XXI DOMENICA T.O. – Anno B
(Gs 24,1-2.15-17.18; Sal.33; Ef 5,21-32; Gv 6,60-69)
Con questa domenica termina il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. Qui non si parla di Gesù Pane Eucaristico, ma della necessità da parte nostra dell’accoglienza di tutta la persona di Gesù.
Anche per l’uomo credente l’accettazione del contenuto della fede crea delle difficoltà. Gesù pane di vita vera, il pane della Parola, la presenza di Gesù nella concretezza del reale, sono verità che ci vengono proposte prima che noi possiamo comprenderle. Allora la difficoltà di comprensione e di accoglienza possono diventare, come per i contemporanei di Gesù, motivo di mormorazione e di scoraggiamento tali da farci tirare indietro. Ci dice Giovanni: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui”.
Noi tutti siamo chiamati ad accogliere e far nostra la sollecitazione di Gesù di aderire alla sua persona, prima ancora che al suo insegnamento. Domenica scorsa abbiamo ascoltato Gesù che diceva: “Come il Padre che ha la vita ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me”. La divinità di Gesù, che pure è uomo fra gli uomini e ci chiama a nutrirci della sua vita, scandalizza, è un inciampo per quanti si avvicinano a lui. Perciò la domanda che gli pone qui, all’inizio del passo odierno: “Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dove era prima?” è una domanda retorica. Gesù afferma la sua divinità, la sua preesistenza, come Giovanni ha detto fin dall’inizio del suo Vangelo : “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio… Veniva nel mondo la luce vera… venne fra la sua gente… Il Verbo si fece carne” e si chiamò Gesù.
Questa verità che Gesù ci propone non è verità umana, frutto di un suo ragionamento, ma è la verità di Dio, donata all’uomo. Credere al Vangelo è credere a Gesù. La fede che ci viene chiesta è teologale perché ha Dio per oggetto. È come se il Signore ci spingesse a dire: non credo perché capisco, ma credo a quello che tu dici, perché tu lo dici, non perché io lo comprendo. Questa è la fede di Pietro. Di fronte a quanti si allontanano, a nome dei Dodici egli risponde a Gesù che domandava: “Forse anche voi volete andarvene?”, “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo veduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.
Analoga è la professione di fede di Giosuè che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Giunti alla terra promessa gli ebrei, dopo la morte di Mosè, sotto la guida di Giosuè, la avevano conquistata. Realizzatasi la promessa, allora Giosuè convoca il popolo perché scelga liberamente la propria fede. Egli chiede una pubblica professione di fede non fondata sulla coerenza logica, ma sulla unicità di Dio e sulla memoria della liberazione che Egli aveva operato, facendo uscire gli Israeliti dall’Egitto e dalla condizione di schiavitù. Anche Pietro dice: “Abbiamo veduto e conosciuto”. Si tratta di un capire interiore, nell’intimità con il Signore, al quale ci si rende docili. La conoscenza della fede nasce proprio da questa docilità interiore.
È lo stesso processo interiore che si verifica nel nostro cuore quando siamo chiamati a perdonare, dopo aver ricevuto un torto. Se cerchiamo le ragioni del perdonare nell’altro o nella nostra capacità, finiremo per rinunciare, dicendo: “Il Vangelo è troppo in alto per me”. Ma se invece riusciamo a dire nella fede: “È Gesù che lo ha detto proprio a me” e andremo dal fratello, troveremo con lui la via della pace di quella pace che la vita di fede ci ha fatto sperimentare in Gesù.
Anche la realtà dell’Eucarestia ci sfugge se la viviamo nell’obbedienza passiva. Ma se la accogliamo nella fede, credendo alle parole che Gesù ci ha detto, scopriremo la dolcezza dell’incontro con lui.
Si tratta di un discorso difficile per la mentalità razionalistica. Credere nel Signore è un atto di fede che viene prima della mia ragione, perché è radicato sulla verità che è in Dio e che egli mi ha rivelato. L’ “Atto di fede” che noi anziani abbiamo imparato da bambini, dice appunto: “Credo perché tu sei la verità infallibile”. Il Vangelo ci appare meno comprensibile, se lo consideriamo, pensando ai nostri limiti: ci sembra troppo alto per noi, cosa adatta agli eremiti, ai sacerdoti. E allora entriamo nella tristezza di un discepolato fondato sull’obbedienza alla tradizione, senza entusiasmo. È lo scoraggiamento della ragione, lasciata a se stessa, tanto più insidioso oggi, di fronte al relativismo, fondato sulla diversità delle molteplici opinioni. Ma la fede, la fiducia nella Parola di Dio, ci aiuterà.
L’anno prossimo il processo di unificazione dell’Europa andrà avanti. Sperimenteremo così la positività dell’unità di atteggiamenti, tradizioni di vita, assai differenti tra loro. Ma dobbiamo capire che la libertà e la tolleranza sono altra cosa rispetto alla coscienza di fede, che si deve fondare in Gesù. “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”. Tu solo sei il mio vero bene, la radice di ogni mio atteggiamento è solo la tua vita di amore sconfinato, che ci riveli e ci doni, la tua presenza costante tra noi, nella concretezza del reale. L’unione coniugale che Paolo ci propone nella seconda lettura può apparire scandalo e assurdità, se non è alimentata dalla vita di Cristo, se non è fondata in lui!
Chiediamo al Signore la radicalità dell’appartenenza a lui, come unica fonte di vita.
Oggi la liturgia propone alla nostra meditazione gli ultimi dieci versetti del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni: anche per quanti hanno letto tutto il capitolo, partecipando all’Eucaristia le scorse domeniche, è utile ripercorrerne i punti principali. Dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani, la folla ebbe un sussulto forte di entusiasmo: cercò Gesù per farlo re, ma egli si sottrasse e andò a pregare sul monte. Ma il giorno successivo, nella sinagoga di Cafarnao, incontrò molti e fece loro capire che il segno del pane moltiplicato, suo gesto di amore verso la “grande folla”, non era un miracolo fine a se stesso, ma la proposta forte della sua identità. Egli è pane della parola con cui Dio ammaestra e presenza di Dio nella sua stessa fisicità, per cui, mangiando della sua carne, all’uomo è dischiusa la vita stessa di Dio.
Ci si aspetterebbe un’accoglienza grata ed un entusiasmo pieno di gioia, ed invece il Vangelo registra che “molti dei suoi discepoli … dopo aver ascoltato” sentirono “duro” l’insegnamento, <em“>si tirarono indietro e non andavano più con lui”.
Per noi che leggiamo e meditiamo insieme, in atteggiamento di preghiera, è importante lasciarci dire dal Signore che “è lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla”. La “carne”, intesa come possibilità della sola razionalità umana, non è sufficiente a riconoscere, a “discernere” come dirà S. Paolo, il pane della vita, parola e sacramento, perché appartiene alla logica di Dio e può essere accolto solo nella fede. Senza umiliarlo, ma con l’amore che aiuta, Gesù dice che l’uomo non può avere da se stesso la via della vita, ma solo assecondando “lo Spirito che dà la vita”. Perciò invita ad arrendersi fiduciosamente alla Parola che viene dall’alto, a credere che essa è portatrice di vita, a sottoporsi ad essa anche quando si presenta “dura” per l’incapacità umana di comprendere una logica “altra” da quella della logica mondana – pensiamo alle preoccupazioni per il prestigio personale, all’essere centrati sul proprio io, al perdono che non attende le scuse da chi ci ha offeso. A volte essa irrompe con l’imprevedibilità degli eventi ineluttabili, che ci appaiono ingiusti e fuori della logica dell’amore, tanto da farci dubitare della santità di Dio. Pensiamo alla sofferenza degli innocenti, a tanti bambini che sono morti in questa ultima assurda guerra nel Libano. È un linguaggio troppo duro…
L’assottigliarsi della folla dei “discepoli” è indice di come la fede possa incontrare “zone d’ombra”, anche ripetutamente. E la notte della ragione, scandalizzata dal “linguaggio duro”, può diventare “notte di Dio”, personalmente e collettivamente, anche più volte nella vita. I Dodici, che qui sembrano fedeli e concordi nella testimonianza di Pietro, al capitolo 12, nell’imminenza della passione, saranno posseduti dal buio. Gesù con accento delicato, ma amaro (quanto poco pensiamo alla sua solitudine, al suo essere lasciato solo da quelli che pur credono in lui, ma che soccombono di fronte all’amarezza della vita che li porta ad essere scandalizzati da lui) dice: “Forse anche voi volete andarvene?”. Sembra domandare una caratterizzazione personale e forte della scelta di fede, come è testimoniato dalla bellissima pagina in cui, all’assemblea di Sichem, Giosuè domanda agli Israeliti la fede personale della decisione e della volontà: “Vogliamo seguire il Signore!”.
Quando, alla fine del racconto dell’insegnamento sul pane di vita, tutti hanno abbandonato il Signore ed è con Lui, come piccolo seme, solo il gruppo dei Dodici, rimane la necessità della fede come scelta personale.
Oggi, nel momento in cui riprendiamo la vita ordinaria, la scelta di fede è come una porta per conoscere l’amore fedele di Dio e assaggiare il sapore della vita eterna. Il sapore della vita è legato al sapore dell’Eucaristia, dove Dio non appare l’Onnipotente, dove non c’è la risposta immediata alle difficoltà, dove la stessa Eucaristia è una “zona d’ombra”, “notte di Dio” che parla sul niente di sé, parola nel silenzio e vita nell’apparente inattività. L’Eucaristia richiede che non vi sia troppo chiasso intorno a lei: se sembra che Dio non parli in essa è perché noi facciamo troppo rumore, anche nello stesso culto.
La comunità cristiana di Giovanni credette che Gesù, la sua persona, è “il luogo” dove l’uomo può incontrare Dio, il tempo può sposare l’eterno, la precarietà trovare il punto fermo della stabilità. E la Chiesa, in ogni tempo, nell’Eucaristia, trova la contemporaneità con il suo Signore e in Lui trova la ragione e la forza della fedeltà, pur sapendo di essere – in senso di significatività sociale – minoranza senza rilevanza e spesso ritenuta non degna di attenzione.
Quanti uomini trovano possibilità nell’Eucaristia. Pensiamo alle scelte ardue dei giovani, all’impegno per l’amore fedele delle giovani coppie, alla fatica dell’educazione, alle responsabilità professionali sempre insidiate dall’interesse, alla pazienza fiduciosa degli ammalati, alla perseveranza dei consacrati oltre la stanchezza e le delusioni, al lavoro per la pace, costantemente smentito da sempre nuove guerre, al volontariato guardato con derisione e commiserazione. Come sarebbe possibile tanta fedeltà, senza la presenza viva di Gesù nell’Eucaristia?
La lettura del capitolo 6 di Giovanni non termina con pessimismo, ma con la professione di fede riconoscente di un popolo di discepoli, che sa dire con convinzione:
“Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna: noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.
Concludiamo oggi la lettura del capitolo 6 del vangelo di Giovanni, che la liturgia ci ha proposto per cinque domeniche consecutive. All’inizio, dopo l’episodio della moltiplicazione dei pani, Gesù aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo” e, malgrado la difficoltà dei discepoli, non aveva attenuato, ma anzi ribadito, queste sue parole. La conclusione è drammatica: “Dopo aver ascoltato dissero: ‘questa parola è dura’ ”
Lo scandalo dei discepoli deriva dall’affermazione di Gesù di essere “disceso dal cielo” (Gv.6.51) affermazione che egli non attenua, ma supera annunciando la sua ascensione, che sarà la prova piena della sua origine.
Il brano di Giovanni, nella liturgia, è preparato ed accompagnato da quello di Giosuè. Il popolo che ha fatto esperienza della verità di Dio che libera, nei quaranta lunghi anni trascorsi nel deserto, in una memorabile assemblea a Sichem – tenuta dal vecchio Giosuè dopo l’assegnazione della terra alle dodici tribù, perché la coltivassero e ne condividessero i frutti con gli altri – questo stesso popolo viene chiamato all’impegno solenne di “servire Dio”, una parola ripetuta per sei volte in cinque versetti. Essere stati messi in condizione di libertà non è solo affrancamento dalla schiavitù, ma è proposta di scelta di Qualcuno che ha operato la liberazione. Israele è stato liberato per servire Dio, e questo servizio domanda l’assoggettamento nella libertà, la relazione duratura di amore: assoggettarsi a Dio non perché schiavi, ma perché convinti della sua logica, è quello che Gesù non rinuncia a proporre. È quello che san Paolo chiede ai cristiani sposati della comunità di Efeso: uscire dal dover amare per legge, per entrare sempre meglio nell’assoggettarsi reciproco della libertà di amare.
Gesù parla di “spirito e vita” per dire che le sue parole rivelano una realtà che è sorgente, perciò pane, di vita, realtà resa accessibile dallo Spirito creatore e perfezionatore di ogni iniziativa di Dio. Si tratta della “logica di Dio”, di eccedenza e di abbondanza, che domanda a chi ne fa esperienza di accantonare, superare la legge di equivalenza, su cui si basa tanta mentalità umana, tanta legislazione giuridica che regola le relazioni tra gli uomini, compreso il matrimonio.
Gesù dice che ogni attenuazione della logica che egli rivela, nel discorso del monte come in quello del pane di vita, è un allontanamento da lui, un’attenuazione nel discepolato. Perciò accetta con dolore ma con fermezza che “da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui” e – come dice letteralmente il testo greco – “si allontanarono dallo stargli dietro”. Così il pane della prima eucarestia non sarà della folla che aveva assistito alla moltiplicazione e udito l’insegnamento, ma per un piccolo gruppo che, nell’intimità, sarà disposto a far proprio quello che la ragione rifiuta, perché fa memoria dell’amore ricevuto, si fida della verità di Colui che chiamano “Maestro e Signore” e scelgono di restare rischiando nel mettere da parte i propri dubbi e le proprie esigenze di garanzie razionali
“Forse volete andarvene anche voi?”. Un filo di tristezza nelle parole del Signore, cosciente di una crisi fra i suoi che aveva chiamato. Ma anche fermezza nel proporre una scelta nella libertà di ciascuno, invitando a chiedersi dietro a chi e a che cosa si vuole andare nella vita.
Commenta Tommaso di Aquino:
“Elimina ogni motivo di vergogna e di costrizione, lasciando alla loro libertà di rimanere o di andarsene, dal momento che Dio ama chi dona con gioia”
“Tu hai parole di vita eterna”.
Non solo le pronunci, Signore, ma le hai: tu sei la verità di queste parole!
È la confessione di Pietro, individuale e rappresentativa del gruppo, anche di ciascuno di noi, oggi.
Tu sei l’alimento per la vita, il pane per la speranza, la luce per la mente, la forza per il corpo, la prospettiva per il futuro, la certezza per l’eternità.
Pietro decide di restare, come gli ebrei commossi a Sichem.
Lo fa anche per i suoi fratelli apostoli, e per noi, vivendo già in qualche modo il servizio petrino all’umanità.
E ci affida alla potenza di amore dello Spirito perché ci liberi dalle assolutizzazioni della logica umana, schiava delle garanzie di chiarezze senza difficoltà e di cammini senza contraddizioni, di noi disponibili alla fede solo se le sue esigenze sono riconducibili a quanto ci dona sicurezza.
Quando avremo coscienza, esperienza e gioia per l’azione liberatrice dello Spirito, allora sarà anche il momento del piccolo pane consacrato dalla onnipotenza dell’amore, adorato nel tabernacolo, ricevuto nella comunione, custodito nella relazione profonda.
Due reazioni alle parole di Gesù concludono il capitolo 6 di Giovanni.
- vv. 60-66: “Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: ‘Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?’” e, dopo l’ulteriore tentativo di chiarimento, senza successo, l’evangelista annota: “molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andarono più con lui”.
- vv. 67-69. I Dodici, per bocca di Pietro, dichiarano di credere alle parole di Gesù, che però predice che anche qualcuno del loro gruppo desisterà e Giovanni annota: “Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei Dodici” (v.71).
Riflettiamo.
La possibilità di accettazione o di rifiuto della parola di Gesù si intreccia con il racconto del Vangelo e con la vita della Chiesa. Quando Gesù ebbe terminato il suo proporre se stesso come pane da mangiare, alcuni, che pure lo avevano visto camminare sulle acque agitate, salire a bordo e condurli a riva liberandoli dalla grande paura del naufragio, lo abbandonarono: “Tornarono indietro e non andavano più con lui”. Il fallimento, ammonisce Gesù, è sempre possibile, anche per chi è credente e non deve mai vivere di rimpianti. Volgersi indietro rende “non adatti al Regno”, “ricordatevi della moglie di Lot”, dice Luca (Lc.9,62 e 17,32), citando il dramma raccontato nel capitolo 19 della Genesi. Tornare indietro è perdere tutto!
Eppure i discepoli hanno difficoltà ad accogliere l’insegnamento perché lo valutano con criteri “carnali”. “Ma – dice il Signore – la carne non giova a nulla” mentre le sue parole “sono spirito e vita”, vanno accolte e comprese dal di dentro di una relazione profonda con lo Spirito, che lasci a Lui la libertà di spiegarsi come verità di Dio e dell’uomo. Il vero discepolo è colui per il quale la chiamata a seguire Gesù viene da Dio e conduce alla fede senza riserve. Non è l’informazione che fa il discepolo, la capacità culturale che punti al tutto chiaro e soddisfacente in una ricerca esasperata di concordanza fra fede e razionalità. La stabilità della fede non è frutto di una parità di condizione con Dio, ma è frutto dell’azione dello Spirito. Lui convince della verità di Gesù.
Giovanni oggi ci dice che la parola del Vangelo è il nutrimento essenziale della vita del singolo e della comunità, la sua vita per sempre. Ci dice perché Gesù insiste nel suo insegnamento: è la verità di Dio cui non rinuncia pur soffrendo per i “molti” che “tornarono indietro e non andavano più con lui”. Perciò, quasi come per una sfida d’amore ai Dodici, afferma che c’è la possibilità di una risposta positiva, fuori dalla paura, e li provoca a coinvolgersi: “Volete andarvene anche voi?”. Pietro ha presente tutto quello che hanno visto in coloro che hanno creduto, custodisce in cuore l’apertura incondizionata di Maria, la madre, a tutto quello che Gesù dice, a Cana di Galilea (Gv.2,5), la testimonianza forte e tenera di Giovanni Battista (Gv.3,29), la docilità dei samaritani (Gv.4,42), la preghiera esaudita del funzionario del re (Gv.4,50). In questo momento drammatico è lui che ha la paternità della testimonianza, sente di poterlo fare a nome del gruppo e pronuncia apertamente la splendida professione di fede: “Tu sei il Santo di Dio”, sei santo perché sei da Dio. Non è la chiarezza della conclusione razionale raggiunta, ma un’esperienza: “noi abbiamo creduto e conosciuto”. La parola di Gesù può donare vita divina, comunicarla nel presente a chi la accoglie e la custodisce e si lascia condurre sempre più dentro nella sua verità.
Nell’esperienza della fede purificata dalla accettazione dei limiti personali, che non permettono la comprensione piena del mistero di Dio, in quella resa del cuore che si fida rinunciando radicalmente alla presunzione di accogliere il suo mistero solo a patto che si conformi alle esigenze dell’uomo, proprio in questa esperienza del “tutto e del niente” che sembra di povertà umiliante, qui sta l’inizio della certezza della identità divina di Gesù, che diventa rassicurazione per la mente, pace per il cuore, senso della vita: “Da chi andremo?”
Un vero itinerario: mi fido, mi affido, trovo!
Impariamo questa verità importante. I Dodici sono stati scelti, ma non per una scontatezza. In loro resta il mistero della libertà umana: accettare o rifiutare il dono di essere stati scelti per grazia. Sarà sempre necessario, per Pietro e per noi, decidere di seguire Gesù fino in fondo. Lasciandosi penetrare dalla sua pienezza di vita attraverso la fatica di credere, guardando con fiducia il pane della vita, Parola e Carne donati per amore.
Esorta Ambrogio di Milano:
“Gesù da a tutti, ogni giorno, se stesso come pane.
Sta a te prenderlo. Accostati a questo pane.
Se ti allontanerai da lui, morirai. Se ti avvicinerai a lui, vivrai.
Accostatevi a lui e saziatevi, egli è pane.
Accostatevi a lui e bevete, egli è sorgente.
Accostatevi a lui e rischiaratevi, egli è la luce.
Accostatevi a lui e liberatevi, egli è il perdono dei peccati.”