VIII DOMENICA T.O. – Anno B
(Os 2,16.17.21-22; Sal.102; 2Cor 3,1-6; Mc 2,18-22)
Per comprendere le parole del profeta Osea, che aprono oggi la liturgia, bisogna ricordare la sua vicenda sconcertante. Il Signore gli ha chiesto che la sua profezia passasse attraverso un vita tribolata. Egli sposò una prostituta e sperimentò l’infedeltà coniugale e il fallimento del matrimonio. Ma il Signore gli permise anche di proporre alla sposa infedele un rapporto nuovo – quello che abbiamo ora ascoltato – rapporto che rinnovi il fidanzamento, conceda ad entrambi la possibilità di scegliersi nuovamente, di ricominciare l’avventura dell’amore: “Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… Ti farò mia sposa per sempre…”.
Osea permette così al Signore di annunciare nella sua persona un amore pronto a ricominciare sempre, di annunciare l’esigenza profonda di Dio che cerca una relazione sincera e profonda con l’uomo, al di là della sua infedeltà, del suo ricadere costantemente nell’idolatria. Le parole di Osea ci dicono anche che l’esigenza di Dio non è quella di un’obbedienza esteriore, non si riduce solo alla sua infinita misericordia, ma è soprattutto desiderio di avere con l’uomo la possibilità di parlare “cuore a cuore”, come nel matrimonio. La volontà di ricominciare il rapporto di amore appartiene a Dio. Ma per realizzarlo è necessario il deserto interiore, è necessario far tacere i rumori consueti della vita, superare la ritualità ripetitiva, mettendo invece al primo posto la redenzione personale del cuore.
Marco approfondisce il senso di questa novità di rapporto che Dio ci dona e nello stesso tempo ci chiede. In quei giorni a Cafarnao i farisei e i discepoli di Giovani stavano facendo un digiuno. Si trattava di una pratica consueta, abitudinaria, come per noi tropo spesso è anche l’Eucarestia. Il rischio delle abitudini consuete è che esse riconducano alla propria piccolezza le esigenze di Dio, che le riducano all’angustia, al limite di una pratica. Si sclerotizza così la vitalità del rapporto con Dio, si riduce la relazione con lui al compimento di un dovere. Marco ci fa capire che Gesù capovolge questa mentalità vecchia: la paragona al vestito vecchio, che non può sopportare la resistenza del tessuto nuovo, all’otre screpolato, che non può contenere il vino nuovo, ricco di fermenti. La fede non può ridursi alla tradizione e alla consuetudine: esse hanno valore nella misura in cui hanno la capacità di sfociare in relazioni nuove. Altrimenti divengono quella paralisi, che Gesù incontra tanto spesso nei malati che sono sulla sua strada.
Gesù ci dice che non dobbiamo concentrare la nostra attenzione sugli atteggiamenti, sui comportamenti, ma sulla relazione con lui, che è viva solo se noi lo accogliamo come Sposo. Egli ci propone una religiosità fondata su di un rapporto costante, radice il nostro vivere, non su una serie di rapporti intermittenti.
Pensiamo a tutto questo durante la Quaresima. Il Signore non ci chiede l’adempimento perfetto di doveri, di ritualità, ma la profondità del rapporto con lui, che deve rinnovare tutta la nostra vita. La relazione con Dio non dipende dalla struttura organizzativa della Chiesa, ma della sua presenza nel nostro cuore come Sposo. Domandiamoci con serietà quanto lo accogliamo: la sua fedeltà non verrà mai meno. Come annuncia il Vangelo di Matteo nella sua ultima pagina, Gesù ci ha promesso di “restare con noi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. E Marco chiude il suo Vangelo dicendo che i discepoli, dopo l’Ascensione, “partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro”.
Siamo pronti anche noi ad un incontro nuziale con lui? O siamo ancora legati alle pratiche, alle scadenze? Domandiamoci in che modo possiamo instaurare un rapporto vero con Cristo, Sposo della nostra umanità.
Nel capitolo 18 di Matteo, parlando alla comunità cristiana, Gesù ci risponde: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. E ancora nel Vangelo di Giovanni al capitolo 13, dopo la Cena così dice ai suoi: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. È la fraternità, l’unione tra fratelli, che permette la relazione, stabile, nuziale, con Dio. Da questa unità vengono a noi la pace, la festa, la gioia cristiana.
Ma tutto questo implica delle conseguenze forti: quando non c’è fraternità, la presenza di Dio ci viene tolta. Lo Sposo è tolto. Questo è il messaggio del Vangelo. Senza fraternità, la spiritualità individuale è illusoria. Non può esserci pace, gioia, festa, perché lo Sposo non c’è. Si aprono allora, come voragini, gli spazi di Caino e la terra diventa luogo di paura, di violenza, di diffidenza. Si preparano i sacchi che dovranno contenere i cadaveri. Sono i nostri giorni. Non vi sono vestiti di festa, ma gli abiti di lutto delle divise militari.
Quando c’è lo Sposo è festa. Quando il Signore viene estromesso, allora digiuneremo. Cerchiamo di capire insieme l’invito del Papa per il digiuno di mercoledì. Non si tratta di una pratica, ma dell’invito ad entrare nel dolore di Dio, che è lo Sposo tradito, costretto a non vivere con l’uomo, perché l’uomo si nega a Dio, rifiutando che l’altro fratello sia il suo “tu”. Il digiuno è entrare nella sofferenza del Signore, condividerla, come persone che hanno con lui confidenza e sono quindi capaci di com-patire con lui. Il digiuno non è bravura, ma testimonianza del patire di Dio, che non può fare a meno dell’uomo. È testimoniare che nel cuore di Dio c’è un modo diverso di concepire l’umanità. La guerra è il mondo vecchio, in cui gli abiti hanno strappi e il vino nuovo del Vangelo viene sciupato.
Il digiuno è possibilità di ascoltare la Parola, che ci chiede di avere come abito non la guerra, ma le Beatitudini, ove non conta il prestigio, ma la volontà di essere fratelli.
“È giustissimo supporre che i versetti 21-22, la coppia di detti, appartenessero già al primo livello della tradizione. In essa si sottolinea infatti la novità che è stata posta con il tempo della salvezza. Adesso quello che interessa è trovare nuove forme per la vita religiosa: ‘vino nuovo in otri nuovi’”. Così scrive Gnilka, esegeta importantissimo del Vangelo di Marco.
“Vino nuovo in otri nuovi”. Si tratta di parole pronunciate dal Gesù storico: esse annunciano la novità che irrompe nella storia con il tempo della salvezza, parole di un’attualità sconcertante Anche oggi la Chiesa non ha paura di affrontare una nuova evangelizzazione, nuove forme della vita religiosa. Chiediamo al Signore un cuore libero per riuscire ad accogliere in noi la sua novità.
Il giudaismo conosceva il digiuno pubblico e privato e distingueva il digiuno prescritto – come quello del giorno dell’espiazione, il Kippur – e quello volontaristico. Quest’ultimo aveva preso piede in certi gruppi giudaici, nei due ultimi secoli prima di Cristo, e ad essi qui si fa allusione. Le motivazioni generali che si avanzavano erano l’umiliazione davanti a Dio, l’espiazione, la supplica. Il v. 19 dice con chiarezza che i discepoli di Gesù non digiunavano e si distinguono perciò dai discepoli di Giovanni e dall’insegnamento farisaico. Questo comportamento è perciò “scandaloso” per la sensibilità “religiosa”, legata alla tradizione cultuale. Ma Marco dice che l’atteggiamento cristiano viene giustificato dalla presenza del Signore, realtà indicata con l’immagine delle nozze. È un’immagine antica, riferita al tempo messianico e utilizzata dai profeti: abbiamo ascoltato la prima lettura, tratta dal profeta Osea, vissuto tra il VII e il VI secolo a C., epoca in cui urgeva una restaurazione spirituale di Israele. Dio è lo sposo del suo popolo e Marco annunzia il tempo della nuzialità: i figli della sala delle nozze o della camera nuziale sono gli amici dello sposo che sono stati invitati alle nozze e non possono essere senza gioia. Il modo di fare dei discepoli di Gesù sta ad indicare la certezza di fede nella presenza del Signore tra loro, come è riferito in Matteo:
“dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì sono in mezzo a loro” (Mt.18,20)
Il non digiunare dei discepoli ha come modello il comportamento di Gesù. In lui non c’è antagonismo verso Giovanni e quelli che lo circondano. Egli vive la gioia delle nozze, perché è cambiata la prospettiva: Dio è con l’uomo, qualsiasi possa essere la sua situazione e condizione, perciò mangia e beve con i peccatori.
I cristiani devono sapere che il Signore può essere loro strappato, o a motivo della debolezza e dell’incoerenza personale o come evento storico, come è avvenuto per il Maestro – e lo ricordiamo, scrive Agostino, sia per mantenersi nell’umiltà davanti a Dio, sia per fare memoria della passione del Signore, con la pratica del digiuno (del mercoledì e del venerdì nei primi secoli). Oggi la Chiesa tende a dare al digiuno il senso di purificare il cuore da quanto si oppone al Signore in noi – giudizio, durezze, paure, limite del nostro cuore verso l’oltre – e ci chiede di limare gli spigoli della nostra interiorità che rendono scontri i rapporti. I cristiani sanno che la sofferenza fisica e la persecuzione possono entrare nelle loro vite, ma la loro realtà è Gesù in mezzo a loro, perciò la loro divisa è la gioia. Questa è la novità del Regno presente, che sottrae i discepoli a restrizioni formalistiche, sottolineando la libertà che viene da Gesù: libertà dalle prescrizioni per essere liberi di amare!
Così possiamo comprendere un po’ meglio il termine che il Signore si attribuisce direttamente quando si presenta come “sposo”. Anche questa volta – come nel brano, che abbiamo ascoltato domenica scorsa, in cui rivendicava a sé il potere di rimettere i peccati che è solo di Dio – attribuendosi il titolo di sposo, che i profeti avevano annunciato di YHWH, Gesù praticamente si dice Dio, un Dio fedele al suo popolo anche infedele, e che manifesta la propria fedeltà nella sua persona. I suoi amici, testimoni e compartecipi di questa fedeltà che assume tutti i contorni della storia umana, dovranno essere testimoni gioiosi di lui.
Il termine “sposo” porta alla riflessione su due dimensioni.
Da un lato l’esigenza di una comunione profonda di pensiero e di sentimenti, secondo le parole di Paolo:
“abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil.2,5)
La nuzialità, infatti, è conoscenza profonda dell’interiorità dell’altro, nella reciprocità, nella libertà di dirsi fino in fondo e di poter contare sulla “complicità” dell’altro. Questa prima dimensione non si può determinare dall’esterno, perché dipende dalla chiamata personale alla fede e dal lavoro dello Spirito Santo nei cuori, che suscita comprensione profonda e consensi generosi, come in Paolo:
“per me Cristo è il vivere” (Fil.1,21)
Però sarebbe riduttivo pensare questa nuzialità solo di persone privilegiate, chiamate ad una vocazione particolare. Nella diversa vicenda di ciascuno, questa dimensione appartiene ad ogni discepolo del Signore.
La seconda dimensione è quella della condivisione della via dello sposo: “la attirerò a me, la condurrò nel deserto, parlerò al suo cuore”, sono le parole di Osea, che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Attenzione, però, a non fare del “deserto” un luogo, a cui guardare con desiderio di pace, di interruzione della fatica, di più immediato contatto con il divino… Siamo bravissimi a rendere parole alla moda le parole più sacre, anche nella stessa vita cristiana, quando diciamo “facciamo deserto” o chiamiamo così conventi e case di ritiro. Il “deserto” è il luogo dove Dio ha comunicato ad Israele la sua parola e glie lo ha fatto sperimentare attraverso mille traversie. Deserto è testimonianza dell’amore di Dio, non perché le cose si risolvono, ma perché Qualcuno paga: il Vangelo è detto pienamente nella croce. Gesù assume su di sé la fatica del deserto per svuotare la mentalità religiosa dalla presunzione degli adempimenti che fanno sentire a posto, e portare la nuova mentalità in “otri nuovi”, in cuori decisi a condividere il suo essere sposo fedele nella solitudine dei rifiuti e delle incomprensioni.
Alla Chiesa viene domandato di vivere nella gioia la dimensione di povertà e di insignificanza nella società. Come disse Bonhoeffer forse nel terzo millennio i credenti dovranno vivere senza pronunciare il nome di Dio. Forse è del nostro tempo dire la realtà del deserto dove nasce vita nuova, vino nuovo.