VII DOMENICA T.O. – Anno B
(Is 43,18-19.21-22.24-25; Sal.40; 2Cor 1,18-22; Mc 2,1-12)
Quasi sempre, nelle domeniche precedenti, abbiamo letto il primo capitolo del Vangelo di Marco: dal Battesimo nelle acque del Giordano alla chiamata dei primi discepoli, alla guarigione dell’indemoniato, della suocera di Pietro, del lebbroso. Marco, dopo aver presentato Gesù nel Battesimo, con l’apertura dei cieli e la solenne proclamazione del Padre, presenta il Figlio dell’uomo, così egli preferisce chiamare Gesù, che manifesta la presenza di Dio nel mondo attraverso prodigi. Oggi e domenica prossima leggeremo il capitolo 2 – poi entreremo nel tempo di Quaresima. Anche questa volta si parla di un miracolo, ma l’attenzione dell’evangelista non è sul miracolo. Cerchiamo di cogliere il senso del suo messaggio.
Gesù è di nuovo a Cafarnao: è attorniato da tante persone che sembra non esserci più posto. Lo sguardo di Marco va al bisogno di liberazione dal male di tutta l’umanità. Esigenza di liberazione, sofferenza di tutti, grido di dolore che si leva verso Dio – come dice Paolo nella lettera ai Romani – aspirazione dell’uomo ad una situazione di libertà. È un’esigenza, un’ansia, che non riguarda solo i malati, ma ciascuno di noi. Gesù, uomo tra gli uomini, fa suo questo bisogno intimo e universale, accoglie questa esigenza di liberazione dal male. L’immagine del paralitico, inerte sul lettuccio, privo di qualsiasi autonomia, impossibilitato ad avere una pienezza di vita, è quella dell’uomo minato dal peccato, che non riesce ad avere una relazione vera con i suoi simili.
Nell’epoca in cui Marco scriveva, c’era la convinzione che la malattia fosse il castigo per il peccato commesso. Anche se oggi nessuno lo pensa più, l’immagine può essere utile: Gesù ha il potere di liberare l’uomo dal male. Fin dai tempi antichi, con l’Alleanza Dio si era impegnato con il suo popolo ad essergli vicino, a salvarlo e perciò, per fedeltà alla sua stessa parola, non può tener conto dei peccati. Nella prima lettura Isaia ci ha fatto ascoltare il Signore che diceva: “Io, io cancello tutti i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati”. Isaia, conosce il dolore, la partecipazione di Dio per l’umanità sofferente. Nel momento della sua vocazione ha visto Dio in una visione. Pur non conoscendo la Trinità, ne ha avuto quasi un’intuizione. Alla voce del Signore che di fronte alla malvagità del suo popolo, si diceva: “Chi manderò e chi andrà per noi?”, ha risposto. “Eccomi, manda me!”. Gesù è il compimento della promessa e realizza il progetto di amore che è nel cuore stesso della Trinità
La premura del Signore si manifesta nel Figlio, fatto uomo tra gli uomini. A noi è data la grazia di accogliere e poter far nostre le parole di Gesù: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”. Proprio qui è il nocciolo di tutto il Vangelo: Gesù – il cui nome vuol dire appunto “Dio salva” – viene per dire all’umanità che Dio si rende presente nel mondo perché l’uomo possa ricominciare il suo cammino insieme con lui. Lungo tutta la storia, oggi, come ieri, al di là dei suoi gravissimi errori, l’uomo è perdonato e ricondotto alla possibilità di avere rapporti nuovi con Dio e con gli altri. Può chiamare Dio “Padre nostro”, Padre di tutti gli uomini. Anche se ha ucciso i fratelli, può di nuovo amarli, perché è perdonato.
Il perdono non è “buonismo”, non è un atto esteriore che tutto livella. Il perdono è l’inizio di una nuova creazione. I verbi che Marco usa in questo passo dicono quanto sia differente la situazione dell’uomo prima e dopo il perdono di Dio. Il paralitico non era in grado di camminare, era portato da quattro persone, giaceva sul suo lettuccio. Dopo le parole liberatrici di Dio tutto è nuovo, è diverso. Lui che giaceva si alzò, lui che doveva essere portato prese il suo lettuccio e se ne andò. È la realtà nuova della resurrezione: alzarsi, divenire autonomi, prendere la propria strada, assumere responsabilità, portare pesi. Tutti sono presi da stupore per questo miracolo e, come dice il Vangelo, si meravigliano e lodano Dio: “Non abbiamo mai visto nulla di simile!”.
In quest’analisi del testo non va dimenticata l’importanza degli amici, che suppliscono alla carenza del paralitico, che ha bisogno della liberazione del corpo e dello spirito. Sono loro, con la loro fede, che lo portano da Gesù. Loro che, non potendo superare la folla, scoperchiano il tetto e calano il lettuccio.
Facciamo ora due riflessioni. La prima riguarda la nostra interiorità personale. Il Vangelo ci invita a meditare sulle ambiguità che ritardano il nostro cammino di credenti. Non si tratta di colpe gravi, ma di oscurità, che, in qualche misura, ci paralizzano. Nel libro della Genesi si dice che all’inizio della creazione il Signore passeggiava nel giardino “alla brezza del giorno”, ma l’ambiguità che si è insinuata nel cuore dell’uomo, non permette a Dio di parlare, ai fratelli di ritrovarsi nella gratuità della relazione. Ognuno di noi è immerso in questa situazione oscura, che vela la luce di Dio sul nostro volto, ci impedisce di ricevere e trasmettere la sua luce. Ma non dobbiamo scoraggiarci. Agostino, nel capitolo X delle Confessioni, denuncia il fatto che assai spesso si mangia per piacere, non per mantenersi in salute. Paolo, a sua volta, sottolinea la contraddizione che è nell’uomo e lo spinge a fare il male, pur volendo interiormente il bene. Il peccato che è nel nostro cuore ci fa concentrare su noi stessi nel narcisismo, che spesso assume l’aspetto del perfezionismo, anche religioso. È mancanza di amore, una penombra che non permette la maturazione piena della persona, paralizza nel rapporto con gli altri. Dobbiamo cominciare aprendoci al perdono di Dio, che risveglia in noi la sua immagine offuscata, ci dà la possibilità di cose buone. Come il paralitico che si alza, prende il suo lettuccio e cammina.
La seconda riflessione è rivolta verso l’esterno. Il paralitico è portato da quattro persone di cui non viene detto il nome. Dio concede il perdono per la fede di quanti credono nel perdono. Gesù guarda e risponde, perdona all’uomo malato, per la fede dei suoi amici. Così è in tutta la Bibbia. Dalla preghiera di Abramo per Sodoma alle parole dell’Apocalisse, in cui Dio dice ai quattro angeli, cui era stato dato il potere di devastare la terra: “Non devastate né la terra né il mare… finché ci sarà qualche santo”. Così quando durante la seconda guerra mondiale vivevamo la tragedia dei bombardamenti, il popolo confidava nella presenza dei monaci camaldolesi, le cui preghiere avrebbero salvato Napoli dalla distruzione. I frati sono andati via, ma il principio rimane. I credenti sono chiamati a una catena di amore: portare nel cuore di Dio tutti i peccati dell’umanità. Perciò i cristiani non devono mai scoraggiarsi, ci dicono i monaci di Taizè.
Portiamo nell’Eucarestia questa gioia e questa responsabilità: anche se sulla terra dovrà ancora scorrere il sangue della guerra, fidiamoci nell’Eucarestia, nella presenza tra noi del Cristo risorto, per essere ancora costruttori di pace
“Prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua”
Il racconto del miracolo della guarigione del paralitico permette a Marco di presentare Gesù non come un guaritore potente di malattie, ma come colui che risana l’uomo intero, fin nel suo intimo più segreto, positivo o negativo che sia.
Le guarigioni fisiche, non molte, stanno ad indicare qualcosa di più profondo, il perdono, la nuova creazione come gesto di Dio, presente nell’uomo Gesù. È per questa presenza, che sconcerta la fede monoteista, che i maestri dell’ortodossia sono scandalizzati. Essi sanno che Dio solo può perdonare i peccati. Se Gesù può farlo, è Dio!
Marco ci presenta l’uomo, nella sua condizione di fragilità, di peccato, di cui la malattia fisica, nella Bibbia, è il segno: Gesù gli si rivolge direttamente, personalmente, lo chiama affettuosamente “figlio”. Poi ci invita a prendere atto di una circostanza da non sottovalutare: Dio, pur vicino, lascia all’uomo sanato il letto da portare a casa, ponendo il segno della fragilità che resta, ma è intimamente sanata, dunque ha senso. La guarigione sta perciò nel fatto che la condizione di precarietà si trasforma in condizione di salvezza, diventa positiva.
Marco insegna ad accorgersi che il dolore del corpo è occasione per incontrare uno che guarisce da quel male dentro, che tutti abbiamo, che può essere all’origine del dolore. Insegna ad accorgersi che il fine vero dell’incontro non è tanto la guarigione del male fisico, che comunque a suo tempo tornerà – così come Lazzaro che è stato resuscitato, un giorno dovrà morire – ma l’essere riportati all’unità di tutta la persona, in modo che, spirito e corpo, fusi in armonia, possono essere incontrati insieme dal Dio che salva. Questo è il miracolo, e si può sperimentare anche se la malattia permane. Recentemente ho incontrato una persona amica che vive a Roma ed ha il morbo di Parkinson: mi ha detto di aver scoperto che il corpo dolorante si può trasformare in preghiera, dopo una vita convinta di non dover dare molto spazio alla corporeità nel rapporto con Dio. “Ora so che non posso incontrare Dio – ha detto – se in me non prega il dolore del corpo”. È un capire che il corpo che incontra Dio ne riceve la grazia della vita, perché Dio è il Dio della vita: il corpo che, nella sua fragilità prega, viene reso il corpo della resurrezione, perché l’incontro con Dio introduce alla vita. Allora si comprende che i dolori che ci vengono addosso senza previsione e che ci accompagnano come impedimenti, in realtà sono il cammino attraverso cui l’uomo, in ciascuno di noi, si scioglie, si libera dai legami dell’egoismo, dalla propria pretesa di autonomia – lasciandosi aiutare con semplicità da chi gli sta vicino, come i quattro portatori della parabola – dal proprio orgoglio, dalla propria sensualità e si apre a Dio. Si comprende che, senza dolore, ci si può trovare nell’illusione di realizzarsi chiudendosi, barricandosi contro quello che appare un rischio esigente, l’amore di Dio e dei fratelli. E si capisce ancora che l’incontro con il Signore non può avvenire senza la ferita della sofferenza, che scardina le chiusure ermetiche, in cui ci barrichiamo per difesa di noi stessi. È l’esperienza conclusiva di Giobbe, che era stato uomo felice, ma poi aveva conosciuto la sofferenza: “io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb.42,5), che conferma la risposta antica data a Mosè, che chiedeva di vedere Dio: “Non si può vedere Dio senza morire” (Es.33,20). Non si può amare senza morire!
Oggi viviamo la circostanza della presenza del gruppo di fidanzati, che si preparano alla celebrazione del matrimonio nei prossimi mesi. Così ci è permesso un breve, ma importante approfondimento.
La chiesa ha faticato, per secoli, a tirarsi fuori dai condizionamenti della cultura di origine greca e romana, frequentemente pessimista sulla corporeità. Oggi la corporeità è rivalutata alla luce dell’unità della persona umana, amata da Dio Padre, redenta dalla croce di Gesù, abitata dallo Spirito Santo. Il corpo non è un semplice attributo della persona, ma ne rappresenta la totalità. Attraverso il corpo la relazione con gli altri, la comunione con la loro interiorità, con la loro diversità, diventa fonte di infinita novità, nella infinita varietà dei corpi.
La grandezza e la sofferenza del corpo appartengono al matrimonio, non solo nell’aspetto della sessualità, ma nel senso di quello cha abbiamo meditato. Si è responsabili del corpo dell’altro come del proprio, per camminare insieme verso l’incontro con il Signore, che risana nell’unità interiore della persona e in quella della coppia, per dare la possibilità di continuare ad essere, in pienezza, uomini e donne nell’eternità. Nel “sì” del matrimonio c’è una profonda analogia con il “sì” di Cristo della seconda lettura, che invita a lasciar sanare da lui le intermittenze dei nostri sì e dei nostri no. “Sì” vuol dire sì alla bellezza e alla fatica, alla spontaneità e alla stanchezza, alla prontezza e alla riluttanza, alla salute e alla malattia, in una vera corresponsabilità della persona, della sua anima e del suo corpo.
L’icona di questo cammino è Maria Assunta.
A lei guardiamo mentre ci viene ripetuto:
“Prendi il tuo lettuccio e va’ a casa tua”.
Con il racconto della guarigione del paralitico, Marco propone Gesù Cristo come colui che “ha il potere di perdonare i peccati sulla terra”.
Gesù, in questo testo, non associa paralisi e colpa personale – come avveniva e continua ad avvenire nella mentalità corrente, radicata nella teologia della retribuzione, che associa fedeltà e salute, infedeltà e malattia. Egli, invece, indica all’uomo la necessità di essere sano in tutta la propria realtà, fisica ed interiore: egli è fonte di vita per la creatura umana e si propone come via per la salute del corpo e l’armonia del cuore. Pone il gesto della guarigione fisica perché sia segno della necessità della salute nel senso più ampio e perciò lo fa precedere dalla parola di perdono. È un invito a guardare con l’occhio del “ben-essere” l’esistenza umana, le persone che amiamo, l’umanità per cui dobbiamo spenderci: il Dio, che in tanti passi della Scrittura si dice “il Vivente”, “non gode per la rovina dei viventi”, come leggiamo nel libro della Sapienza (Sap.1,13). Perciò Gesù attua quel “fasciare le piaghe dei cuori spezzati, il proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri” (Is.61,1), che Isaia aveva profetizzato e Luca gli avrebbe attribuito raccontando l’insegnamento nella sinagoga di Nazaret (Lc.4,18). La liturgia permette di condividere la lode e lo stupore della piccola folla di Cafarnao perché “sulla terra”, per i singoli e per la società, c’è il perdono di cui Gesù è la fonte e di cui la Chiesa, in tutti noi – non solo nei ministri della riconciliazione – è testimone e ministra. S. Ambrogio esprime questa gioia dicendo:
“Non mi glorierò perché sono giusto, ma perché sono stato redento;
non perché sono senza peccati, ma perché mi sono stati perdonati”.
Portiamo in questa Eucaristia la riconoscenza per il perdono che ci è stato donato.
Altro elemento centrale nel testo di Marco è la fede, non del malato, ma delle quattro persone che lo accompagnano. È una fede semplice e concreta, che non tenta di convincere, ma introduce nell’esperienza. Così supplisce al deficit di convinzione e di volontà di chi non può esprimersi pienamente e liberamente e – se si guarda alla paralisi in senso più ampio – non ha il coraggio di iniziativa neanche a favore di se stesso, della propria vita, ha paura di esporsi, paura dello sguardo e del pensiero degli altri, e si chiude. Il paralitico “abita” nel suo lettuccio. Ritorna questa rappresentazione di un’umanità ripiegata su se stessa, sconfitta dalla malattia, che non accetta di essere debole, si vergogna di sé allo sguardo degli altri, resta legata al letto della propria indisponibilità a vivere il frammento di vita di cui la provvidenza di Dio la rende capace. Ma le persone che portano l’ammalato hanno capito che in Gesù è la vita, che le sue parole sono un invito alla vita. L’esortazione di Gesù: “Alzati, prendi la tua barella e và a casa tua”, cioè “torna alla tua vita”, “abbandona il tuo rifiuto a vivere”, è attualissima. Marco ci presenta Gesù non solo come colui che compie prodigi a favore di chi soffre, liberandolo da un male particolare, ma come colui che risana l’uomo intero, nella sua unità profonda. Questa sua presentazione del Signore è affidata alla Chiesa perché la annunci con la luce della Parola e con i gesti concreti della solidarietà. Marco include i quattro amici, che trasportano il malato con volontà “testarda” e con iniziativa concreta e capace di fantasia, e sottolinea la fede, sulla quale il Signore interverrà con la sua Parola e il suo gesto. Dice dunque che l’atteggiamento di Gesù e il suo stile di agire sono consegnati alla Chiesa come regola di vita, che tutti dobbiamo avvertire la responsabilità di testimoniare nell’amore.
Terminiamo oggi questi momenti di riflessione che la liturgia delle ultime tre domeniche ci ha suggerito. È stato un periodo durissimo, in cui gli avvenimenti intorno a noi ci hanno invaso di oscurità, ci hanno portato via dal cuore la visione umile e pacificata del mistero della sofferenza umana, il rispetto per la riservatezza, introducendovi il chiasso osceno delle parole aspre che uccidono la pietà e la volgarità delle strumentalizzazioni. Avvenimenti che ci hanno ferito profondamente, non solo per la morte della nostra giovane sorella Eluana, ma per la violenza alle donne, per l’odio crescente verso gli immigrati, per l’ansia di chi perde il lavoro, per la situazione drammatica di chi non ha più il necessario per vivere, per l’inimicizia politica.
Lasciamo che il segno dei quattro fratelli di fede, che portano con le loro braccia una persona inerte e sfiduciata, ci dica il vangelo della sofferenza. Noi siamo membra gli uni degli altri, e il servizio reciproco è il nostro dovere, perché Gesù lo ha comandato. Se il prossimo è nella necessità va aiutato concretamente, senza per questo sentirsi i primi della classe. E, quando viene la nostra ora, senza sentirci umiliati se abbiamo necessità di venire aiutati.
Questo amore concreto, dal momento che l’amore è via dello Spirito nel cuore di chi è amato e di chi ama, apre li occhi alla visione cristiana del dolore, della malattia e della morte, non più valutata come un essere demoliti, ma come un salire dei gradini verso un punto alto, la Gerusalemme verso cui salivano cantando i pellegrini, come recita il Salmo 122. Si può allora sperimentare che il soffrire coincide con il vivere e che la sofferenza di qualcuno presente accanto a chi lo ama è un dono per l’uno e per l’altro.
Questo è il contributo che, con rispetto e semplicità, i cristiani possono offrire a quanti non condividono la loro fede, perché ogni situazione possa essere vissuta nella libertà e nella pace. Il nostro tempo ha bisogno dell’incontro con Gesù che porta il perdono sulla terra.
Con la guida di Marco la liturgia prosegue il cammino che conduce al riconoscimento di Gesù Cristo “Figlio di Dio”. Oggi, sullo sfondo della guarigione del paralitico, ci viene detto che Gesù è la manifestazione umana della misericordia del Padre, è il luogo stesso dove abita l’amore che perdona e rimette il peccato. Egli “ha il potere di rimettere i peccati sulla terra”; perciò all’infermo che viene condotto a Lui Gesù, in pienissima gratuità di iniziativa, cancella i peccati.
Non associa malattia e colpa morale personale, ma, accogliendolo e perdonandolo, indica al malato ed ai presenti un bisogno più radicale della stessa salute fisica, di una guarigione per una nuova armonia, di una rifioritura che permetta il passaggio a un dopo che andrà vissuto pienamente, nella relazione con Dio ed i fratelli, “in piedi”, nella posizione eretta del Risorto nell’Apocalisse.
Ritorna il comando autorevole: “Alzati!” e il gesto che riconsegna il malato alla vita: “Prendi la tua barella e va a casa tua”. È l’avveramento della parola pronunciata da Dio sei secoli prima, nel ministero profetico di Isaia: “Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non vedete?”. “Quello si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò”. È la realtà nuova, l‘opposto della situazione di paralisi che lo aveva inchiodato, chissà da quanto tempo, sul letto della immobilità. Così, la parola del perdono dei peccati, che potrebbe apparire – se non accolta nella fede – generica ed astratta come sono tante volte le nostre parole di conforto e di incoraggiamento, sincere ma impotenti e persino inutili e fastidiose, in questo gesto di guarigione trova conferma. poiché, molto probabilmente, nella gente presente era ritenuta più difficile dello stesso perdono.
Marco, in questo modo, risponde all’interrogativo della sua comunità e di sempre sul come possa esserci sulla terra qualcuno che perdoni i peccati, come possa insegnarlo ed esigerlo la Chiesa. Con il suo racconto testimonia la potenza dell’amore misericordioso che vince il male e presenta Gesù che risana l’uomo nell’intimo e lo abilita a tutte le altre espressioni della liberazione dal male, in senso fisico, culturale, sociale e politico, che siamo abituati a considerare separandoli dall’interiorità.
Quello, perciò, che Isaia aveva promesso in nome di Dio che vuole fare la cosa nuova, è presente in Gesù. È l’affermazione che quanto Dio promette, già realizza, in una libertà sovrana di cancellare il male e riproporre il bene, al di là delle scelte negative dell’uomo. Perciò quello che chiamiamo “storia della salvezza” è tutta una vicenda di misericordia.
Il “subito” di Marco è il presente eterno di Dio, sempre contemporaneo di ogni momento dell’uomo nel tempo. La “cosa nuova” è stata ben sentita e testimoniata nella fede cristiana, come scrisse Ambrogio di Milano:
“Non mi glorierò perché sono giusto, ma perché sono stato redento;
non perché sono senza peccati, ma perché mi sono stati perdonati”.
La guarigione del paralitico è per una persona sola, ma penso a tante persone sofferenti e sole. C’è il rischio grave del vuoto di senso nella vicenda dell’uomo sofferente, vuoto che lo accompagna nelle lunghe ore di silenzio, che si affolla di interrogativi, di ribellioni, di contestazioni di Dio, di negazione della sua esistenza e vicinanza a quello che l’uomo vive. Ecco le parole di Simone Weil, vicinissima al Vangelo, in esilio per l’origine ebraica, morta a 33 anni nel 1943, divorata dalla tubercolosi:
“Nelle sventure Dio è assente, più assente di un morto, più assente della luce in un sotterraneo completamente buio.
Una specie di orrore sommerge completamente l’anima.
La cosa terribile è che se in queste tenebre in cui non c’è nulla da amare l’anima cessa di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva.
Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, sia pure con una parte infinitesimale di se stessa.
Allora viene il giorno in cui Dio le si mostra e le riveli la bellezza del mondo, come avvenne per Giobbe”
(“Uno sguardo nuovo”, ed san Paolo, 2009 p.153)
Il vangelo di Marco indica la strada per il superamento di questa solitudine. Il paralitico trova la liberazione dal male perché arriva a Gesù che lo accoglie e lo libera con le parole del perdono. Vi arriva perché portato da braccia amiche e generose che si fanno carico di lui, fino all’incontro fiducioso con il Signore, ed è il Signore che lo libera dall’angoscia dell’incapacità di capire la propria vicenda e gli dona la libertà di lasciarsi aiutare da gente che ha braccia per portare e gambe per camminare fino al traguardo dell’incontro da vicino.
È una bella immagine della Chiesa quella che Marco ci dona oggi.
Chiesa povera, fatta da persone limitate dalla finitezza e dal buio dello spirito, ma in cammino perché abitata dall’amore fraterno, portando con fiducia la realtà della sofferenza. Anche Gesù ha avvertito angoscia e solitudine, ha gridato il buio dell’abbandono, ma l’amore lo ha condotto fuori dai confini del male perché il suo è stato amore “fino alla fine”. Ancora una voce di tradizione ebraica, del nostro tempo, quella di Emmanuel Levinas dice come una conclusione e una proposta per chi è chiamato all’oscurità della sofferenza e per chi è chiamato a farsene carico: “Amare senza voler comprendere, amare prima di comprendere, amare senza concupiscenza”. Il gesto degli amici del paralitico, senza parole, è già fede, è già preghiera che entra nel cuore di Dio.
Forse, con l’inizio della Quaresima, ci possiamo domandare un tempo per gesti che allevino il peso dei fratelli.