II DOMENICA T.O. – Anno B
(1Sam 3,3-10.19; Sal.39; 1Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42)
Domenica scorsa, nella scena del Battesimo di Gesù, abbiamo contemplato l’unità interiore tra quanto veniva detto dal cielo e quanto accadeva sulla terra, fra lo Spirito che scendeva dal cielo, mentre il Padre proclamava l’identità di Gesù, e il Figlio che, uomo tra gli uomini, si lasciava battezzare nelle acque del Giordano. Nella misura in cui viviamo il nostro Battesimo ponendoci alla sequela del Signore, anche noi realizzeremo quell’unità, attuando nella vita quanto chiediamo nella preghiera: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra”. La liturgia di oggi ci indica appunto come camminare nella fede e raggiungere l’unità interiore tra quello che scende dal cielo e quanto operiamo sulla terra.
Innanzitutto ci viene indicata l’importanza del clima di preghiera. Nella prima lettura abbiamo visto Samuele chiamato dal Signore mentre viveva nel Tempio. Anche l’ambiente di Giovanni Battista, dove si trovano i discepoli, è un ambiente di preghiera. Solo nella preghiera è possibile attuare un rapporto con Dio, un rapporto di intimità, di relazione, che non si improvvisa, ma che è come un fidanzamento, una reciprocità in cui ci si introduce, in cui ci si deve lasciare introdurre, progressivamente. Se questo rapporto non è relazione profonda ci troviamo ad un livello di non conoscenza. Dopo tanti anni di vita nel Tempio, Samuele poteva dire di non avere ancora conosciuto il Signore: perciò non ne riconosce la voce. Anche i due discepoli che iniziano a seguire Gesù, dapprima sono motivati solo da una simpatia esterna, che si ferma alla semplice curiosità, alla domanda: “Dove abiti?”.
Ma perché ci si possa introdurre ad un rapporto di vera intimità con il Signore, è indispensabile che il maestro abbia la libertà interiore di non trattenere il proprio discepolo. Così come Eli consiglia a Samuele: “Fa quello che il Signore ti dice”, come il Battista si commiata dai discepoli, perché siano liberi di seguire Gesù. Colui che educa non deve presumere di avere diritti sui propri seguaci.
Per avere un incontro con Dio sono perciò necessari la preghiera, l’accompagnamento fraterno, la libertà da ogni tipo di possesso.
Anche oggi, come al tempo in cui visse Samuele, la Parola del Signore si fa sentire raramente. Come allora sono frequenti gli episodi di corruzione. Allora si portava l’Arca del Signore in battaglia, così come oggi si soggiace alla tentazione blasfema di legare il nome di Dio a guerre di potere. Ma ora, come allora, Dio non toglie la sua presenza, squarcia il cielo nelle giornate degli uomini e chiede loro: “Che cercate?”. È una provocazione perché prendiamo coscienza del fatto che ci manca qualcuno. L’uomo che cerca sa che l’iniziativa è di Dio. A chi presume della sua educazione e si cala tutto nelle opere, il Signore si fa presente per dire con dolcezza: “A me non interessano sacrifici e rinunce, ma il cuore”. Perciò per rispondere alla domanda: “Che cercate?”, bisogna partire dal cuore. Agostino così si rivolge al Signore: “Ti ho cercato in tutte le cose che sono fuori di me, ma ti ho trovato solo nell’interiorità del mio cuore”. Se accogliamo questa voce, ogni cosa prende il suo posto, la vita si riordina, si realizza l’unità fra il cielo e la terra.
Pensiamo a Francesco, giovane ricco, mercante pieno di esperienza, di cultura, di prestigio. Quando incontra il Signore nel fratello lebbroso e in lui riconosce Gesù, lascia ogni ricchezza, ogni prestigio per divenire un fratello minore, il più piccolo di tutti. Così Francesco, fratello nostro.
I due discepoli erano seguaci di Giovanni, potevano avvertirne il prestigio. Ma quando vedono Gesù e riconoscono in lui l’Agnello preannunciato da Isaia, colui che avrebbe donato la sua vita per amore, capiscono che la loro relazione con il Signore era solo un fatto di comportamenti esteriori. Andarono dietro a Gesù, videro dove abitava “e si fermarono presso di lui”. Senza rimanere, senza dimorare con lui, con la fretta, non si segue il Signore. Francesco non dimenticherà mai il lebbroso, i discepoli non dimenticheranno mai l’ora dell’incontro con il Signore: “Erano circa le quattro del pomeriggio”, ci dice l’Evangelista.
Impariamo la preziosità del fermarsi, del rimanere, del respirare le parole del Vangelo. Diamo spazio alla voce del Signore che ci dice che in ciascuno di noi c’è possibilità di futuro. Simone è conosciuto da Gesù ed è eletto da lui, come pietra, come punto di riferimento per i fratelli. Se preghiamo, conosciamo il Signore e siamo da lui conosciuti. Scegliamolo e seguiamolo. L’incontro con Gesù ci permette di non essere più chiusi e ripiegati sulle nostre sole vicende personali. La consuetudine con lui ci rende capaci di portargli subito altri, di non guardare a noi stessi ma di saper dire ai fratelli: “Abbiamo trovato il Messia”. Nessuna sua parola va a vuoto, se capiamo che il bene che entra nella nostra vita deve essere bene anche per gli altri, ma, allo stesso tempo, che non può esserci bene comune senza l’incontro con Gesù.
Moltiplichiamo, perciò, i gesti di solidarietà, guardiamo con attenzione la società. Ogni domenica l’Eucarestia è un impegno grave: non c’è al mondo altra forza al di là di Gesù, che mette insieme le nostre privatezze, che unisce le diversità, che ci rende capaci di divenire sostegno gli uni per gli altri. L’Eucarestia è il luogo in cui capiamo di non poter dire che amiamo il Signore che non vediamo o i poveri che sono lontani, se non amiamo chi ci è vicino e il Signore ci dice che è nostro fratello. Possiamo incontrare meglio Dio, proprio perché c’è il mio vicino. Che ogni comunità diventi attraente per chi si sente anonimo, per chi non entra perché ha paura di dire il suo nome, per chi si sente a disagio perché lì dentro tutto è sempre in regola. Divenire capaci di fare realmente Eucarestia, di far respirare a tutti il nome di Dio.
Domandiamo la grazia di saperci fermare presso Gesù per crescere, per vivere la sua parola, per riuscire a leggerla sul volto sofferente dei fratelli.
I passi del cammino liturgico del tempo dopo Natale sembrano indugiare sulla certezza della venuta e dell’identità del Signore: dalla solennità del prologo di Giovanni, alla voce dal cielo che conferma il gesto di solidarietà con l’uomo peccatore. Oggi vediamo come dalla sua persona emani un fascino forte che spinge i primi discepoli a seguirlo da vicino. È l’incontro tra l’iniziativa di Dio e la libera adesione dell’uomo.
All’inizio di questa avventura di sintonia e di discepolato c’è il primo passo di Gesù, che si volge, parla, invita, vivendo quello che dirà poi Giovanni;
“non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv.15,16)
La fede è dono dell’amore personale di Dio.
Le prime parole di Gesù nel IV Vangelo, a chi lo guarda con un misto di curiosità e di puro desiderio e sente di seguirlo, sono: “che cercate?”. Non è una domanda banale, come per togliersi una curiosità, ed è tipica di Giovanni. Anche Pilato, durante il processo, domanderà a Gesù: “Che cosa è la verità?”. La domanda riguarda il bisogno fondamentale dell’uomo, che è spinto a volgersi a Dio per chiedergli: “Dove sei?… Dove abiti?”, come per sfuggire alla precarietà, al mutamento, all’effimero, come per raggiungere una certezza di stabilità. Quando nel pieno della vita pubblica, Gesù incontra la folla, si farà interprete delle esigenze dell’uomo: “Egli infatti sapeva quello che c’è in ogni uomo”, commenterà Giovanni (Gv.2,25). Gesù è sguardo di conoscenza profonda.
Andare dietro a Lui è l’inizio di una relazione forte. Ed è bello seguire il gioco dei verbi:
- “Sentendolo parlare così, seguirono Gesù” occorre l’apertura del cuore…
- “Che cercate?” è la provocazione che purifica il cuore, passando dal “cosa” al “chi”
- “Dove abiti?”, non un incontro fugace, ma una casa dove entrare e sostare
- “Venite e vedrete”, la formazione del discepolo inizia quando si va da Gesù
- “Si fermarono”, per restare con lui, che è fondamentale per credere.
È un gioco di verbi sostanziale, non letterario.
Tutto è all’insegna di una grande fiducia reciproca. Gesù si fida e invita, i due discepoli del Battista si fidano e vanno: non sanno dove andrà, ma si lasciano condurre. Si respira un’atmosfera di libertà e cordialità, di relazione umana ariosa e serena.
La puntualizzazione dell’ora fa pensare ad un ricordo grato, ad un momento che si rivelerà fondamentale, perché creativo. Io ricordo l’ora della chiamata al sacerdozio; gli sposi, anche se hanno 40, 50 anni di matrimonio, ricordano l’ora in cui si sono incontrati e si sono innamorati l’uno dell’altra. Difatti il cambiamento del nome di Simone, è un atto di fiducia che segue lo sguardo profondo di amore, di predilezione, non è piccola cosa: è quasi un cambiare personalità, esistenza. Solo una grande autorevolezza può farlo, solo una fiducia sconfinata può lasciarselo fare. La sorella di un Sacerdote, morto recentemente, mi ha raccontato che il fratello, negli ultimi minuti, aveva chiesto l’immagine di Cristo e, baciandolo, diceva: “Gesù, mi fido … mi affido a te…” Sono le parole ultime di una fede consumata, simili a quelle di Gesù: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito!”, il mio presente, il mio futuro, la luce, l’oscurità. È la scoperta che l’incontro con il Signore svela l’uomo a se stesso, nella più profonda intimità e verità.
È un andare alla fonte di quello che si è e si desidera nel profondo.
Chiediamo che siano stampati nella mente e nel cuore questi verbi:
- Non c’è relazione senza ascolto, e non c’è fede: così scrive Paolo ai Romani (Rom.10,12). Siamo troppo legati ad una religiosità del parlare e non dell’ascoltare. Non abbiamo né tutta la verità, né tutte le risposte. Dio è anche nel fratello. C’è qualcosa di noi che l’altro può dirci e che noi non intravediamo, come Samuele con Eli. Abbiamo bisogno di andare oltre e ascoltare il diverso: siamo pellegrini nella perenne necessità di apprendere la strada. Da dove viene la vita? A volte, con angoscia, non ce la ritroviamo dentro, non ci dà riscontro. Se non entro con coraggio nella decisione di ascoltare, non mi lascio ridare la vita, non trovo la vita! La fede è uscire dalla spiritualità individualistica per entrare nella spiritualità della fraternità.
- È la conseguenza del desiderio di ascoltare. Cercare qualcuno che parli, non qualcosa che riempie, la parola e non il “messaggino”, che è la parodia della relazione. Il testo è provocatorio con la domanda del Signore, che è un giudizio sulla civiltà della fretta: “che cercate?”. Forse è anche troppo facile dirci che dal “che” delle cose non viene risposta, ed è sempre più evidente che dal “chi” di qualcuno può venire la parola e la luce. Dobbiamo imparare a cercare.
- È un verbo di moto. Che cosa è venire? Forse è darsi qualche momento di silenzio e di preghiera, forse è credere che qualcuno ci sta aspettando con amore: forse è un accantonare il consueto, forse una giornata di interruzione, forse un interrogarsi sincero; forse il coraggio di un colloquio, un interrogarsi su di sé…
- Se vogliamo essere seri nella fede è guardare attentamente la persona di Gesù, non quello che dicono i giornali delle opinioni e del Vaticano. Guardare nella direzione di colui che il Battista indica come l’agnello. È vedere il Crocifisso, fissare le sue piaghe come Tommaso (Gv.20), capire l’amore che lo abita, personale e fedele fino a quella misura.
- Presso di Lui. Dirà Teresa d’Avila: “un’intima relazione di amicizia”. È la casa dell’interiorità in cui la relazione si fa fonte di relazioni: moltiplicate nell’umanità riconciliata, nella realtà della Chiesa.
Domandiamo il dono di seguire il Signore dove abita e di rimanere con Lui.
La liturgia di oggi ci indica la strada per diventare discepoli del Signore. In questo momento di riflessione sulla pagina di s. Giovanni evangelista, soffermiamoci sul gioco dei verbi.
“Fissando lo sguardo su Gesù che passava”
Nell’atteggiamento di Giovanni Battista si coglie la fisionomia interiore del discepolo, l’essere intento a “fissare lo sguardo” – che è molto di più del semplice guardare – il vocabolario permetterebbe di dire: “concentrandosi su Gesù”. È una decisione per la persona di Gesù, che perciò è il senso della sua vita e del suo compito. È Gesù che deve attrarre ed essere seguito. Perciò Giovanni Battista lascia che i due discepoli seguano Gesù – in grandissima libertà interiore. Giovanni indica agli amici che vivevano con lui la fine del tempo dello stare in attesa, perché è iniziato quello del seguire a fatti colui “che passava” per le strade della Palestina, identificato con l’Agnello, Servo che va a donare la propria vita per l’umanità.
Essere discepoli è dunque sinonimo dell’andare dietro a Gesù.
Madre Teresa di Calcutta ad una consorella inquieta che cercava la propria strada diceva che il discepolo è chi segue Gesù.
“Che cercate?” Il dialogo fa capire che, pur nella venerazione del “Maestro” e nella concreta decisione di seguirlo fino a casa per conoscerlo meglio, i due avevano dentro come una zona d’ombra, che tuttavia accantonano accogliendo concretamente l’invito a proseguire il cammino per fiducia in chi avevano fissato.
“L’atto di seguire compiuto dai due discepoli è il primo passo verso la fede in Gesù, il fatto di “restare” è la conseguenza luminosa di “andarono … videro …si fermarono” non solo in quel giorno, ma in costante comunione con lui” (Schnackenburg)
Così il “vedere” non è verbo che si possa restringere ad entrare per curiosare in una piccola casa palestinese, ma sta per “vedere dentro” la realtà profonda di Gesù, del suo mistero. Il discepolo deve perciò imparare a vedere con la capacità di entrare nella realtà della presenza di Dio nella povertà dei segni umani, dolorosamente inadeguati alla grandezza del divino e tuttavia capaci di farla sperimentare come presente. Così è per la Chiesa la cui povertà è spesso motivo di delusione e sofferenza per i discepoli. Da questo “vedere” di persona che la “dimora” è il luogo della presenza di Dio, come la tenda nel lungo viaggio nel deserto, da questo “vedere insieme” tra persone che si comunicano in fraternità il desiderio e l’esperienza di Dio, da qui proviene la libertà e la certezza di poter testimoniare. La comunione diventa missione, è diventare come Giovanni Battista strumento dell’incontro dell’umanità con Gesù, che è quello che vale. È proprio quello che accade ad Andrea, che non tiene per sé la scoperta di Gesù, ma la confida al fratello e lo conduce all’incontro con lui. Sarà l’inizio di un’altra avventura, di un altro rapporto di amore, da cui nascerà la Chiesa, come casa della Parola e dell’unità.
Lo sguardo di Gesù “che passa” infonde fiducia: “a tutti quelli che incominciano a seguire Cristo, egli da fiducia”, scrive Tommaso d’Aquino. La fede non è conquista della nostra ricerca, ma espressione della fiducia di Dio. Il Gesù del vangelo di Giovanni ha dinnanzi agli occhi la Chiesa nei secoli, e sembra dire che per tutti incontrarlo significa avere una vita segnata per sempre.
Non strappa il consenso, Gesù, dicendo di essere il figlio di Dio. Avrebbe potuto farlo, ma il suo stile è l’abbassamento, il suo sogno è il rapporto personale di amicizia, il sostare sulla soglia della lentezza umana, di cui non si stanca, a cui da fiducia, accordando il suo passo con quelli dell’uomo, senza fretta. Impariamo molto dalla pazienza di Gesù.
Occorre porsi in atteggiamento di disponibilità di cuore e lasciarci permeare da questa comunione. È quello che ci ricorda la bella espressione della prima lettura:
“Samuele crebbe e il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle parole di Dio”.
È il tempo ordinario del cammino liturgico, tempo di riflessione e di attuazione, tempo di non lasciare andare a vuoto il dono della fede.
Oggi inizia la settimana di preghiera per l’”unità dei cristiani”.
La morte di Olivier Clément, il 15 gennaio a Parigi, la ha preceduta. Teologo e scrittore, appassionato del sogno di Gesù, dell’unità di tutti gli uomini nella dimora dell’amore di Dio, da non credente e militante marxista, aveva incontrato il vangelo nell’approccio con i pensatori cristiani russi che avevano dovuto lasciare la patria per la persecuzione di Lenin ed erano ospiti della Francia. Perciò nella ricchissima tradizione ortodossa che l’aveva abbagliato, innamoratissimo dell’unità dei cristiani, fu autore dei testi della via crucis 1998 per Giovanni Paolo II.
Leggo poche righe di un suo scritto:
“L’immagine della redenzione, in Occidente, è il Golgota.
In Oriente è la discesa di Cristo agli inferi. Cristo spezza le porte di questo stato di esistenza – o piuttosto di inesistenza… – dove regnano la separazione e l’angoscia, calpesta il “separatore” e tende la mano al primo Adamo, o piuttosto lo afferra per il braccio e lo fa balzare fuori dalla tomba…
In Cristo, Dio offre per sempre a tutti gli uomini la luce dell’amore, questa interiorità reciproca che è il regno dello Spirito e che trionfa sull’esteriorità infernale.
E tutta la tensione escatologica della Chiesa si manifesta nella preghiera e nell’amore attivo per la salvezza universale, potenzialmente realizzata in Cristo”
(Da “Il mistero pasquale” Lipa 2003, pp.62-63)
Sappiamo così un po’ meglio chi è il discepolo di Gesù.
“La parola di Dio era rara in quei giorni” (1Sam.3,1)
Così inizia il capitolo del primo libro di Samuele, storia di Israele antico, nell’XI secolo a.C, prima della presa di Gerusalemme e della costruzione del Tempio, ma anche condizione di ogni tempo dell’umanità. Tuttavia – aggiunge il testo – “la lampada di Dio non era ancora spenta” (v.3) nel tempio, dove era custodita la memoria sacra dell’alleanza, la lampada che diceva la presenza fedele del Signore. Era un tempo di grande mediocrità: 300 anni dopo l’epopea dell’Esodo la memoria di fede appariva sbiadita. Persino la famiglia del sacerdote Eli era coinvolta, e si capisce come questo contesto venga indicato come causa del silenzio della Parola. Si tratta non di abbandono del popolo da parte di Dio, ma della sordità umana alla voce dello Spirito, a cui l’iniziativa di Dio pone rimedio con la vocazione di un ragazzo al compito profetico. La prontezza del suo “eccomi”, ripetuto per tre volte, dice che nell’uomo, anche distratto e lontano dallo Spirito, resta la possibilità della comunione con Dio nell’ascolto e nella docilità: “Samuele crebbe e il Signore fu con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole”.
Il testo continua con il primo versetto del capitolo 4: “La parola del Signore giunse a tutto Israele”. È un annuncio di fiducia. Viene detto dal testo biblico che Dio, per l’amore fedele nel dono del profetismo ha sempre e ancora fiducia nell’uomo che, nella fede, può sperimentare la possibilità di superare ogni crisi di pensiero e di comportamento perché sostenuto dalla forza rinnovatrice e misericordiosa che il credere a Dio gli dona.
Questa premessa aiuta a comprendere la pagina del vangelo di Giovanni che racconta l’inizio del ministero pubblico di Gesù con la scelta dei primi discepoli e sembra voler rispondere all’interrogativo sempre attuale: “Come si diventa discepolo?”. Una domanda che riguarda chiunque avverta il desiderio di essere seguace di Gesù, in ogni epoca, perciò anche oggi.
I verbi sono importanti e collegati. Al cercare è collegato il trovare; al seguire è collegato il rimanere. Verbi che dicono il desiderio che si concretizza nel cercare sincero, disponibile a lasciare certezze e situazioni precedenti, senza misurare il tempo con il contagocce e con la convenienza.
Gesù “passava”, senza particolari segni che lo identificassero; il verbo è all’imperfetto come per dire che Gesù non ha altro da fare che passare accanto alla vita dell’uomo, che non esiste un uomo che non gli stia a cuore. Il suo sguardo è di per se stesso una chiamata, che provoca l’atteggiamento concreto del seguire, senza spiegazioni, camminando con Lui ancora sconosciuto, ma con la fiducia nata dalla potenza rivelatrice dello sguardo, che costringe ad offrirgli la propria libertà.
“Andarono e videro”. Non c’è discepolato senza fede e rischio personale. La scelta di seguire Gesù deve essere vissuta in prima persona. Solo allora si può sperimentare come gioia e libertà di tutta la persona il “rimanere”, il verbo caro a Giovanni,che ama usarlo per descrivere la vita del discepolo (v. Gv.15). “Rimasero con lui”. Significa che i due sostarono dove Gesù abitava. Ma si percepisce un’intenzione più profonda nell’evangelista, un’intenzione che si sarebbe avvertita nel tempo, quando il rimanere con il Signore non fu più questione di un giorno, ma di tutta la vita, e non solo in vista di una collaborazione esteriore, ma per la comunione senza riserve con chi ha la sua dimora nel Padre suo e in loro.
Perciò è detto: “Erano circa le quattro del pomeriggio”. Molto più di una nota cronologica. È il tempo dell’anima, quello segnato nel profondo di ciascuno, che rimane per sempre. Quel momento non è come gli altri, perché segna un evento, per i due l’evento dell’incontro con Gesù.
Anche il “vedrete” sembra indicare qualcosa di più. Non si tratta di vedere la casa, ma di comprendere la persona di Lui, nel rapporto di comunione, che sarà la radice, il fondamento della testimonianza dell’esperienza fatta, in modo che altri nel tempo possano divenire discepoli e dimorare in Lui. La conseguenza è entrare nella missione del Signore. Andrea chiama il fratello Simone e lo conduce a Gesù che lo chiama Pietro e lo cambia in roccia su cui l’umanità trovi la possibilità reale dell’incontro con Dio. È Gesù infatti che conduce il gioco d’amore che porta la vita di Dio sulla terra e nei cuori degli uomini.
È l’invito per i credenti a non perdere di vista la grande esigenza della comunicazione della fede, che è tanto presente a ciascuno di noi e alla Chiesa intera in questo tempo di scetticismo e di sfiducia. Condurre le persone al Signore Gesù, ad abitare là dove Egli abita.
È quello che sta a cuore a Lui più di ogni altra cosa, come testimonia il vangelo di Giovanni svelando la sua grande intenzione:
“Che tutti siano una cosa sola come tu, Padre sei in me ed io in te”
(Gv.17,21)