”) e chiede: “Signore, e lui?”. Gesù gli risponde “Voglio che rimanga”. Non c’è fede senza il rimanere con Gesù, condividendo tutto con lui. Non vivere di episodi, con una fede discontinua, a singhiozzo. “Rimanete in me ed io in voi”.
Nella realtà della vigna, quando la linfa raggiunge l’estremità della pianta, appare una goccia sulla punta del ramo, che darà il frutto. Allora il contadino dice: “La vite sta in amore”. L’amore di Dio precede il nostro essere tralci: ci penetra, ci pervade, ci riempie e noi ci rendiamo conto di avere la vita. Espressione di questa vita sono le nostre opere nuove. Come a più riprese ci ripete la Scrittura l’uomo è abitato interiormente da Dio, è tempio dello Spirito Santo. Spesso la ricchezza di questa interiorità in cui Dio si fa presente, ci sfugge, quasi le fossimo allergici e ci sottomettiamo a logiche di vita epidermiche. Agostino ce lo insegna in tutti i suoi scritti. Nelle Confessioni egli dice al Signore; tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova. Tu eri dentro di me ed io restavo fuori. Tu eri in me ed io non ero con te…
Traiamo, ora da questo discorso alcune considerazioni. Dal punto di vista personale accogliamo l’invito rivoltoci dalla Parola a prestare attenzione alla nostra interiorità. È la vocazione di ogni discepolo, in ogni condizione di vita. Quanto più sono nel mio intimo, tanto più assaporo la dolcezza di Dio.
Dal punto di vista delle nostre relazioni interpersonali, non viviamo da soli, isolandoci. Esercitiamoci a vivere l’uno nell’altro, aprendoci alle esigenze dell’altro, non chiudendoci all’interno dei nostri punti di vista, delle nostre prospettive. Viviamo così le esigenze del matrimonio realizzato nella fede. Io rimango in te e lascio che tu rimanga in me. È la vocazione profonda della sacralità, della santità del matrimonio, cui tante coppie – oggi presenti – si stanno preparando. Il rimanere reciproco, proprio nella difficoltà dell’accoglienza della differenza, è il segno di Dio che rimane nell’umanità. Non allontanarsi dall’altro, ma essere vicendevolmente linfa l’uno dell’altro. Il Cristianesimo vive questa spiritualità anche nella vedovanza: rimanere in questa reciprocità anche al di là dei confini della morte. Rimanendo l’uno nell’altro, rompendo i limiti angusti della nostra individualità chiusa, scopriamo l’Altro, che è Dio e rimane in noi perché ci ama. I fidanzati lo ricordino.
Rivolgiamoci a Maria, la donna che rimane col suo Signore, la donna fedele.
La realtà che Giovanni vuole descrivere è il rapporto tra Gesù e i suoi discepoli: perciò alcune espressioni sono più proprie del rapporto che della cultura della vite; la quale perciò è solo un’immagine, facilmente proponibile perché già presente nell’Antico Testamento e nei sinottici.
Al secondo versetto sono descritte due azioni del vignaiolo:
• la prima sta nel tagliare i tralci che non danno frutto;
• la seconda nel tagliare i piccoli germogli per aiutare i tralci robusti che devono dare frutto e hanno bisogno di nutrimento: anche questi hanno necessità di venir potati.
Che cosa significa il simbolismo del portare o non portare frutto?
Spontaneamente viene da pensare a un modo virtuoso di vivere o alle opere buone.
Ma per Giovanni non c’è distinzione tra vita di fede e opere. Per lui fede e opere sono così intimamente unite che se uno non ha le opere significa che non ha neppure la vita di fede. Perciò un tralcio che non dà frutto non è solo improduttivo, sebbene vivo, ma è semplicemente morto; di esso viene detto “lo toglie”.
Agostino ne trarrà la conclusione drammatica. “aut vitis, aut ignis” “o la vite o il fuoco” (su Gv.LXXXI,3).
La fine del secondo versetto dice che vengono potati anche i tralci produttivi perché lo diventino di più, con un’attenzione che fa pensare alla relazione personale: “lo pota perché porti più frutto”, al singolare. La spiegazione va cercata non tanto nel senso di attesa di una maggiore operatività missionaria, quanto nel senso della crescita dell’amore che lega il cristiano a Gesù, e ne apre la vita alla fraternità, come appare chiaramente da tutto quello che segue nel capitolo 15 del vangelo di Giovanni. Perciò l’esigenza della potatura riguarda anche i “già mondi”, coloro che hanno accolto la parola e seguono Gesù.
“Rimanete in me come io rimango in voi”. È un rapporto personale: se il discepolo rimane in Gesù con la vita di fede, Gesù rimane in lui con la sua stessa vita, donandogli la fecondità: “fa molto frutto”. L’esigenza fondamentale di questo “rimanere” reciproco tra maestro e discepolo è presente in Giovanni all’inizio del suo racconto, nel “si fermarono” dei primi discepoli lì dove Gesù abitava (Gv.1,39), fino alla descrizione della vita di fede con il Risorto nell’Apocalisse: “se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap.3,20). Terminare la raffigurazione della vigna con l’accenno al giudizio finale: “chi non rimane viene gettato via”, significa sottolineare l’importanza del “rimanere”, che perciò è la parola chiave del brano.
“Rimanere”: per noi significa perseverare, restare fedeli.
Dalla parte del Signore indica il suo essere sorgente stabile, forza che sostiene, vento che sospinge. Fa pensare allo Spirito e all’interiorità; al vivere come espressione della vigilanza al “non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (seconda lettura), al dono di sé possibile, anche nella debolezza, perché fatti esperti che “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”.
In ognuno di noi c’è il desiderio di trovare una sponda sicura a cui possa approdare la nostra emotività, ogni giorno provocata ed accresciuta da quello che accade. A volte, per darci sicurezza, ci ritroviamo in fondamentalismi antichi e nuovi, che ci rendono più insofferenti, ci mettono alla ricerca di un nemico da battere, con l’esito dell’ansia che cresce, dello spazio di confronto che diminuisce, del venir meno del dubbio e della ricerca, del cammino paziente per rendere più umano il nostro vivere.
Segno del rimanere reciproco, del Signore in noi e nostro nel Signore, dovrebbe essere il dare tempo a noi stessi, alla riflessione, al pensare, al confronto amichevole, all’ascolto della Scrittura e degli avvenimenti quotidiani.
È difficile uscire da quella specie di “follia collettiva” che ci prende ogni giorno nel traffico o davanti alla TV. Ma è necessario per ritrovare il senso della vita e la gioia del Vangelo, per uscire dal grigiore a cui siamo forse rassegnati e che ci impedisce di vedere, per la fretta, i colori positivi e le sfumature buone della realtà.
“Quando ritroviamo nella solitudine il rapporto con Te, ritroviamo il rapporto con gli uomini e con le cose, non come schiavi, ma come figli di Dio”.
(Chiara Lubich: “Scritti Spirituali” 1, p.233)
Chiediamo al Signore un’attenzione profonda per comprendere e meditare questa pagina intensa del vangelo di Giovanni.
Dopo l’ultima Cena Gesù è insieme ai discepoli, prima della passione; le sue parole possono considerarsi il suo testamento, non possiamo dimenticare quello che ci chiede. L’immagine della vite e ei tralci “spiega” la relazione tra il Padre e il Figlio nel mistero trinitario – che è fondamento della nostra fede, ma non possiamo mai penetrare – e illumina quella tra Gesù e la Chiesa, tra Lui e il singolo discepolo. Riferendosi a quella immagine già presente nell’Antico Testamento – nel Salmo 80 e nel capitolo 5 del profeta Isaia – ben conosciuta anche perché la sterilità della vigna è occasione, nel discorso dei profeti, per annunciare il rammarico di Dio per l’infedeltà del popolo, Gesù afferma di essere la vite vera, feconda, in grado di divenire la gioia di chi la ha piantata e perciò la realtà a cui ogni persona che voglia vivere in pienezza deve legarsi intimamente, come in una immanenza reciproca, un “dimorare” un “rimanere” – ama dire Giovanni – in comunione piena. I termini sono netti, quasi preoccupati di dire al lettore e ricordare al credente, tante volte assillato dall’affollarsi di pensieri e questioni logoranti, che cosa è veramente essenziale nella vita. L’immagine drammatica del tralcio rigettato perché infecondo e la frase, ultimativa nei suoi vocaboli: “senza di me non potete far nulla”, non sono dense di minacce come le espressioni di un tiranno che miri ad una sottomissione massificata e schiavistica, ma apertura di luce al credente. A chi voglia esserlo con fiducia ed adesione riconoscente, viene aperta l’unica possibilità di realizzazione del proprio volere nella comunione con Gesù, intesa come tensione primaria e prioritaria del proprio essere e, per conseguenza, la docilità nel fidarsi quando l’attuazione di quella priorità dovesse comportare l’accettazione di revisioni del proprio modo di vivere, di quei tagli che appaiono difficili e dolorosi, inevitabilmente, a chi vi si debba sottomettere.
Ma il Signore affida alla sua comunità l’atteggiamento del Padre premuroso che “ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto”. L’amore personale di questo Padre fa passare, misteriosamente, ognuno amato come figlio attraverso la via della croce di Cristo, in una vera partecipazione ad essa. Per essa, infatti, per quella via, Gesù è diventato la vite vera. Nell’incontro con una madre di tre figli – di 14, 9 e 5 anni –, ed un lavoro di grande gratificazione, ho sperimentato con forza l’esigenza in lei di domandarsi con attenzione che cosa conti realmente nella vita, il bisogno intenso di ripensare l’ordine delle cose. Come un evidenziarsi dentro che, a volte, nella vita credente, presenta con esigente attualità la ginnastica della priorità, secondo la testimonianza di Paolo nella lettera ai Filippesi: “queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per Lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura per guadagnare Cristo ed essere trovato in Lui” (Fil. 3,7-8).
Questo testo di Giovanni, in cui per sette volte viene ripetuto il verbo “rimanere” come condizione per il “portare frutto”, ci è donato dalla liturgia della domenica per ribadire che la Chiesa non può pensare il suo essere nel mondo come testimone di Cristo, in maniera diversa. L’unica sua parola dovrà scaturire dal suo “rimanere” nel Signore, e il frutto di sempre nuove adesioni al vangelo di Lui non potrà che germogliare di lì. Siamo chiamati a credere che c’è questa linfa che ci abita, ci risale, ci inumidisce di fecondità anche nell’apparente sterilità delle nostre vite, che sentiamo rinsecchite ed aride, vinte dall’inverno delle sofferenze e delle delusioni. Gesù ci dice di essere presente, e di raggiungerci dal di dentro, proprio come la linfa che risale la pianta vecchia fino a diventare goccia vitale sulla punta del tralcio, perché siamo donne e uomini che danno frutto.
Allora possiamo leggere con gioia riconoscente le espressioni degli Atti che riferiscono della scoperta progressiva della prima comunità di un mondo non inavvicinabile, della possibilità di modificazioni, nel cuore e nei gesti umani, di cui ci si possa fidare, di diventare donne ed uomini capaci di esprimere “con coraggio” la verità del vangelo in ogni ambiente e cultura.
Questa comunità non si infiacchisce nel dono, ma si “consolida” e si identifica nell’aprirsi sempre più. La dimensione interiore si intreccia e si coniuga con quella esteriore dell’espansione in un clima sacro e umano nello stesso tempo, “nel timore del Signore”.
Forse tutti abbiamo necessità di scoprire questo “coraggio”, che sia sicurezza interiore e franchezza di espressione nel dialogo umano con le persone e con la cultura.
Domandiamolo nella preghiera.
Ancora un’immagine, un’allegoria che il vangelo di Giovanni propone, per comprendere più profondamente e concretamente possibile, come Gesù pensi il suo rapporto, la sua relazione, con i discepoli. L’Antico Testamento conosceva l’immagine della vigna e la esprimeva in modo drammatico per fare emergere la disparità tra la proposta di Dio e la risposta umana. Isaia, al capitolo 5, ha una bellissima pagina: “egli aspettò che producesse uva, essa produsse invece acini acerbi” (Is.5,2) e il Salmo 80, composto dopo l’invasione assira del regno del Nord e dopo il saccheggio di Gerusalemme nel 586. La vigna distrutta a motivo dell’allontanamento a Dio delle persone, particolarmente de capi, rappresenta il popolo di Israele.
Ora Gesù personalizza i termini, dice che la vite vera è Lui e che ogni credente vive ed è fecondo nella misura della comunione con Lui. È un insegnamento forte e chiaro che riconduce all’inizio della storia dell’uomo, quando viene pensato e creato con le espressioni paterne e affettuose: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Gen.1,26). Dio, perciò, è il fine della vita dell’uomo – dice Giovanni – e la fecondità del suo essere dipende dal “rimanere” – è il verbo che egli predilige per dire la pienezza della vita filiale della creatura umana. Per questo l’essere della persona umana matura nel rapporto stabile con Dio, che non è perciò un’astrazione opinabile, un accessorio che non toglie e non mette, gratificante per quanti ne avvertono la necessità. In questo senso l’immagine del tralcio è ancora più significativa di quella della relazione tra il “Pastore bello” e ciascuna pecora del suo gregge, perché questa ha una sua vita propria, mentre il tralcio è parte della vite; se si staccasse, morirebbe sicuramente. Fuori dell’immagine, il pensiero di Dio che il Vangelo insegna, la questione “seria” per l’uomo, è l’unione con Gesù Cristo stesso. È l’essenziale della vita. Da quella unione, come da una fonte, dipende tutto il resto da pensare e da operare. E richiede, per conseguenza, di non sciupare il tempo dell’esistenza, di non disperdere le proprie forze e i doni ricevuti per essere distratti e disattenti all’essenziale. La grandezza e la dignità della persona umana è da pensare allora come un viaggio, un itinerario paziente verso la relazione interiore con Dio, scelta con libertà e responsabilità individuale, come “fine”, come “bene ultimo” da cui non distogliersi. Perciò è importante verificare ogni giorno la validità dell’incontro personale con Dio. È famosa l’espressione di Agostino: “Tardi ti amai, bellezza antica e sempre nuova” (Conf.10,38), in cui il rammarico è riflesso della priorità scoperta.
L’appartenenza al Signore, come il tralcio appartiene alla vite, comporta i tempi e la necessità della potatura, nel senso reale della prova. È come un regola della crescita e della fecondità: l’agricoltore – Gesù dice: “ogni tralcio che non porta frutto, lo taglia e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. “Più glie ne togli, più te ne da”, dice il proverbio contadino. Misteriosamente, ma realmente, la premura di Dio fa passare i discepoli del Vangelo attraverso l’esperienza del venire “recisi”, quella stessa esperienza che il Maestro e Signore ha fatto sulla croce, subendo la “recisione dalla terra dei viventi” (Ger.11,19). Fu per quella recisione accolta in sé per amore, al di là di tutta la fatica umana, a fare di Gesù la vite che, innestati innumerevoli tralci, continua a portare frutti.
Tutti siamo chiamati alla disponibilità che nasce dal fidarsi di Dio, quel fidarsi che vince la resistenza istintiva alla prova e a tutto quello che comporta e significa sofferenza. Tutto è perché si possa diventare più ricchi di amore e più vuoti di interessi individualistici, più attenti alla fecondità che alla propria integrità, più certi che Dio non vuole la sofferenza, ma il frutto abbondante che è la linfa dei nuovi tralci e dei nuovi grappoli. Hanno ragione i contadini dell’Italia centrale che, quando potano le vigne e sui rami tagliati appare una goccia di linfa, dicono che “la vite è andata in amore”. Perché l’amore domanda la goccia di sangue! Senza questa regola è velleitario il desiderio di portare frutti di bene, di quel bene che Dio vuole per l’umanità. La stessa comunione nella fede e nella Chiesa non significa ancora comunione nella carità, che è il frutto della vita di Dio in noi. Di questo sant’Agostino si preoccupava:
“Che cosa è l’appartenenza alla religione? Il sacramento in ciò che ha di visibile.
Cos’è l’efficienza della religione? La carità invisibile.
È vero infatti che i sacramenti sono sante e grandi realtà, ma l’uomo privo della carità è un nulla.
L’efficacia del sacramento è dunque la carità”
(Discorso 229/LI, frammento)
Perciò Giovanni ammonisce: “Figlioli, non amiamo a parole, ma con i fatti e nella verità”.
Così anche Agostino: “Hai nome di cristiano. Gli altri possono chiamarti cristiano finché vogliono. Il nome non giova se i fatti mancano”