XVI DOMENICA T.O. – Anno B
(Ger 23,1-6; Sal.22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34)
Domenica scorsa abbiamo ascoltato il passo del vangelo in cui Marco narra come Gesù abbia inviato i discepoli, due a due, per predicare la conversione (Mc.6,7-12). Ora egli racconta il loro ritorno dall’esperienza missionaria, che non sappiamo quanto sia durata, ci dice di Gesù che li accoglie con affetto, pieni come sono di umanità sofferente e di stanchezza, li riporta all’essenziale per cui li aveva scelti e chiamati (Mc.3,14-15), e dice loro: “Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’”. Da un lato c’è l’umanità dei drammi, dei lutti, delle sospensioni angosciose per le situazioni senza soluzione; dall’altro la proposta di una separatezza che appare come insensibilità all’urgenza e può sconcertare la nostra mentalità efficientistica. Il “luogo solitario”, il “deserto” aveva per gli Ebrei un significato evocativo molto importante, è il luogo in cui Dio parla al cuore, in cui – come si legge nell’Esodo- per quarant’anni il popolo aveva imparato a comprendere l’intenzione di Dio di comunicare più intensamente se stesso, a vivere con Lui in una intimità sempre più profonda. Molti secoli dopo, il profeta Osea, ricordando quanto fosse stata preziosa l’esperienza di esso per il popolo ebreo, lo considera proposto da Dio per parlare al cuore, per aiutare ad entrare nel suo dono più grande, il dono di se stesso nella più profonda intimità, che ha la sua massima espressione nell’amore nuziale. Cosa vuol dire Gesù ai Dodici, invitandoli al “luogo solitario”? Certo è un segno dell’attenzione che ogni persona di responsabilità deve avere verso i propri collaboratori, che sono persone e non strumenti; ma, oltre questo bel segno di premura a cui tutti dovremmo guardare, Gesù dice che il vero dono della fede e del vivere con Lui non è il giungere materiale a tutte le necessità, come Lui non vi è giunto, ma il condividere la sua commozione per l’umanità. Quando Marco ci mostra la prontezza a spostare il proposito del riposo, a dare priorità al dolore e all’ansia della gente (al di là di ogni programmazione), ci mostra un Gesù maestro per il cammino di quei primi e per la comunità in ogni tempo. Educa i discepoli alle vere priorità, ed essi imparano ad essere sempre a disposizione dell’uomo, a non appartenere a se stesi, ad essere testimoni della libertà interiore a cui è affidata la possibilità di dire il cuore di Dio, luogo della compassione. Aiuta a comprendere questo insegnamento di Gesù la lettera che don Lorenzo Milani scrive per l’inaugurazione della casa del popolo al suo amico Pipetta – un militante del PC, cui egli era stato molto vicino: “Ti lascio al cancello e vado dai poveri”. Lo ha accompagnato fino all’ingresso, ma ora torna da quell’umanità che gli sta a cuore e che per lui rappresenta una priorità. Marco che, come stiamo imparando, ama la parola concisa e i gesti concreti, esprime la compassione del Signore per l’umanità raccontando per due volte la moltiplicazione dei pani, a segno del suo spezzare la propria vita per tutti, sia per i “vicini” – 5 pezzi per 5000 uomini e 12 ceste per le 12 tribù (Mc.6,35-44) – che per i “lontani” – 7 pani, 4000 uomini, 7 ceste per i 7 popoli di Canaan (Mc.8,1-9). Così egli racconta la compassione del Signore per gli uomini che sono “come pecore senza pastore”, la misericordia del cuore di Dio, il suo amore senza limiti. Egli sta ricomponendo l’unità fra gli uomini, come in questa liturgia ci dice in modo splendido Paolo, nella lettera agli Efesini. La nostra situazione attuale, di oggi, è ben presente in questa commozione del Signore. Non è difficile cogliere il senso di dispersione e di disorientamento, anche in chi si sente credente. Il Gesù del vangelo ci appare come Colui che da significato e orientamento, che ridona a chi lo ascolta e lo segue il valore dell’esserci, nella vita e nel presente. La sua parola nutre proprio in questa direzione. Restituisce all’uomo la cultura della vita sana e risanante, perché fa scoprire di essere amati e di poter amare per aiutare ad essere. Ci dice “Tu vali”, “Tu sei fatto in dono per l’oggi dell’uomo”: questa è la sua parola liberante. Perciò Egli è in grado di colmare la fame più profonda. Le folle, che Marco presenta frequentemente intorno a Gesù, lo “cercano” – proprio come quando nello smarrimento si cerca la direzione – perché avvertono in Lui una premura che non suscita diffidenze, che non condiziona nel servilismo, che si mette in gioco non strumentalmente per ottenere successo e consenso, che tende non ad usufruire, ma a promuovere. Il breve racconto di Marco, con lo spostare pronto dell’intenzione di un po’ di riposo, l’annullamento del proprio progetto, è il modo concreto per insegnare ai discepoli che il bisogno della gente è prioritario nella vita di chi segue Gesù, che la ricerca della quiete poggerebbe su motivazioni inaccettabili se dovesse coincidere con la disattenzione ai bisogni del prossimo. La carità fraterna dovrà essere prioritaria e vissuta a fatti. Così si attua la profezia di Geremia (Ger.31,25 “Poiché ristorerò copiosamente l’anima stanca e sazierò ogni anima che languisce”) e del salmo 23 (Sal.23,2: “su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce”) in cui Dio dice “Io stesso”! È un’attuazione che appartiene alla coscienza della comunità, ma prima di tutto a quella di ogni credente con l’“Io stesso”!
Marco ci fa dono di poche ma dense parole sulla compassione di Gesù. La gioia di accogliere i “suoi” Dodici che tornavano dall’impegno di predicazione del Vangelo è carica di attenzione e di affetto per le loro persone. Il loro desiderio di raccontare e comunicare non è sufficiente a nascondere l’evidente stanchezza per quanto avevano vissuto, e c’era gente che si era resa conto del loro ritorno e li cercava. Quasi per proteggerli, per custodire la loro vita, le loro persone che aveva scelto “perché stessero con lui”, li invita ad una pausa, “in disparte”. È compassione ed è ammaestramento, come sempre nelle parole e nei gesti del Signore. I “suoi”, i Dodici e noi, dovranno imparare che l’annuncio del Vangelo non è foga emotiva e spossante, ma equilibrio e pace in chi annuncia e in chi ascolta; dovranno imparare a non presumere di se stessi, a non lasciarsi avvolgere dalle spinte di attivismo, che contraddirebbero il primato della vita interiore, che caratterizza invece la vita di Gesù stesso e dovrà caratterizzare la loro. “Se vuoi far bene tutte le tue cose, ogni tanto smetti di farle”: così si esprimeva Ambrogio di Milano. E tuttavia, sullo sfondo e attorno al gruppo dei primi discepoli, c’è la folla, sempre presente nel racconto di Marco. Davanti ad essa si manifesta la compassione, che va oltre la preoccupazione per il bene fisico e spirituale di quelli che sono di Gesù. Si direbbe che la folla, l’umanità con le sue condizioni di problemi e di bisogni, è il soggetto, perché è la scelta che Dio ha fatto e realizza nella missione di Gesù e della Chiesa. E Gesù, che vuole portare a compimento questa scelta, si sente stringere il cuore, è toccato nell’intimo, perché è per questa folla che è venuto. Per questa folla avvera la figura del pastore buono, bello, annunciato da Geremia: “Radunerò io steso il resto delle mie pecore da tutte le regioni”. È questa compassione la chiave di lettura dei gesti concreti che Marco descrive: la rinuncia al momento di tranquillità e il farsi carico, anche materialmente, delle necessità della gente con la moltiplicazione del pane. La folla farà l’esperienza dell’Amore gratuito, disinteressato, che è pronto ad uscire da ogni interesse proprio, per privilegiare l’altro nella sua situazione concreta. Così si capisce che la missione per Gesù (e per tutti noi) non è una professione nel senso comune del termine, ma la decisione di condividere con l’umanità l’amore di Dio che è “extasi”, uscita da sé. Colui che ama dimenticandosi per l’altro, diventa l’amore che rende come Dio e fa essere l’altro che ha amato. Questo è l’intento di Dio, che siamo come Lui, che siamo Lui. Dirà Agostino che amare Dio è il primo comandamento per la dignità del suo contenuto, ma il secondo è primo nell’esecuzione. Quanti nella fede ci sentiamo chiamati a donare il Vangelo, dobbiamo imparare ad entrare in questa gratuità perché quanti la accolgono siano aiutati a vivere un rapporto con il Signore, senza impedimento di personalismi o interessi organizzativi, sia pure a fine di bene. Gli annunciatori dovranno “permettere che il Creatore operi immediatamente con la creatura, e la creatura con il suo Creatore e Signore” (Ignazio di Loyola). “Si mise ad insegnare molte cose”. Chi comunica il Vangelo non può farlo per sé, come un mercenario, ma per dire la gratuità divina. Viene da domandarsi dov’è la grande folla che il Signore vede con commozione. Forse non tanto nei luoghi separati del sacro distensivo e riposante di una Chiesa. In questi giorni sono apparse anticipazioni sconvolgenti di una ricerca dell’Istituto nazionale per i tumori di Napoli, da cui appare un incremento delle patologie, dovuto a cause ambientali, il dramma dei rifiuti, per le province di Napoli e Caserta. La folla è lì dove si addensa l’umanità dolente. Ad essa Gesù guarda con compassione ripetendo parole che ognuno di noi dovrebbe far proprie: “non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati … non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. Penso a quanto detto da Chiara Lubich, maestra dell’evangelizzazione: “La presenza della carità nel mondo è come l’apparire del sole a primavera, quando la terra arida e avara sembra non avere nulla da offrire ed invece, improvvisamente, rinverdisce e fiorisce. I semi c’erano, mancava il calore. Nel mondo le belle intenzioni e le buone volontà esistono, ma spesso non se ne vedono i frutti perché manca la fiamma della carità, che le matura alla luce” (Scritti spirituali/1)