XXX DOMENICA T.O. – Anno B
(Ger 31,7-9; Sal.125; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52)
Nel Vangelo di Marco il viaggio di Gesù verso Gerusalemme è molto lungo. Lo abbiamo seguito per molte domeniche, dalla metà di settembre, abbiamo ascoltato i suoi insegnamenti nel corso del cammino. I discepoli non condividevano, non riuscivano a capire l’esigenza forte del Signore, che, capofila sicuro lungo tutto il viaggio, andava verso la sua passione. Non avvertivano la profondità del suo insegnamento, eppure Gesù non si è mai stancato della loro incomprensione.
Il viaggio ha inizio al capitolo 8, quando il Signore aveva chiesto ai discepoli: “Voi chi dite che io sia?” e Pietro per tutti aveva risposto: “Tu sei il Cristo”. Subito dopo, però, Gesù aveva dato l’annuncio della sua passione, annuncio ripetuto per ben tre volte lungo il cammino. Ora egli è alla soglia di Gerusalemme: guardiamo con attenzione il testo, per meditarlo poi, anche nel corso della settimana.
Entra con Gesù a Gerusalemme solo chi si fida lui, del suo andare verso la croce. Anche oggi. Ciascuno di noi può entrare solo se riesce ad avere la vista, la capacità di vedere la vita così come la vede il Signore. Non dobbiamo perciò restare a Gerico, la città che si trova in una depressione, sotto il livello delle acque del lago. Gerico è la città del commercio, degli affari. La nostra vista può essere sanata se intraprendiamo anche noi la salita da Gerico verso Gerusalemme, da discepoli coscienti di tutti i nostri limiti. Come il cieco che invoca Gesù, che intraprende quella salita: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!” e va da lui gettando via il mantello. Con quel gesto egli attua quanto il Signore, al capitolo 8 aveva chiesto ai discepoli come condizione indispensabile per chi volesse seguirlo: ” Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso…”. Il gesto del cieco fa capire il senso della chiamata del Signore. Alle soglie di Gerusalemme i discepoli capiscono concretamente quello che egli aveva chiesto loro il giorno in cui li aveva incontrati. Nel primo capitolo Marco ci descrive Gesù che incontra Pietro ed Andrea, Giacomo e Giovanni e dice loro: “Seguitemi, vi farò pescatori di uomini!” Il discepolo è colui che vuole condividere l’amore di Dio per l’umanità, che diventa sempre più capace di pagare di persona, di spendersi totalmente per l’altro. Seguire concretamente Gesù significa dare la propria vita per l’umanità.
Nel nostro presente, allora, non consideriamo un ostacolo chi ci chiede l’elemosina, non sgridiamolo per farlo tacere. Fermiamoci, perché il mendicante è amato da Dio. Ascoltiamo, meditandola, la descrizione di Marco: il cieco “cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”. Allora Gesù si fermò e disse: “Chiamatelo!”. E chiamarono il cieco dicendogli: “Coraggio! Alzati, ti chiama!”. Egli gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”.
Facciamoci anche noi annunciatori di Dio. Diveniamo capaci di annunciare solo lui, solo l’infinità del suo amore, divenendo poveri interiormente, lasciando cadere, come il cieco, il nostro mantello. Diventiamo poveri dall’attaccamento non solo ai nostri beni economici, ma anche a quelli sociali, culturali, poveri di ogni sicurezza. Questo richiede il cammino verso Gerusalemme, dietro un Dio sconcertante, che chiede al cieco, chiede ad ognuno di noi: “Che vuoi che io ti faccia?”. Nessun uomo è ripugnante per Dio, egli attende comunque l’uomo, ascolta il suo grido, lo ama comunque. Al discepolo è chiesto di farsi relazione con il povero, con ogni povero, di farsi tramite tra Gesù che attende ogni uomo e l’uomo che deve essere liberato.
Il cieco è l’icona del discepolo. Egli ci indica quale deve essere il nostro giusto orientamento nell’incontro con il Signore e quale la verità dell’impegno nella risposta.
Per sentire il beneficio dell’incontro con il Signore dobbiamo prendere coscienza di essere tutti ciechi e mendicanti. Ma l’incontro con lui non si improvvisa. È necessario imparare sempre meglio che non dobbiamo andare verso Gesù per parlargli dei problemi della nostra vita a Gerico, dei nostri desideri individualistici. Andare verso di lui richiede invece soprattutto l’ascolto della sua Parola, la contemplazione di come lui ha vissuto, ha incarnato la Parola. Confrontiamo il suo e il nostro atteggiamento: Gesù nell’Eucarestia ci dona il suo corpo e il suo sangue, noi tutto vogliamo conservare a nostro personale beneficio. Chiediamo la grazia di incontrare Gesù e di imparare a seguirlo! Dice Agostino: desiderate la luce che è Cristo! Il cieco chiese quella fisica, tanto più noi chiediamo quella del cuore! Egli si fermerà al nostro grido.
Il secondo punto è l’assunzione dell’impegno, andare anche noi a Gerusalemme per essere sempre più corpo e anima donati. Madre Teresa di Calcutta è il segno di questa vita donata. Dobbiamo cercare di vedere tutta l’umanità con la sua ottica, comprendere il grido della povertà umana, comprenderlo nel silenzio del singolo, nella violenza delle folle, nell’odio e nella ribellione che ottundono fino a fare arrivare al terrorismo, nel dolore cupo del magistrato che ha dovuto dire al collega: “Devo arrestare tua figlia”. Noi non comprendiamo l’alfabeto del povero, eppure per comunicare il Vangelo dobbiamo comprendere il grido dei poveri, dobbiamo divenire sempre più capaci di farci mediatori del corpo de Signore donato, del suo sangue versato per tutti i poveri della storia. I poveri si incontrano lungo le strade della laicità e per farlo il discepolo si deve sentire sempre più costretto a seguire Gesù verso Gerusalemme, per imparare a diventare dono per gli altri.
Chiediamogli di comprendere questo cammino, di ricevere dalla grazia di Dio il dono di percorrerlo fino alla fine dei nostri giorni.
È la conclusione del viaggio di Gesù e dei suoi verso Gerusalemme verso la croce: Marco lo ha raccontato unendovi la trasmissione fedele degli insegnamenti del Signore per formare i discepoli – quasi il suo testamento – primo interesse dell’evangelista. L’episodio del cieco mendicante è nel punto in cui comincia la salita dalla depressione di Gerico a Gerusalemme e quindi ha forte sapore simbolico.
Il cieco mendicante ha sentito parlare di Gesù e questo ha avuto in lui particolare risonanza. Ora grida la sua sofferenza, il suo bisogno di aiuto, ripetutamente, con l’invocazione : “figlio di David”, conosciuto dalla tradizione ebraica come titolo del Messia, che avrebbe avuto in dono sapienza, autorevolezza di insegnamento, potere sul male e sui demoni. Nell’oscurità e nella solitudine della sua situazione di mendicante cieco, Bartimeo avrà fatto l’equazione fra Gesù e il Figlio di Davide. A lui, come inviato da Dio, sale il suo grido. Marco annota che è circondato da persone, molte, che tentano di dissuaderlo, come per evitare di dare fastidio, o forse per convincerlo dell’inutilità di gridare. Così Bartimeo oltre al peso della propria sofferenza personale deve anche subire quelli che non accettano il suo grido; ma supera la prova, insiste, fino ad udire la risposta che in realtà è una chiamata, fino alla corsa verso il Signore dopo “aver gettato via il mantello” che gli serviva per coperta di notte e per raccogliere le elemosine di giorno.
Nel racconto si coglie l’interesse personale di Gesù, che smentisce quanti vogliono zittire il cieco e dice: “chiamatelo” e poi, come nel passo precedente aveva chiesto a Giacomo e a Giovanni, “che cosa vuoi che io faccia?”. E si coglie in “Rabbunì” – “Maestro” – l’espressione di Maria di Magdala al Risorto, accanto al sepolcro vuoto (Gv.20,16): la fede è più della guarigione. Maria in questa parola riconosce nella fede il Risorto, che la chiama per nome, e Bartimeo incontra Gesù che darà nuovo senso alla sua vita: non più preoccupato dei propri occhi, diventa uno che segue, un discepolo. E comincia anche lui a percorrere la via della croce, quella di Gesù.
Così quest’episodio diventa un paradigma del discepolato e il cieco guarito l’esemplare del cristiano che segue Gesù, che conosce e condivide il pensiero e le scelte del Maestro. Il racconto è come una risposta concreta ai due discepoli che abbiamo incontrato domenica scorsa, un po’ presuntuosi, un po’ superficiali, “ciechi” al vedere in Dio. Marco così ci ammonisce che si può essere discepoli e continuare a non vedere. È per tutti un invito alla conversione.
Ci si può domandare quali sono gli ostacoli alla speranza nei credenti, dove si radica la mancanza di libertà interiore che impedisce di sentirsi limitati, “mendicanti” e rende inerti, incapaci di “vedere” con lo sguardo del Signore e fa paurosi di “gettar via il mantello” per seguirlo con decisione personale sulla sua strada.
– Innanzitutto c’è un atteggiamento istintivo in molti di noi, pur credenti, quello di addossare ai “molti che lo sgridavano per farlo tacere” – cioè al mondo che la pensa diversamente – la paralisi dello spirito che sovente ci rende inerti. Non si può negare il condizionamento oggettivamente negativo di quanti fanno da dissuasori della speranza in Dio, ritenendolo “irrilevante” e ci condizionano. Tuttavia Marco non si attarda sui dissuasori, ma indica nella libera decisione personale di Bartimeo la possibilità dell’incontro con il Signore. Non appartiene al Vangelo imputare all’incomprensione del mondo la difficoltà dell’atto di fede. Gli appartiene invece il rimando al cuore, il cosa si ama, perché “là dove è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore” (Mt.6,20). Così, per Marco, mentre il giovane ricco, incapace di distacco, resta senza un nome, come un “non discepolo” (Mc.10,21), il cieco Bartimeo, che si distacca anche dal mantello, è seguace ed è modello di discepolato, il che è il massimo della realtà del nome.
Non si incontra il Signore senza decisione personale. La scelta di Dio è l’impegno dell’uomo libero in ogni tempo.
La crisi che tante volte ci abita dipende dal divaricarsi tra ragione e cuore. La razionalità è così fortemente specializzata da diventare arrogante, pretesa di certezza fino al punto di negare la possibilità di andare oltre, fino alla violenza di impedire all’interiorità dell’uomo di espandersi nella speranza, di “vedere” come in un panorama unitario il positivo e il negativo, la chiarezza e l’oscurità, assegnando il negativo e all’oscuro la prova della non-verità di Dio. E da questa pretesa vengono angoscia e disperazione. Marco, chiamandoci a seguire il Signore nella sua strada, mentre siamo ciechi e mendicanti, ci domanda di fidarci, con maturità, della Parola di Dio. La speranza è virtù umile, per Geremia è come un ramoscello di mandorlo fiorito: il fiore del mandorlo è segno di debolezza timido e debole, ma anche chiaro segno della forza della vita.
Domandiamo il dono della libertà interiore per invocare il Signore, anche quando il nostro grido non viene condiviso da quanti ci sono vicini; la libertà di correre con prontezza incontro alla voce che ci chiama, anche quando dovesse comportare forme diverse di solitudine, di adeguare la vita personale alle esigenze di essenzialità e sobrietà che la strada del Vangelo comporta, anche se ci definiscono “fuori dal mondo”. Così potremo tornare ai fratelli – anche e prima di tutto a quelli che ritengono irrilevante la fede – non per ragioni umane di ricerca di consenso o per mondanizzare la fede stessa con il successo, non per scopi politici o economici, ma per proporci come umili e poveri seguaci dell’uomo della croce, che in Lui hanno intuito la verità di Dio, si sforzano di seguirlo, tentano di testimoniarlo.
Questa è la questione “seria” che Marco ci propone.
Prima di descrivere l’ingresso di Gesù a Gerusalemme e l’inizio della passione, Marco racconta l’episodio di Bartimeo, il mendicante cieco seduto ai bordi della strada che attende e chiede l’elemosina gridando. Un grido che diventa più alto quando sente che a passare è Gesù, di cui qualcuno gli aveva parlato.
“Molti” di quanti erano attorno al Signore non lo aiutavano, ma lo ostacolavano, “lo rimproveravano perché tacesse”, ma “egli gridava ancora più forte”, con l’ostinazione di chi non ha vie di uscita”.
Marco ci vuol dire, con questo che è l’ultimo miracolo di Gesù nel suo racconto, che cosa significa “avere fede” e “seguire come discepoli”. Solo chi ha la fede, solo l’uomo che si lascia aprire gli occhi dall’azione dello Spirito Santo, può capire Gesù e “seguirlo per la via”. Così è libero “da” ed è libero “di”.
Marco invita a comprendere come un’adesione superficiale, che è preoccupata solo degli schematismi che pretendono di spiegare tutto o presume di ottenere sempre esaudimenti e benefici, non tollera il “disturbo” di chi grida e non fa il cammino di Gesù.
Il grido che continua con ostinazione, è il segno di una preghiera che non si arrende, anche nell’incomprensione di quelli che circondano Gesù. Quante volte l’impressione di non essere esauditi ci rende chiusi nell’amarezza e ci fa sperimentare la solitudine! Ma Gesù si accorge, si ferma: quest’uomo che grida è la realtà più importante nel presente, nel momento che sta vivendo sulla strada, e dice di chiamarlo.
Costringe la gente ad accorgersi, a pensare con lui, a cambiare atteggiamento: “coraggio… alzati… ti chiama…”. I discepoli, dice Marco, devono imparare a non distogliere lo sguardo “dalla propria gente” (Is.58,7), gente che soffre e grida, e non lasciarla “lungo la strada”. Dare cuore e speranza è il loro compito, aiutare a rimettersi in piedi, rendere consapevoli che Gesù sa ed è presente, che attende e può dare la capacità di vedere il cuore di Dio, e dal di dentro di quel cuore vedere la realtà, capire il significato del proprio dolore e della vita senza spiegazioni. Questa la risposta al grido. Marco dice che nel grido non c’è solo il desiderio della guarigione, ma anche quello di guardare in alto per poter vedere nel modo giusto gli uomini, gli avvenimenti, tutto il creato, in modo da scoprirvi l’amore e la provvidenza di Dio.
Questo “vedere in Dio” permette di fare il cammino della croce senza scandalizzarsi e senza restare nell’incomprensione, come accadde ai discepoli che, perciò, restano ciechi perfino dopo la resurrezione (Mc.16). Bartimeo potrà seguire Gesù nella passione senza disperarsi, perché vi vedrà la presenza del Padre che abita con il suo amore nel Figlio, fino all’impotenza amara della morte.
Ogni discepolo di Gesù deve testimoniare queste parole: “Coraggio, alzati, ti chiama”
Per annunciare il Vangelo agli uomini di ogni tempo.
Marco spiega la vita che nasce dall’incontro con Gesù descrivendo con attenzione la forza e la gioia incontenibile del cieco che la sperimenta. È come una vita che esplode per il vigore. Il cieco mendicante è pienamente se stesso, non si nasconde più nel mantello, lo getta via; non sta più seduto lungo la strada, ma balza in piedi e cammina con Gesù; la strada non è più luogo di separazione, ma di colloquio e di vita insieme.
Nei diversi episodi del capitolo 10, che abbiamo letto per quattro domeniche, con la parola di Gesù sul matrimonio, sui bambini, sulla ricchezza, sul servizio disinteressato, Gesù ci toglie l’oscurità dagli occhi, dalla mente e dal cuore.
E Marco ci dice che l’incontro con Gesù moltiplica la vita.
“Va’ la tua fede ti ha salvato”
Ancora la fede, come sempre nella relazione tra Gesù e l’umanità, la chiave che apre la strada alla possibilità di porsi vicino a Dio senza resistenza e senza timore, con umiltà e fiducia.
Bartimeo è il nome che Marco tramanda alla memoria di quanti lo leggeranno nel tempo, del mendicante che dal margine della strada grida il suo bisogno e la sua fiducia nel “Figlio di Davide”. È un grido che vince l’opposizione di quelli che vogliono dissuaderlo come un disturbatore, e lui che grida ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me”. Marco evidenzia la perseveranza della preghiera, la prontezza ad alzarsi e a correre verso Gesù che passa con tutta la ricchezza della compassione che lo spinge sulle strade della sofferenza dell’umanità, una compassione che accantona ogni altro interesse, in un coinvolgimento stretto: lo fa chiamare, gli pone domande, lo ascolta, lo esaudisce, per mostrare che Dio non è disturbato dal grido dei poveri, ma è capace di trasformare la povertà che grida e tanto disagio suscita nei rapporti quotidiani, tanta vergogna mette addosso quando la si vive in prima persona.
Quello di Gesù è il “farsi prossimo” vero e concreto che fa sentire amato chi viene avvicinato, non come un numero impersonale che si declina quasi come un “avanti il prossimo”, intendendo chi incontrerò un’altra volta. È il farsi prossimo che spinge la persona amata ad alzarsi, a gettare il mantello, che fa decidere di seguire il Maestro fino alla croce, di avere compassione per chi ne ha avuta per sé. Il miracolo non è uno sconto della passione, ma un dono operato da Dio in un uomo perché possa essere in grado di accompagnare il Signore “più da vicino”, come la Chiesa definisce i chiamati alla vita consacrata, proprio perché il miracolo gli ha aperto gli occhi, gli ha svelato la compassione di Dio. Sarebbe una cattiva interpretazione dell’azione di Dio se la si intendesse come un’esenzione dalla via di Gesù, come abbiamo sentito domenica scorsa. Il senso vero di questa azione è il conforto assicurato al discepolo che percorre quella via con fedeltà. Perciò la liturgia ci dona le parole di Geremia che annunciano la trasformazione del dolore e del pianto dei deportati in gioia, in uscita dalla sofferenza, come la gioia dell’antica liberazione dalla schiavitù, della fine dell’esilio.
Il frutto del prodigio è la scoperta dell’auto proclamazione di Dio: “Io sono un padre per Israele”.
Il tema della luce percorre tutta la Bibbia con grande evidenza, dal racconto della creazione alla profezia dell’Apocalisse con lo splendore luminoso della città nuova, la Gerusalemme definitiva.
L’Antico Testamento preferisce non rivolgersi a Dio con il vocabolo “luce”, per evitare contaminazioni con il paganesimo che attribuiva agli astri onori divini. Ma il Nuovo Testamento afferma che Gesù è “la luce”, che la sua persona e la sua dottrina rendono luce anche i suoi seguaci, nell’essere e nel fare. Gesù compie quello che la Scrittura antica aveva previsto per il tempo messianico. È “luce per illuminare le genti” (Lc.2,32); di lui Giovanni dice: “Venne nel mondo la luce vera” (Gv.1,9). Per Gesù anche l’uomo è luce, figlio della luce, che deve risplendere come tale per il mondo (Mt.5,14-16).
Gesù è guida, modello, medico, ma non si esaurisce nelle guarigioni. Ridona la vista ai ciechi facendoli discepoli della sua strada. Perciò la cecità non è pensata soltanto come malattia, ma come condizione umana di quanti non sanno riconoscere Lui come luce e restano nelle tenebre. Chi lo riconosce e grida a Lui è nella luce.
La fede è puro dono di Dio, è grazia. Perciò il messaggio di oggi non è centrato tanto sulla guarigione quanto sulla compassione di Dio per l’umanità, quella grazia che “apre il cuore”: “Ciò non proviene da voi, ma è dono di Dio” (Ef.2,8). Solo la coscienza grata di questo dono toglie la presunzione di avere in se stessi la strada della realizzazione e fa vivere la libertà che rende disponibili alla sottomissione a Dio nella fede.
Il “gridare più forte” del mendicante cieco è invito a perseverare nella ricerca di Chi chiama a sé e tante volte sembra introvabile. L’uomo di fede è sempre nella ricerca umile di chi non presume di sé.
L’atteggiamento concreto è quello di “gettare via il mantello”, che è simbolo della sicurezza e del calore della propria casa, per adeguare il proprio comportamento a quello che si è compreso, sia pure parzialmente. Infatti il Signore ha detto: “Chi fa la verità viene alla luce” (Gv.3,21).
Così luce e cammino di fede si identificano, secondo la lunga tradizione spirituale cristiana:
“Che io ti cerchi desiderandoti,
che io ti desideri cercandoti,
che io ti trovi amandoti,
che io ti ami trovandoti”
(Anselmo di Aosta, Proslogion 1)