SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO – Anno B
(Es 24,3-8; Sal.115; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.22-26)
“Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”
(Gv.10,1)
Il dono è di tutto il divino che gli appartiene da sempre nell’offerta di tutta la dimensione umana, dimessa, debole, impastata di argilla. Nel suo corpo Gesù dona tutto quello che unisce una persona all’altra: la parola, lo sguardo, il gesto di cordialità e quello di tenerezza. E dona la sua storia: la mangiatoia, la vita a Nazaret, la strada, l’incontro con la gente, la sofferenza del rifiuto, la croce, Maria, il Padre. E dona il sangue, tutto, per dire l’amore fino alla fine.
Quando diciamo: “faccio la comunione” intendiamo questa profondità di dono che entra in noi. È l’azione di Dio Padre nella realtà del Figlio, che, facendosi alimento, ci comunica il suo Spirito perché impariamo a vivere come Lui.
È quello che fin dall’Antico Testamento viene denominato “alleanza”, patto di amicizia reciproca fra Dio e il popolo, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo (Es.24,3-8)
Quel patto era contrassegnato da simboli. Ora quei simboli non servono più.
Alla loro precarietà si è sostituita la stabilità di Dio con l’uomo. Gesù stesso è e resta il dono sempre disponibile, perché non di simboli abbiamo bisogno, ma di Lui.
Per la stabilità di questa presenza, tutta la nostra fedeltà all’alleanza consiste nell’accoglienza del dono, con riconoscenza e freschezza di cuore:
“Ed ogni volta che mi dici una parola, mi rettifichi un sentimento, vai componendo in realtà con note diverse un unico canto, che il mio cuore sa a memoria e mi ripete una parola sola: eterno amore!…
Lì è la vita, lì è l’attesa; lì il nostro piccolo cuore riposa per riprendere senza posa il suo cammino”.
(Chiara Lubich, “’Inconcepibile” (scr.1,71)
Nella adorazione silenziosa e personale di questa presenza, ci è dato di comprendere più profondamente il racconto di Marco e di attualizzarlo più direttamente.
Marco dice come Gesù, nell’imminenza della passione, interpreta in maniera nuova il rito della pasqua ebraica, centrato nei gesti dello spezzare il pane e bere il calice. Gesù identifica se stesso con il pane spezzato, perché nella morte di croce si offre ai suoi. Ed essi potranno entrare in questo suo dono se spezzeranno il pane insieme, rendendo così attuale per sempre il suo gesto, come in un’equazione che è l‘identità stessa della Chiesa e dei cristiani.
“Io mi spezzo per voi perché non siate spezzati dalla durezza della vita. E voi, accogliendomi, spezzatevi gli uni per gli altri, perché il mio gesto rimanga vivo tra gli uomini”.
Il dono del sangue sarà l’immagine dell’amore che si offre senza riserve. “Bevendolo, entrerete nell’eternità”.
“Tutti”. È il significato più esatto di quel “molti”, che in lingua ebraica significa totalità, mentre nella nostra lingua corrente è riduttivo, perché indica una parte, per quanto abbondante possa essere.
L’Eucaristia ha una relazione stretta con le donne e gli uomini di tutti i paesi e culture e tende a farne un’unica comunità. Quando, ogni domenica, la comunità cristiana compie il gesto dell’Eucaristia, sperimenta la presenza viva del Signore Risorto, ricorda di essere nata dalla croce della sua offerta come da una radice; accogliendolo nella comunione entra in quell’amore e riscopre in continuazione il senso della vita è “l’ex-stasi”, l’uscita da sé nel dono all’altro.
L’Eucaristia ci aiuta, in questo tempo che sempre più spesso è definito di “emergenza educativa”, come diceva Paolo VI “a raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici ed i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza” (E. N. 18-19)
E ci dona la forza necessaria per seguire Benedetto XVI che dice:
“anche i più grandi valori del passato non possono essere semplicemente ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati, attraverso una, spesso sofferta, scelta personale”.
La vigilia della sua passione, lo abbiano rivissuto giovedì santo, Gesù non ha lasciato un semplice simbolo di se stesso, solo una memoria da trasmettere alla gratitudine affettuosa dei suoi discepoli. Ha lasciato la sua Persona, nell’atteggiamento di chi si offre nel dono radicale di sé. Perciò il segno del pane e del vino non è posto per rimandare ad un passato lontano nel tempo, da ricordare con nostalgia, ma radicalmente assente. Il segno dell’Eucarestia è l’indicazione di una presenza vera che si rinnova nella memoria e opera la contemporaneità con il discepolo di ogni tempo e rende possibile la condivisione della vita e del destino del Signore.
Non è la Chiesa ad operare la trasformazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Gesù, ma è lo Spirito che attua la volontà di Lui. La Chiesa può solo accogliere il dono e custodirlo nell’adorazione e nella riconoscenza. Perciò, nella preghiera eucaristica, il sacerdote prega: “Manda il tuo Spirito a santificare i doni che ti offriamo, perché diventino il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore che ci ha comandato di celebrare questi misteri”.
Ogni anno del suo ciclo triennale, la liturgia presenta questo mistero altissimo e pur accessibile all’esperienza di quanti lo accolgono e lo vivono, sotto una angolazione particolare che si coglie nelle pagine della Scrittura. Quest’anno la sottolineatura è sul sacrificio. Il linguaggio di Marco è scarno ma significativo: il “Sangue versato” è la concretizzazione del dono che Gesù fa di sé al Padre, che perciò è il sacrificio, il fare la cosa sacra. Gesù, con il gesto dell’Eucarestia inaugura un rapporto completamente nuovo dell’uomo con Dio, non poggiato più sull’offerta di cose e sui riti, ma su se stessi, sulla propria persona. Così va intesa la parola chiave della fede, annunciata nell’Antico Testamento e ora attuata: “Eccomi!”. Di questo gesto Gesù fa dono ai suoi nel segno del pane e del vino. Dice: “Fate questo in memoria di me”, come un nutrimento, perché imparino che nutrirsi di Cristo significa offrirsi a Dio insieme a Lui, con Lui. E Lui desidera che i discepoli ripetano l’Eucarestia come alimento quotidiano per prepararli ed abituarli ad essere Lui che si dona al mondo. Ricordare, nella Bibbia, significa vivere insieme.
Anche dopo la celebrazione Cristo resta presente nella verità della sua Persona e la Chiesa propone ai credenti un rapporto continuo e profondo con Lui, nell’adorazione, nella riconoscenza, come un colloquio che si prolunga nella intimità silenziosa in cui nasce e fiorisce la preghiera del cuore, l’affidamento, la sintonia sempre più piena con la Parola che egli è e dice con la premura personale che rende urgente la gratitudine: “Lì è la vita, lì è l’attesa, lì il nostro piccolo cuore riposa, per riprendere senza tregua il suo cammino” (Chiara Lubich).
Questa presenza rende possibile un legame forte e coinvolgente con il Signore, anche quando ci si trovi a vivere in situazioni che non permettono la celebrazione dell’Eucarestia ogni domenica per la scarsità dei sacerdoti, come ho sperimentato in Brasile (quanto dovrebbe vibrare il cuore dei giovani al pensiero della possibile chiamata a servire i fratelli nel compito di spezzare il pane della vita, il Corpo di chi ha detto: “Fate questo i memoria di me”!). Questa presenza dona luce e forza alla speranza di quanti sono coinvolti personalmente e socialmente in condizioni che oggettivamente non corrispondono alla verità del Vangelo e soggettivamente non possono essere modificate, come possono essere alcune collaborazioni professionali, alcune scelte politiche, alcune relazioni affettive che non possono essere ritenute segno dell’amore fedele di Dio. L’Amore ci ama anche in situazioni incompatibili con l’etica perché è più grande delle nostre debolezze.
La cena di Gesù venne celebrata nel primo giorno della ricorrenza pasquale, quando gli ebrei ricordavano la liberazione immolando l’agnello. Marco, nel racconto, non nomina l’agnello, perché Gesù era l’agnello. “Corpo” sta per persona, “sangue” sta per vita. Come a dire che d’ora in avanti, nella relazione con Dio non bisogna cercare fuori di sé,nelle cose, la materia del fare la cosa sacra. Donando se stesso nel segno del pane, Gesù entra nella vita dell’uomo come sostegno, compagno di viaggio, aiuto nel cammino spirituale e fisico, forza perché l’imitazione di Lui e la condivisione della sua obbedienza a quanto Dio gli chiede diventi possibile al discepolo come lo è stato per Lui, il Maestro. E questo non in momenti di straordinario eroismo, ma come pane quotidiano, nelle vicende della vita ordinaria che resta povera e fragile, ma resa santa da Lui.
Vita donata è la vita offerta a Dio nella fedeltà al Vangelo e nella obbedienza alla sua volontà. È vita capace di accogliere, di superare le barriere e le diffidenze, di gettare ponti per la realizzazione di un’umanità unita nella pace.
Questo è il frutto del “cibo che dura per la vita eterna” (Gv.6,27).