XV DOMENICA T.O. – Anno B
(Am 7,12-15; Sal.84; Ef 1,3-14; Mc 6,7-13)
Una liturgia che pone i credenti come nella contemplazione di un grande affresco, che guarda “dentro”, all’intimo di Dio, il pensiero e l’amore eterno, e porta “fuori”, nella sua attuazione storica. L’inno che sgorga da s. Paolo, che ne parla in termini densi, invita i cristiani di Efeso e tutti noi a lasciarci coinvolgere da quanto gli è stato intimamente rivelato, di quanto egli “ha visto” di Dio nella profondità della conoscenza. Paolo ha capito che Dio non è inerte nella sua eternità, ma desideroso, fino ad apparire spinto dalla necessità, di comunicare a quanti ricevono la vita da Lui che lo scopo di tutto è la comunicazione della sua stessa vita. È l’eredità, dice Paolo. La sua eternità custodisce questo progetto ed è perciò eternità di amore. Il primo pensiero che è originato da questa certezza è quello dello stupore e della riconoscenza per la fiducia nell’uomo, che è destinatario della condivisione della divinità, del tutto indipendentemente dalle capacità della sua natura e dall’entità dei suoi meriti. La vicenda di Amos lo fa capire concretamente. Il dono della fede e il compito di testimoniarla prescindono in modo radicale dalla sua umile condizione di nascita, di cultura, di professione. A lui viene domandato di essere segno di Qualcuno che lo ha scelto. Così i dodici, di cui ci sta parlando Marco, inviati ad un’esperienza di missionarietà, in cui dovranno attuare il programma che Gesù “indica”, cioè parlare ed agire quello che Egli stesso ha parlato ed operato. Colpisce la fiducia del Signore in questi giovani, chiamati dalla vita ingolfata delle necessità quotidiane e tirati fuori per assumere un lavoro di tutt’altra natura. Non si tratta di un episodio, ma ci viene rivelato uno stile. Giovanni riferirà la parola dell’ultimo giorno: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio, l’ho fatto conoscere a voi” (Gv.15.15). E così anche nel tempo della Chiesa: ”Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati” (At.13,2) Marco ci mette davanti al mistero della chiamata alla fede, che è fiducia di Dio all’uomo, del tutto indipendentemente dalle capacità e meriti personali, come appare da Amos e dall’inno agli Efesini, perché prendiamo coscienza di un Amore che sta all’origine di ogni manifestazione di Dio e domanda solo il sì convinto e grato di chi prende coscienza. Ci vuol dire che è importante per il credente sentire di avere alle spalle Qualcuno che ti sta amando e su cui puoi contare. E sapere che, perché non ci si perda davanti alla grandezza del vangelo a motivo dei limiti personali, al credente viene richiesto di vivere il compito non da solo, ma “due a due”, non solo per l’autorevolezza giuridica della testimonianza, ma perché l’annuncio dell’amore non può passare se non attraverso la relazione positiva dell’amore dell’altro che accompagna nella missione, in modo da essere il “luogo teologico” in cui il Signore abita “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro” (Mt.18,20). Questa è la vera ricchezza del missionario – testimone del vangelo ed il vero sostegno di essa. Egli dovrà contare sulla potenza della Parola e non sui sostegni di tipo umano. Non si legge mai senza disagio e senza rimorso l’ordine di Gesù: non prendere per il viaggio, nulla oltre al bastone, “né pane, né bisaccia, né denaro nella cintura”. Diranno i Padri della Chiesa: “Il Signore mandò gli apostoli senza oro e senza oro fondò la Chiesa” (s. Ambrogio) L’invito a sostare nella casa, nella dimensione familiare, fa pensare alle relazioni stabili per la comunicazione del vangelo, quelle relazioni in cui l’anima e l’esigenza è la sincerità del cuore, il ritmo è più l’indugio che la fretta. Gli avvenimenti possono essere condivisi con gli spazi dell’ascolto e della parola meditata. Spazi di silenzio, come il tempo della gravidanza, come quelli carichi di trepidazione per l’altro che si ama, come quello della malattia senza ritorno. Il Signore ci conceda lo spazio delle nostre case per il suo vangelo!
“Cominciò a mandarli due a due”. Il bruciore del rifiuto sperimentato nella sinagoga di Nazaret non resta in cuore a Gesù, non lo spinge alla desistenza, ma è occasione per portare avanti con determinazione, quasi con urgenza, l’impegno di essere testimone fedele dell’amore del Padre, con una visione più ampia. “Chiamò a sé i Dodici”. Li aveva già chiamati a Sé individualmente “perché stessero con lui” (Mc.3,14), ora li chiama ancora a Sé perché facciano proprio il suo impegno e lo condividano con altrettanta determinazione. Loro, i Dodici, sono il riferimento alle dodici tribù di Israele; ad essi si aggiungeranno presto quanti sentiranno la chiamata al discepolato pur senza la particolare caratteristica dei primi, quei settantadue di cui parla Luca, con un numero che allude alla convinzione diffusa che tanti fossero i popoli del mondo, anch’essi designati ed inviati (Lc.10,1 ss). Subito si capisce che fede ed impegno a testimoniare il Vangelo, nel pensiero di Gesù, vanno di pari passo in ogni discepolo che voglia seguirlo con determinazione. La loro forza non deriverà da particolari competenze, ma dalla fiducia in chi li invia. La povertà interiore che non pone la sicurezza nelle doti personali e quella esteriore che non poggia sull’abbondanza di strutture e mezzi economici, non sono fine a se stesse. Non c’è nel Vangelo una chiamata al pauperismo ma al non dipendere dalle cose, perché appaia nella persona stessa di chi annuncia che la potenza della Parola sta nella presenza di Dio in essa. “A due a due”, non uno ad uno. Perché l’uomo da solo non è capace di certezze definitive nel proprio intimo e di comunicarle. La prima testimonianza sta in questo accompagnarsi credendo a quanto la Sapienza aveva detto: “Un fratello aiutato da suo fratello è come la città fortificata ed elevata, è forte come un bastione regale” (Pr.10,19, volgata). Gesù farà di questa Parola vissuta la chiave di ogni progresso del Vangelo, affermando: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome lì sono io in mezzo a loro” (Mt.18,20). I Dodici e i discepoli di ogni tempo della Chiesa partono forti del consenso condiviso a questa Parola del Signore, ribadita da Lui al momento della separazione fisica dopo la resurrezione (Mt.28,19-20). La presenza è già qui, ora, nel rapporto tra i discepoli, e dona la libertà dalla paura e la passione per contagiare il Vangelo. Nella loro unità, Gesù donerà anche la pazienza per affrontare il rifiuto. Tutti dobbiamo imparare che l’annuncio del Vangelo, nello stile cristiano, non invade mai lo spazio dell’altro, ma da all’altro lo spazio che merita. Il respiro di Dio nell’uomo si fa spazio solo se ogni uomo porta rispetto all’altro uomo (S. Natoli). È questo rispetto che aiuta le coscienze a discernere le idolatrie, le presenze demoniache sulle quali il Signore da potere ai discepoli. Oggi non è facile parlare di queste presenze, perché come nel passato la fede monoteista ha vinto le idolatrie, oggi la secolarizzazione sembra oscurare la fede monoteista fino alla insignificanza di Dio. E lo fa con l’apparente innocenza degli idoli del consumo, che vengono rinnovati con frequenza sempre maggiore per paura che emergano le falsità e le falsità mettano in crisi l’idolatria del sistema la schiavitù di chi la subisce, magari senza accorgersene. Gli idoli non sono spariti, sono sati resi irriconoscibili, non appaiono più demoniaci. Anche la Chiesa oggi può essere tentata dagli idoli della grandiosità e della potenza. Forse il Signore ci sta dicendo che essere designati e mandati a “scacciare i demoni” significa uscire dall’idolatria che preme in ogni aspetto della vita. Diceva sant’Ambrogio: “La disposizione a disprezzare le ricchezze si riscontra a fatica anche nei santi del Signore” (i battezzati). Forse un modo più semplice di vivere, la testimonianza di una “sobrietà felice”, più libera dalla schiavitù alla concezione dl benessere fine a se stesso, separata da Dio da adorare e dagli altri da amare: forse questo è il bisogno più urgente di un’umanità che grida l’attesa del Vangelo. Preghiamo perché in mezzo a noi vi sia chi sappia testimoniare l’autenticità della vita guidata dalla fede, che non tolleri che i doni ricevuti non circolino. Forse oggi il Vangelo ci sta domandando i coraggio di scoprire e combattere le piccole idolatrie che ci tengono in ostaggio.