XXIV DOMENICA T.O. – Anno B
(Is 50,5-9a; Sal.114; Giac 2,14-18; Mc 8,27-35)
Nella lettura del Vangelo incontriamo pagine più facili ed altre più difficili da proporre. Fra le più difficili si colloca questo passo, tratto dal capitolo 8 del Vangelo di Marco. Chiediamo allo Spirito Santo di dare a me la capacità di comunicare e a voi il dono di ascoltare l’annuncio che ci viene rivolto.
Alla fine della prima parte del Vangelo appare chiaro che Marco si era proposto con il suo racconto di porre ai lettori la questione dell’identità di Gesù, inducendoli alla professione di fede, come sarà evidente nella parola del centurione che assisterà alla morte in croce: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc.15,30). È il tema centrale del Vangelo e perciò è il Signore stesso a porre la domanda su di sé, in certo senso anticipando quella che poi il sommo sacerdote gli rivolgerà durante il processo: “Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?) (Mc.14,61). Vuole cominciare a preparare i suoi a quello che lo attende a Gerusalemme e purifica il loro pensiero sulle promesse di Dio, ad iniziare dai termini, prediligendo l’espressione “Figlio dell’uomo” – colui che prende su di sé tutti gli aspetti dell’umanità anche la sofferenza – a quella di “Messia” vincente, distinguendo la fede di chi è chiamato a seguirlo dall’opinione popolare: “Chi dice la gente che io sia?”, per andare direttamente alla coscienza di ciascuno: “E voi chi dite che io sia?”. È come se oggi dicesse ad ognuno di noi: “Tu, tu, chi dici che io sia?”.
Nell’opera di formazione del gruppo dei Dodici – che lo Spirito Santo continua a compiere nel cuore di ciascuno di noi – Gesù propone un salto: il passaggio dalla visione trionfalistica con cui la promessa di redenzione veniva generalmente custodita e coltivata dalla fede ebraica – nonostante le espressioni di alcuni salmi messianici e dei profeti – alla previsione che il Messia avrebbe percorso la via dell’uomo, fino al rifiuto e alla sofferenza fisica, anche se una simile previsione appariva intollerabile per la concezione di Dio altissimo, irraggiungibile dalla miseria umana. C’era resistenza anche al tempo di Gesù a pensare un Dio sconfitto, rifiutato, che sperimenta la sofferenza fisica, perché sarebbe lesivo della sua santità intrinseca, del suo onore esterno. Isaia lo aveva chiamato “Servo”, ma Pietro non lo avrebbe detto. Forse il Signore avrà avvertito questo rischio di ambiguità nella sincera proclamazione di Pietro, non la svaluta, ma domanda il silenzio, rimanda alla croce, perché solo lì sarà la rivelazione piena di Dio che ama nel Figlio. Anche noi possiamo essere scandalizzati dall’apparente sconfitta di Dio nel nostro tempo, ma il Signore capisce e ci dice che solo dopo aver contemplato la croce potremo iniziare a comprendere il disegno di Dio.
L’annuncio della sofferenza imminente riguarda la persona di Gesù, ma anche chiunque voglia seguirlo, i Dodici e, dopo loro, tutti. Questo viaggio è, dunque, di grande significato per Marco, di grande significato esistenziale per i discepoli di ogni tempo e tocca il senso stesso della chiamata di fede in Cristo: perciò il suo racconto insiste su questo con un secondo e un terzo annuncio della passione (Mc.9,30-32; 10,32-34). È talmente centrale questo cambiamento di pensiero sull’azione di Dio che, se Pietro dovesse restare ancorato al pensiero precedente, non sarebbe più un discepolo, ma un ostacolo, un Satana, come il Signore lo definisce. Da questo punto ogni comunità cristiana dovrà confrontarsi con la passione, come compimento del cammino di Gesù e proprio.
L’insegnamento è rivolto a tutta la comunità, “alla folla, insieme ai suoi discepoli”, anche se essa non poteva essere, lì, in quella circostanza. Questa folla è “convocata”, “chiamata a sé” dal Signore stesso, per una comunicazione importante, che riguarda tutti e ciascuno, in ogni tempo. I suoi discepoli dovranno guardare la strada percorsa dal Figlio dell’uomo come qualcosa che li riguarda comunitariamente ed individualmente, come una linea direttrice da non perdere di vista nella vita. Le parole di Gesù appaiono molto dure e sconcertanti, quasi in contrasto con espressioni che dicono di una provvidenza tenera e misericordiosa: ma Gesù si serve di parole dure per evidenziare la serietà e la grandezza dell’essere discepoli suoi e suoi compagni per il bene dell’umanità. La croce non è identificata con lo strumento del supplizio: non è dunque nella modalità, ma nel “rinneghi se steso”, in una rinuncia vera a disporre di sé per essere disponibili senza riserve per quello che Dio propone. Il Risorto ci dà la certezza che la croce conduce alla pienezza e alla fecondità della vita umana e all’incontro con il divino.
La predicazione del Signore rifiutato e ucciso era sgradita e lo è sempre, anche dentro la comunità credente. Nessuno può farsi maestro ad altri da sé. Rischiamo di essere odiosi quando la proponiamo a chi soffre. La preparazione alla croce vene dall’interiorità, dallo Spirito Santo, non dalle nostre parole devote. La professione di fede può essere facile, difficile è l’attuazione. Lo scandalo e la protesta nascono dall’essere colpiti nella propria esistenza. Tuttavia il Signore vuole che il messaggio raggiunga intimamente tutti i fedeli, se essi vogliono essere tra quei “qualcuno – che, come egli dice – vuole venire dietro a me”. Lasciandosi accompagnare e accompagnando, tutti questi “qualcuno” sono posti dal Vangelo sulla strada che Gesù ha fatto. È questa la pedagogia di Dio, che contribuisce a fare in modo che la professione di fede, fatta con le labbra, maturi in fede autentica e feconda: lo comprendiamo nel silenzio e nell’umiltà.
Le parole che nel mese di luglio ho ricevuto da un amico missionario, tedesco, possono aiutare ad accostarci a questo mistero:
“Mi è stato confermato che ho un tumore, metastasi distribuita nei polmoni. Non si può operare. Ho iniziato la chemioterapia. La guarigione non è prevista. La terapia aiuterà a vivere con il cancro e a renderlo più sopportabile…
Sto scoprendo una nuova dimensione di Gesù abbandonato, molto più concreta, proprio come Sposo; prima era più una parola per me, forse anche un desiderio, non tanto però una realtà.
E sono grato per questa scoperta” (Paolo, luglio 2006)
Questa sapienza è luce sul modo di condurci avanti del Signore.
Con il capitolo 8 ha inizio la seconda sezione del vangelo di Marco. Gesù è in cammino verso Gerusalemme e la sua attenzione è particolarmente rivolta alla formazione dei discepoli, perché essi possano prendere coscienza sempre meglio della propria missione. Dovranno comprendere il mistero di Lui e la loro vocazione a seguirlo in quel mistero. Emerge perciò la distinzione fra “la gente” ed i discepoli che dovranno assumere la responsabilità della risposta alla chiamata: “ma voi?”.
Marco non racconta un sondaggio, ma propone la professione di fede, alla quale ogni credente può essere chiamato. Con un ammonimento. Senza un dono dall’alto non si arriva a riconoscere il Signore, tanto il suo mistero di vita e di intervento si manifesta lontano dall’attesa, anche religiosa, che si raffigura un volto di Dio piegato alle necessità di chi crede, in una sorta di esenzione dai problemi della vita e dalle esigenze del suo pensiero. Perciò l’attenzione e la povertà di spirito.
Espressamente o tacitamente, siamo tutti come Pietro che rimprovera Dio; a lui Gesù risponde con durezza che il suo atteggiamento è tipico del pensare “secondo gli uomini, non secondo Dio”. Un Messia senza sofferenza e senza morte corrisponde alla prospettiva umana di un buon fine da ottenere con successo, opposta perciò alla croce.
Il rimprovero a Pietro è riferito da Marco – che era stato particolarmente vicino a Pietro – nonostante il rischio di “screditarlo” davanti ai lettori, perché la comunità deve sapere che “non deve crearsi la propria immagine del Messia, ma che ha in Gesù l’unica immagine di esso, il Figlio dell’uomo sofferente e risorto” (Pesch). “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” dice il Signore “voltatosi e guardando i suoi discepoli”, guardando ciascuno di noi, per dirci la verità di se stesso, la nostra verità in Lui.
Per tre volte, in questo cammino verso Gerusalemme, Gesù annuncia la passione, il suo mistero personale, e traccia le linee di vita dell’esistenza cristiana, perché chi lo segue sia discepolo e testimone, senza coltivare sogni e illusioni che possono condurre alla delusione di Dio. Il patire del Signore è la scuola dell’imitazione di Cristo. I testi profondi di un antico libro che porta questo nome lo dicono ed hanno aiutato tanti credenti, dalla fine del Medio Evo ad oggi. E Gesù invita a mettersi seriamente a questa scuola, con il rinnegamento che è necessario per essere vuoti di sé e per assumere il pensiero di Dio, la sua logica, consegnando la vita al Padre come Gesù, modello di sottomissione, ”per il vangelo”. A questa “via” cristiana non sono date alternative, dice Marco. Il potere di Gesù si manifesta nel suo stesso perdersi per amore nell’impotenza della croce, in cui si rivela come potenza di amore, che raggiunge il male nella radice della bassezza umana. La misteriosa volontà del Padre si rivela nel Figlio che porta su di sé il destino degli uomini e, così facendo, li risana e riconcilia. Perciò dice “deve soffrire molto” (Mc.8,31), attuando quanto i profeti avevano preannunciato (Is.53).
È la serietà dell’amore. La sua espressione concreta è il Figlio rifiutato, disprezzato, “consegnato nelle mani degli uomini” (Mc.10,32). Una serietà concreta, “camminava davanti a loro” (Mc.10,32), persino sconcertante che, al terzo annuncio, Marco definisce come meraviglia della gente e sgomento, spavento dei discepoli.
Dopo le parole chiare sulla serietà dell’amore di Dio che si rivela in Lui, Gesù insegna la serietà dell’amore a chi dovrà testimoniarlo, seguendolo. La sua è la via dei discepoli, che non potranno professare la fede senza rinnegarsi in quello che ne ritarderebbe la testimonianza. Occorre una grazia di luce e di forza che solo lo Spirito può donare, quella purificazione della mente e del cuore da implorare nella preghiera, perché siano superate le ambiguità che ci abitano, come quella tra il servizio ed il prestigio, il dono e il possesso … Il nostro amore non sa essere libero totalmente. La grazia di quel segno, il “tau”, che Ezechiele aveva visto (Ez.9,4), è invito a portare Lui nel cuore e nella mente. Ne viene un vero ribaltamento della concezione abituale della vita: viene definita “perduta” la vita vissuta per se stessi. I dodici che continuavano ad essere suggestionati dall’idea del prestigio, ora sanno che la vicenda di Gesù svuota la suggestione.
Le parole della lettera di Giacomo, nella loro cruda proposta, sembrano invitare i credenti ad uscire da una carenza di visione che impantana nello guardo insistito e incattivito sul comportamento altrui, con discussioni infinite e sterili, per entrare in una logica diversa, quella di Gesù, che è passione per l’umanità. Qui si radica la tradizione caritativa dei cristiani, che non si lasciano condizionare dall’incomprensione della società loro contemporanea. L’ingresso dei congregati della confraternita dei Pellegrini, nella sede ottenuta come alloggio e come ospedale a Napoli il 7 settembre 1582, vide una processione di trasferimento in cui ogni congregato accompagnava un assistito, sano o malato, autonomo o dipendente. Tempo di miseria, ma anche di assunzione di responsabilità È un riferimento non solo storico, ma che spinge ad accorgersi di urgenze paurose, quali l’evasione dalla scuola, le difficoltà dei giovani costretti a rinunziare al matrimonio per problemi economici, o i 49 suicidi nelle carceri italiane nei primi sette mesi di quest’anno, oppure ancora il dramma della disoccupazione crescente nel nostro territorio.
Cerchiamo di capire che significa oggi, per ciascuno di noi, entrare nella casa di Dio accompagnando un misero, un analfabeta …
“Chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”
Quasi a metà del suo racconto, Marco pone la domanda di Gesù ai discepoli sulla propria identità, che nella prima parte aveva voluto tenere nascosta perché la certezza di fede maturasse in loro per gli insegnamenti e i gesti. Da loro che costituivano il gruppetto scelto “perché stessero con lui” (Mc.3,14), il Signore attende non un’opinione generica, anche se in termini più alti possibili come dicono i riferimenti a personaggi famosi della storia di Israele, ma una convinzione intima, una certezza di mente e di cuore che diventi la fonte della testimonianza futura.
“Ma voi”: è un’insistenza che invita alla conoscenza più profonda. Conoscenza ed esperienza, nella consuetudine della vita condivisa, sono la sorgente di questa fonte, le radici destinate ad alimentare ed irrobustire la grande pianta della Chiesa a cui i popoli di tutta la terra approderanno nello svolgersi del tempo e di cui devono assumere la responsabilità.
È quello che fa Pietro, anche a nome degli altri: “Tu sei il Cristo”. Perciò l’atteso, la speranza, il portatore dello Spirito di Dio.
In questo momento di piena e limpida professione di fede, frutto della illuminazione della grazia, necessaria per restare saldi nella certezza della sua identità, Gesù parla liberamente del suo futuro – e lo farà ancora per due volte (Mc.9,30-32; 10,32-34). Egli sa bene che questo futuro drammatico è non compatibile con le attese di Israele, ancora sfugge a chi pensa l’intervento di Dio nella storia come sconfitta definitiva del male e vittoria trionfale del bene, a cominciare dalla fine dell’oppressione politica dell’Impero. Ma Gesù desidera la massima chiarezza. Non vuole che si confonda la sua identità con attese di questo tipo, non tollera fraintendimenti e strumentalizzazioni, quasi per ricavarne le varie forme di utilità. Chi crede a Dio – questo è l’insegnamento forte di Gesù – non gli suggerisce le strade da seguire, ma vigila per cogliere ed accogliere con docilità i segni del suo venire negli avvenimenti. Gesù parla di se stesso, non secondo il pensiero degli uomini, ma secondo quello di Dio, anche quando appare incomprensibile, insensato, contradditorio con le promesse fatte ai padri. A Pietro, e a ciascuno di noi, domanda di guardarci dalla tentazione di imporre a Dio scelte e progetti senza accogliere con fiducia i suoi dalle sue mani. Tutti partecipiamo di questo pensare umano, anche se credenti. La mente può credere, la parola può professare la fede, ma l’azione di Dio nella storia può apparire incredibile. Può lasciare delusi.
Gesù con forza dice: “Va’ dietro a me … perché non pensi secondo Dio”. Non è solo un rimprovero, uno scatto di insofferenza. È l’indicazione di un senso del vivere. Essere discepoli significa andare dietro al Maestro per apprendere, gradualmente ma costantemente e concretamente, il pensiero di Dio. “La comunità cristiana non deve farsi la propria immagine del Salvatore, ma ha in Gesù l’unica immagine di Lui, il Figlio dell’uomo, sofferente e risorto” (R. Pesch). Perciò i discepoli vengono esortati a prendere la croce come Gesù la ha portata, primo fra tutti perché tutti la portino con lui nella fiducia e nella speranza. Marco dice il pensiero del Signore con le sue stesse parole: “Chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. Questo è il modo in cui Gesù vede l’essere dei discepoli; persone segnate dal segno della croce, il “tau” del capitolo 9 di Ezechiele, segno di pace, di salvezza e di protezione. Li educa al “rinneghi se stesso” nella sottomissione di fede; al “prenda la sua croce”, affrontando l’incomprensione della mondanità; al “mi segua”, con decisione e concretezza. È lo stile del servizio!
Tutta la sapienza del Cristianesimo sta in questo termine che appare insensato, ma è radice di novità rivoluzionaria. Gesù ha fatta propria la parola “servizio” opponendola alla parola guida della mondanità che è “prevalere”. E ne ha dato l’esempio nel farsi servo che lava i piedi, Lui, il Maestro e Signore (Gv.13,1-17). Non vi sono spiegazioni razionalmente appaganti per una tale scelta di vita. L’unica motivazione per un discepolo di Gesù è seguire Lui. E Lui, parlando al cuore del discepolo nella varietà delle situazioni, domanda di non fermarsi al calcolo e alla valutazione dei comportamenti di chi gli sta vicino, gli dice: “Mettiti dietro a me” e, proponendosi come esempio, gli sussurra: “Va’ e anche tu fa’ così” (Lc.10,37).
Il discepolo che “fa così” sperimenta croce e novità di vita. Chi si vede nell’attenzione di chi lo serve, sente e trova non di rado la verità di quel Gesù di cui forse conosceva solo il nome.