XIII DOMENICA T.O. – Anno B
(Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal.29; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43)
Marco presenta Gesù a contatto diretto con l’esperienza umana più comune, quella della malattia e della morte: questa è la “riva” verso cui, per ordine di Gesù, deve tendere la barca della Chiesa. Non è la fine della sofferenza e della consumazione della vita fisica, ma è – nella persona di Gesù – il principio, il preludio di un modo nuovo di essere umanità: in fondo al cammino della storia del singolo e della collettività, per conseguenza del contatto con la persona di Gesù, c’è la realtà di un’umanità risanata e sottratta alla morte. Lo scenario del capitolo quinto del vangelo di Marco, l’ “altra riva” a cui la barca è diretta dal capitolo quarto con l’intervento di Gesù sulla tempesta, fa emergere subito gli incontri con i portatori della sofferenza umana: la figura del posseduto dal maligno – che esce dai sepolcri, luoghi ritenuti “impuri”, ed ha perduto la propria identità, lontano da Dio, dagli uomini da se stesso -, quella della donna che soffre senza più speranza, di Giairo, angosciato per l’imminente morte della figlia. E riporta la parola di Lui, che invita a “non aver paura”, a non fermarsi all’istinto della desistenza nella lotta contro il male, di non tentare più. Riuscire a toccare Gesù è esperienza di vita, da subito. La morte non è più ineluttabile, alla persona si apre la soglia di un mondo nuovo, che non sarà l’eccezione del miracolo, ma la “norma” della vita senza malattia e morte. Ma bisogna, con fede personale, “toccare” Gesù: “La donna si alzò per andare incontro al Verbo; vide che era preso a spintoni dalla folla, ma non coloro che fanno a spintoni credono, credono coloro che toccano. Con la fede si tocca Cristo, con la fede si vede Cristo; non si tocca con il corpo, non si afferra con gli occhi. Se anche noi vogliamo essere curati, tocchiamo con la fede il lembo della veste di Cristo. Beato colui che tocca almeno l’estremità del Verbo! A Lui non rimane sconosciuto chi tocca almeno il suo lembo”. Così, s. Ambrogio di Milano, nel commento al vangelo di Marco. Riferendosi, poi, alla figlia di Giairo, aggiunge: “Gesù, prendendo la mano della fanciulla, la restituisce alla vita. Beato colui, che la Sapienza tiene per mano!” Il Gesù di Marco, nel ventaglio delle situazioni di sofferenza è ricco di coinvolgimento sensibile. Come nel capitolo precedente aveva minacciato il vento per rispondere al “non ti importa che siamo perduti” dei discepoli nella tempesta (Mc.4,38), ora, per liberare dalla sofferenza, discute con lo spirito impuro, la “legione” che ha invaso l’uomo possedendolo, si “sente” toccato dalla donna sfinita dalla emorragia e dall’avvilimento, si fa premura affettuosa per l’angoscia di Giairo, fino a prendere per mano la ragazza ormai morta, e a lasciarci il dono tenero delle parole nella sua lingua, l’aramaico: “talità kum”, “fanciulla, te lo dico io, alzati!” La forza della persona di Gesù passa nei credenti attraverso il dono che egli fa di sé nella verità di una presenza che ha voluto garantire nella fisicità dei sacramenti: dobbiamo portare in noi l’esperienza e la riconoscenza per la sua mano che ci accarezza, per la sua voce che ci rincuora, ripetendoci di non aver paura, per il suo essere compagno che cammina assieme, per la sua tenerezza che si commuove per i nostri dolori, particolarmente nell’Eucarestia. Dobbiamo imparare a non essere frettolosi nel definire superstizione la sensibilità nella vita di fede, anche se bisogna guardarsi dai devozionalismi. Imparare da Gesù a donare Dio attraverso il dono dei sensi. Forse l’uomo dei sepolcri sarà stato malato da giovane e la vita in casa gli sarà parsa impossibile, fino a portarlo alla decisione di andarsene tra i sepolcri, temuto da tutti, separato da Dio e dai fratelli, solo fino a percuotersi ed odiarsi; forse la donna si sarà sentita non compresa dai tanti medici, sarà diventata un “caso seccante”; forse il capo della sinagoga non avrà avuto tempo per la figlia adolescente. Una ragazza stamattina è venuta in Chiesa: i genitori le avevano fatto capire di non averla desiderata e la avevano spinta a cercarsi da sola la propria strada … e lei era andata da Gesù, sicura di essere accolta. Marco ci invita a seguire Gesù che serve e dona la vita attraverso la sensibilità posta al servizio dell’amore.
“Talità kum”, “fanciulla, io ti dico, alzati!” Marco, al capitolo 5, mostra Gesù a contatto stretto con l’esperienza umana, comune a tutti, della malattia e della morte. Sono incontri che coinvolgono la sensibilità di Lui e lo conducono a gesti di affettuosa vicinanza. Così è per la donna affetta da una malattia umiliante, considerata dalla società del tempo come fonte di impurità legale. Così per Giairo, uno dei capi della sinagoga che implora la guarigione per la figlia morente. La condivisione di Gesù che si rivela nei gesti prodigiosi, non si ferma in essi, non è l’inizio di un’epoca segnata dal miracolo più forte del male, della morte che rapina la vita e la spegne. Attorno a Gesù – dice Marco – c’è la “folla” che lo stringe in un abbraccio di fiducia, e che crescerà sempre dopo il suo ritorno al Padre; ma gli uomini hanno continuato ad ammalarsi e a morire. I gesti di Gesù che operano guarigione sono l’annuncio, la profezia di un tempo ultimo in cui l’umanità sarà definitivamente libera dal male e dalla morte. Attraverso la sua vicinanza ai sofferenti, Dio sta già operando questo futuro che l’Apocalisse chiama “Città santa”, riportando “la voce potente che viene dal trono” e che afferma: “Asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte … né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate.” (Ap.21,4). Gesù domanda di credere a questa azione rigeneratrice del Padre di tutti, che conosce la realtà umana e si inclina, si sporge, si sbilancia su di essa con la potenza dell’amore che risana dal male, rialza chi è caduto, ridona speranza a chi è fallito, la vita a chi muore. Sarà il tempo della realizzazione piena della parola antica della prima lettura: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura”. Perciò la parola di Gesù invita a “continuare a credere” perché, nonostante il linguaggio dell’immediato, “la fanciulla non è morta, ma dorme” e perché la fatica della donna che cerca di raggiungerlo trova la pienezza di gioia nel sentire: “Figlia, la tua fede ti ha salvato”. È la fede che permette di raggiungere Gesù e di “toccarlo”, la fede che non desiste, non si arrende alla logica umana che uccide la speranza: “È morta, perché disturbi ancora il Maestro?”. Desiderare di “toccare” il Signore, anche se solo sul lembo del mantello, lasciando che prenda la nostra piccola mano nella sua, questi sono i segni della comunione che apre il dono della sua parola e della sua energia. Finché non si arrivi ad un incontro personale con Lui, non si scopre che la fede è più della fiducia in un taumaturgo: è la certezza, l’esperienza di essere amati prima e al di là della soluzione del male che opprime e dispera, anche quando il pensiero umano non ritiene plausibile fidarsi di Qualcuno che lascia che ci sia rubato il sole! Marco, con il suo racconto, dice che prima del gesto prodigioso, la donna inguaribile, il padre di una ragazza ormai morta, si fidano di quel Qualcuno che sussurra nell’intimo: “La tua fede ti ha salvata”, “La fanciulla non è morta, ma dorme”. Poi viene l’accorgersi di star bene, la restituzione alla vita e ai genitori; solo dopo aver continuato a credere si manifestano le parole della tenerezza, “Và in pace”, “Talità kum”. “Io ti dico, alzati”. Gesù è l’ideale e il modello della presenza cristiana accanto alla realtà del male e della morte. Occorre imparare da Lui quel “guardare attorno” per essere umilmente segno e testimoni dell’Amore che si accorge, si sporge, si contamina con le ferite dell’umanità, per trasmettere il calore che ne promana e l‘energia che restituisce alla vita. Per Gesù il contrario della paura non è il coraggio che si trova a fatica, ma la fede nel cuore di Qualcuno che cammina al fianco di chi soffre, suggerendo: “Non temere. Soltanto abbi fede”. Così è maestro di coraggio. Senza timidezze prende nella sua mano la mano della ragazza, nonostante il divieto delle norme rituali. C’è uno che prende nella sua le nostre mani aride e vuote. A ciascuno di noi, ognuno con la propria parte di dolore portato dentro, ripete quel’affettuoso “talità kum”, che Marco ha conservato in aramaico perché ciascuno possa accogliere l’invito nel proprio linguaggio e divenga certo della vicinanza personalizzata del Signore. Invito ad alzarsi e a camminare, come Lui e con Lui, sbilanciati per amore sulle disperazioni dell’umanità.