ASCENSIONE DEL SIGNORE – Anno B
(At 1,1-11; Sal.46; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20)
Celebriamo oggi la conclusione della vicenda storica di Gesù Cristo.
A coloro che “lo hanno visto come il Risuscitato dai morti” (così riportano alcuni codici), cioè agli undici, il Signore dà un direttiva, l’incarico della missione che dovrà avere come destinatario il mondo intero e come dimensione il creato: il Vangelo evidenzia che il Figlio di Dio non è venuto solo per gli uomini, ma per tutta la creazione…
Il Signore, rendendosi presente e visibile agli undici dona loro la sconfitta di ogni incredulità, di ogni dubbio che prima ne aveva bloccato i cuori. Con la parola e la grazia essi sono costituiti “testimoni”, vengono investiti della responsabilità di annunciare il “Vangelo”, la “Buona Notizia”, non tanto nel senso di una dottrina da insegnare, ma nel senso della persona stessa di Cristo da seguire. Egli, infatti, è colui che realizza in sè l’attenzione di amore di Dio Padre per la sua creazione, facendosi capo e battistrada, testa dell’umanità redenta e primo tra molti fratelli (Col.1,23). La libera adesione dell’uomo verrà facilitata dal fatto che la testimonianza sarà confermata dalla coerenza della vita e dai “segni”: essi diranno come il Signore glorificato, pur non visibile sensibilmente, mantiene la promessa di restare con la sua comunità in atteggiamento premuroso e di integrazione del suo impegno.
L’immagine finale di Gesù, che Marco ci dona, è quella di “Cosmocratore”, colui che ha potere sul creato, il Kyrios, il Signore. “Signore Gesù” è la definizione di Lui che si trova solo qui, all’interno dei Vangeli, ma che verrà adottata dagli scritti del Nuovo Testamento, particolarmente dagli Atti degli Apostoli e dalle lettere di S. Paolo e sarà ben conosciuta nella professione di fede dei primi cristiani, che si salutavano nel nome del Signore Gesù.
L’ascensione di Gesù è descritta secondo la concezione biblica del mondo, e perciò in senso verticale, che ritroviamo in tanti capolavori dell’arte figurativa. Ma la memoria e la fantasia vanno purificate: come l’inferno non è sotto terra, il paradiso non è sopra, nel cielo. Dio è tutto in tutto e Gesù entra nella realtà divina con tutta la sua umanità. L’essere seduto “alla destra di Dio” è l’indicazione della sua intronizzazione, come era stata annunciata nel Salmo 110: quale Messia glorificato, Gesù è partecipe della divinità, del suo potere. Sono indicazioni che Marco dà in termini brevi, sintetici, perché credute e annunciate nella professione di fede della liturgia. La redazione definitiva di Marco è stata compiuta dopo decenni dall’inizio della missione e può riassumere anche l’esperienza della Chiesa. Partiti da Gerusalemme per andare “dappertutto”, i discepoli avevano avuto la possibilità di annunciare il Vangelo anche in terre lontane dove Pietro e Paolo avevano donato la loro vita e i credenti avevano realmente sperimentato la potenza della parola che cambia l’esistenza, e unisce a Dio, a Gesù asceso. Come riferiscono anche gli Atti, la Chiesa aveva conosciuto il conforto dei segni, la potenza del Signore che accompagnava e suppliva prodigiosamente anche la pochezza degli uomini, allora come oggi.
Marco ci dona l’affermazione della gratitudine della Chiesa.
La liturgia dell’Ascensione ci aiuta ad attualizzare quello che celebriamo.
Presentando il Signore “asceso”, nella lettera ai cristiani di Efeso, Paolo lo propone come colui che “distribuisce” doni agli uomini. Non si tratta di beneficenza né di “pacchi dono”, ma della grazia che permette di attuare il progetto di Dio. Questi doni fanno dell’umanità e della creazione una realtà in cammino verso il compimento, verso il Regno, di cui chiediamo la venuta quando preghiamo il Padre Nostro.
C’è un cammino individuale verso il Regno di cui, a volte siamo in attesa struggente, come la persona provata da grandi sofferenze fisiche, ma forte nella fede, che mi ha chiesto: “Posso pregare perchè sia abbreviato il tempo dell’attesa?”. C’è una stanchezza che può anche divenire via di Dio, per acuire il nostro desiderio. La nostra vocazione è l’incontro: se riusciamo a dire come i discepoli: “Signore mio e Dio mio”, le vicende della vita possono essere lette in una prospettiva nuova.
E c’è il cammino della missione cosmica della Chiesa, che abbraccia l’universo e che è resa più concretamente accessibile dai progressi della scienza e della tecnica. Come ha detto il Cardinale Tettamanzi non ci sarà integrazione per i fratelli che vengono dall’estero, se essi non potranno godere dei diritti di tutti. Il fine dell’integrazione chiede la fatica dell’accesso ai diritti.
C’è un rapporto stretto tra il Signore glorificato e ciascuno dei suoi discepoli, un rapporto che è meno preoccupato della salvezza individuale di quanto non lo sia di quella dell’umanità intera.
Ricevere il battesimo, diventare discepoli di Gesù, comporta una dimensione di servizio, in obbedienza all’ “andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura”.
Dice Karl Barth:
“la grazia ricevuta non è una pillola per dormire, nè una calda sensazione di conforto, bensì un ministero; è un privilegio implicante responsabilità e azione” (Lettera agli Efesini, cap.III).
Possiamo capire la ragione profonda della natura collettiva della spiritualità cristiana e quanto le sia in contrasto la seduzione, sempre ricorrente, dell’intimismo individualista.
Liberando i credenti dalla “prigionia”, il Signore glorificato accompagna i suoi nella fatica di “cospirare” per la bellezza e la fecondità della Chiesa, strumento del suo progetto di “riempire ogni cosa”, ci accompagna finché l’amore non avrà vinto.
Ringraziamo per la coscienza di questa vocazione, custodiamola in cuore e nei gesti concreti per l’unità.
“Fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”
Il brano liturgico è la seconda parte della conclusione del vangelo di Marco, quasi certamente non di mano dell’evangelista – dicono gli studiosi – ma da sempre accolta dalla Chiesa come autentica, come opera dell’illuminazione dello Spirito Santo nello scrivere di un discepolo della cerchia di Marco.
Nell’Ascensione trova il suo riconoscimento l’opera compiuta dal Crocifisso-Risorto che realizza nella storia il disegno eterno del dialogo tra le Persone della Trinità, che è detto dai Padri “congiura d’amore”. Il suo sacrificio è accolto, la sua preghiera diventa intercessione universale, la sua presenza è estesa ad ogni tempo, la sua signoria diventa efficace in ogni spazio, “in cielo e in terra”.
Gesù non si allontana: inaugura una presenza diversa, contemporanea ad ogni uomo senza i limiti tipici della fisicità e dell’esistenza nel tempo: perciò è fonte di speranza. Questa condizione fa di Lui il Vivente, qualcuno che non è sorpassato. La sua comunità fa quotidianamente l’esperienza di essere insieme salvata e strumento di salvezza, di essere accompagnata ed assistita. Il Signore si fa compagno di strada, umile e tenero amico, e coinvolge i discepoli in un potere condiviso: essi potranno portare a compimento il suo servizio all’umanità per la forza del suo Spirito e per il suo stesso confermarli con i segni che egli stesso aveva operato. È la vittoria sul mondo che permette ad ogni circostanza di entrare nella logica del compimento. È il cammino della speranza, la certezza di un giorno finale, di pienezza individuale per i singoli e collettiva per l’umanità. È un compimento che si realizza nella “economia dei doni”, diversi e convergenti verso la pienezza dell’unità. Il Signore “tornerà un giorno”: è la promessa la cui verità viene anticipata dalla ripetuta manifestazione agli undici.
Gesù precede e mostra la via. I discepoli devono imparare a guardare come egli è in realtà, e seguire la sua via con docilità fiduciosa. Ognuno deve imparare ad accogliere da Dio la propria esistenza come la via di Gesù in se stesso. Guardare bene il segno del ritorno alla Galilea, come ad una patria. La Galilea è il luogo dove Gesù ha operato molto prevalentemente, la patria di Maria e dei primi discepoli. Ognuno è rimandato alla propria esistenza concreta. Riflettere su questo “rimandare”, come qualcosa che riguarda ogni credente in Gesù.
L’angelo che annuncia la resurrezione nel capitolo 16 del vangelo di Marco sembra voler parlare ad ogni suo lettore, come per dirgli: ora che hai conosciuto tutta la vicenda di Gesù, che sai dove ha condotto Lui e dove conduce chi lo segue, torna al luogo dove sei di casa, dove vivi e lavori, come è stato per Lui che lì ha operato. Così, nel capitolo 8, Lui stesso ha indicato a colui che gli era stato condotto non vedente: lo aveva preso per mano, lo aveva reso vedente e lo aveva rimandato a casa sua perché testimoniasse per la gloria di Dio (Mc.8,22-26).
Galilea significa anche in mezzo ai pagani, terra del paganesimo e dell’incredulità, nell’intimo di ciascuno, dove ognuno sperimenta in se stesso la propria ambiguità, sperimenta di essere terra di paganesimo, di non-fede, e ove ognuno avverte la necessità di fidarsi più pienamente di Dio, fino all’ultimo.
Seguire Gesù non può limitarsi al ricordo del suo essere vissuto 2000 anni fa. Bisogna guardarlo e seguirlo morto e risorto. Marco vuol dire che, guardandolo nella sua realtà concreta, veniamo confermati da Dio nella fede, in una singolare esperienza di vicinanza di Lui: egli “agisce insieme” e “conferma”, persino con i segni. Viene da pensare al capitolo 11 del profeta Isaia, che indica nel lupo che “dimorerà insieme con l’agnello”, nel lattante che “si trastullerà sulla buca dell’aspide” l’avvento dei tempi messianici (cfr. Is.11,6.8)
Marco non conclude il vangelo con una finale “a lieto fine”. La sua è una conclusione aperta, che invita il lettore a non accantonare il libro, a non tenerlo chiuso sul comodino, ma sprona a camminare dietro a Gesù senza perderlo di vista, perché questa è la cosa importante, il fatto serio che domanda priorità nella vita di un credente. Marco sembra assicurare che chi segue Gesù con decisione viene guarito dalle difficoltà che la vita di fede comporta e viene confermato nello scoprire in quella via il modello del proprio cammino personale.
Dovunque viviamo, Gesù ci ha preparato la via e su di essa ci fa sperimentare di essere amati da Dio come Lui, in una partecipazione individuale alla parola donata a Lui nel battesimo: “Tu sei il Figlio mio prediletto, in te mi sono compiaciuto” (Mc.1,11)
Il luogo dell’esistenza umana, è perciò, come Galilea, come patria in cui abitare amando e condividendo la fatica delle donne e degli uomini del nostro tempo, donando la luce dell’Ascensione, la certezza del suo ritorno.
L’Ascensione è il compimento dell’itinerario terreno del Signore Gesù, la sua opera è riconosciuta, il suo sacrificio è accolto per sempre, Egli è il vivente che intercede per tutti. Solo in apparenza si allontana. La sensibilità lo percepisce lontano perché la modalità umana della comunicazione passa attraverso il vedere, l’udire, il toccare. Ma l’esperienza della presenza si fa più forte nell’interiorità, attraverso quelli che si possono dire “i sensi dell’anima”, più prossima nella contemporaneità del Risorto con ogni uomo, come avvertono in particolare i popoli del sud del mondo, capaci di sentire interiormente la presenza del divino in modo più intenso di quello che può permettere la sicurezza psicofisica.
È per la certezza sperimentata della presenza vicina alla vita di ciascuno, che i discepoli possono avviare la missione. Non si tratta di qualcosa di pensato dal basso della loro comunità e fondato sulla loro convinzione, ma di fedeltà al mandato : “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli … ” (Mt.28,19).
La Chiesa non è lasciata sola, nel ripiegamento su di un passato da ricordare, e celebrare come un riferimento di luce, né è lanciata in un’avventura di proselitismo ideologico e ad ogni costo. Obbedendo al mandato del Signore Risorto, è chiamata a sperimentare e testimoniare la verità di quanto Marco, concludendo il suo “Vangelo di Gesù Figlio di Dio”, ha scritto: “Il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Mc.16,20). Questa esperienza del Risorto contemporaneo ad ogni tempo della Chiesa, nel convincimento personale e nell’esperienza di preghiera, rende la missione capace di attualità, di continuità e perciò di giovanilità, di dialogo con gli uomini e le culture. E la coscienza di dover essere sempre salvata dalla presenza misericordiosa del suo Signore, le permette di essere più pura trasparenza dell’unico Salvatore. È Lui che dona verità e forza ai gesti sacramentali, alla fedeltà nell’insegnamento, all’ascolto e all’accoglienza della Parola che “percorre il mondo intero” (A. Schweitzer). Perciò la comunità cristiana, pur sperimentando ogni giorno la fragilità dei suoi membri, la lentezza e i ritardi delle sue istituzioni, la fiacchezza e le contraddizioni della sua testimonianza nel mondo, tuttavia non si arrende e non si deprime.
Guardando all’umanità glorificata di Gesù Cristo, la fede la sente e la propone come un vincolo indissolubile tra gli uomini e Dio, perché attraverso di essa sono introdotti nella sua stessa vita divina “fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Seconda lettura).
Contemplando quell’umanità gloriosa e segnata dalle cicatrici della Passione, i vangeli propongono la vicenda di Cristo come la “via” dei discepoli per seguire il Maestro, fino all’avvento di quel “giorno senza tramonto”, quando ritornerà per riconoscere ed accogliere in sé i suoi che lo avranno seguito.
Quelle “piaghe gloriose” conservate dal Maestro asceso al cielo, sembrano suggerire due riflessioni.
Esse sono la memoria dell’umanità di Cristo, “esaltata” per aver donato la propria vita “a favore di tutti”, dell’umanità intera e di ciascuno. In questo tempo liturgico che diciamo “di Pasqua”, le pagine del Vangelo hanno ripetutamente proposto il particolare delle cicatrici. Quasi per dire che il Risorto non è riconoscibile tanto nella sua fisionomia quanto nelle piaghe mantenute nel suo corpo glorificato. Dare la vita per amore, è perciò, la sintesi di tutto il Vangelo, la realizzazione dell’uomo figlio di Dio. Allora le cicatrici non sono solo una memoria, affettuosa e devota. Sono chiamata, vocazione. Perché se Cristo le ha mantenute significa che Egli rimane in ogni essere umano che porta in sé le piaghe dell’ingiustizia e della violenza, in ognuno di quelle donne e di quegli uomini che chiamiamo “poveri Cristi”!
Allora i segni della passione e quello della missione coincidono. Sono segni che rimangono per sempre, di Lui che, nel suo spendersi per amore, ha scacciato i demoni, preso in mano i serpenti, accostato e guarito i portatori di ogni sorta di piaghe. La missione è chiamata a manifestare Dio dai piedi gonfi di cammino e dalle mani sporche per l’identificazione compiuta di se stesso sulla croce con ogni derelizione della storia. È anche questo il senso del rimanere delle cicatrici sul corpo del Risorto. E l‘invito rivolto a Tommaso “Metti qui il tuo dito … stendi la tua mano …” è rivolto ogni giorno a noi perché ci sporchiamo le mani con i tanti corpi feriti, malati, deboli di oggi. Chi tocca questi corpi, tocca Gesù stesso. Perché dove c’è Amore, lì c’è Dio.
Celebrare la glorificazione del Signore è chiamata ad operare “nel suo nome”, in modo che Egli stesso possa accompagnare e confermare quello che i discepoli operano per seguirlo, “lo avete fatto a me”.
Ascensione del Signore, nostalgia di lontananza, tenerezza di presenza.